Il socialismo in un solo paese
Economia – Capitolo 3
«Che cosa è la possibilità della vittoria del socialismo in un solo paese?
È la possibilità di risolvere le contraddizioni tra il proletariato e i contadini poggiando sulle forze interne del nostro paese, è la possibilità della presa del potere da parte del proletariato e dell’utilizzazione del potere per edificare una società socialista integrale nel nostro paese, con la simpatia e con l’appoggio dei proletari degli altri paesi, ma senza la previa vittoria della rivoluzione proletaria negli altri paesi.»
Iosif Stalin
L’idea di Stalin
Nel 1923, mentre Lenin è ritirato a vita privata per far fronte al suo precario stato di salute, il neo Segretario Generale del partito Iosif Stalin presenta al XII Congresso la sua teoria del socialismo in un solo paese. Questa importante innovazione nella dottrina parte da una spregiudicata analisi della condizione attuale delle istanze rivoluzionarie al di fuori della Russia. La disfatta del tentativo di insurrezione in Germania tra il 1918 e il 1919 dimostra, secondo una parte della dirigenza bolscevica, la fallibilità della teoria di una ventura rivoluzione in Europa. Un’altra parte della dirigenza è di diverso avviso e crede che l’insurrezione in Europa sia fondamentale per la sopravvivenza dello stato sovietico, ma dopo un acceso dibattito è la linea di Stalin a prevalere.
Consolidare lo Stato
Il partito quindi riorienta le proprie priorità intorno ad un unico grande obiettivo: consolidare lo Stato sovietico, dimostrando al resto del mondo che edificare il socialismo è un obiettivo possibile. Per farlo, diventa ancor più necessario colmare la distanza con lo sviluppo economico dell’occidente, superare l’arretratezza tecnica che impediva una maggiore produzione agricola, migliorare l’efficienza degli impianti industriali. Nel 1927 viene promosso il primo piano quinquennale, un piano di sviluppo che avrebbe portato la produzione industriale a un incremento del 20% all’anno: una crescita senza precedenti.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del terzo pannello della mostra, allestita con un manifesto, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, un numero del giornale satirico «Krokodil» e i frontespizi di due pubblicazioni, Réflexions sur l’économie dirigée di Henri De Man e Le “plan” di Eugène Varga.
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Kit didattico: Che cos’è la patria?
Il nazionalismo economico nell’analisi di Rosa Luxemburg
Patria
Il rapporto tra Guerra e Globalità
Kit didattico: Che cos’è la patria?
Tra i più importanti cambiamenti messi in atto dalla Grande Guerra c’è sicuramente il concetto di Patria, dalla sua esasperazione fino al suo annullamento.
Il kit didattico si sofferma sull’analisi e la riflessione che portano queste due parole chiave ad esprimere il significato di patria. Addentrandoci nei testi scritti di Boine e Brooke, di Jessie Pope, di Owen, ma anche nel discorso a Quarto di D’Annunzio, possiamo riconoscere quali sono state le ragioni esasperanti che hanno fatto saltare le convenzioni di pace stabilite prima della guerra del ’14-’18?
Cosa pensiamo di Cesare Battisti, eroe nazionale ed irredentista giustiziato a Trento dagli austriaci, nel 1916, che ci lascia in eredità un pensiero: “la patria è quella che si sceglie e non quella in cui si nasce”? Ma la patria è anche il controllo delle risorse. Per i britannici, “padroni dei mari”, è impossibile non reagire quando nel maggio 1915 il transatlantico Lusitania affonda e la guerra chiama in causa anche gli Stati Uniti. E ancora: finita la guerra, dopo il trattato di Versailles del 1919, a quali regole la patria dovrà attenersi?
Il nazionalismo economico nell’analisi di Rosa Luxemburg
- La più celebre polemica in cui si è cimentata Rosa Luxemburg (1871-1919) fu quella contro E. Bernstein, che voleva incanalare il movimento operaio verso una strategia riformatrice, abbandonando ogni proposito di rivoluzione. Fu tra le più lucide nel sottolineare che sarebbero state le classi dominanti a tradire i principi liberal-democratici, quando le riforme ne avessero intaccato i privilegi economici. Il socialismo, che era l’unica organizzazione di peso a difendere la democrazia borghese, era cioè obbligato a non rinunciare ai propositi rivoluzionari, perché sarebbe stata la logica storica delle riforme a imporne la razionalità, pena il disfacimento sociale e la nascita di sistemi autoritari. E di disfacimento sociale in effetti si trattò quando i riformisti tedeschi appoggiarono i crediti di guerra, dai quali scaturì il Primo Conflitto Mondiale, che cambiò il volto del Mondo aprendo la stagione della violenza politica e dei totalitarismi. Per altro Luxemburg fu tra le prime a scorgere nella prassi del bolscevismo russo giunto al potere i prodromi di forme di autoritarismo. E fu vittima di una situazione politica dove le tendenze rivoluzionarie, isolate dalla parte più consistente del movimento socialista, diedero l’occasione alle forze della reazione di imporre la propria logica, perfino alla socialdemocrazia. Il fallimento della rivoluzione in Germania fu all’origine di convulsioni sociali e politiche gravide di sciagure devastanti: perché rese realistica la politica del “socialismo in un solo paese” in Russia e perché la Germania si incanalò verso il nazismo e il Secondo Conflitto Mondiale.
- Il destino delle menti più lucide è segnato, come la storia insegna: imprigionata e alla fine assassinata, Luxemburg ebbe il tempo di scrivere un’opera a tutt’oggi fondamentale, L’accumulazione del capitale, tradotta in Italia nel 1960 dalla Einaudi. E’ un classico del pensiero socialista, che si contraddistingue per tre aspetti: come critica di alcune parti della teoria economica di Marx, come svolgimento di alcune sue linee di pensiero, infine come interpretazione del nazionalismo economico. Il libro argomenta come la realizzazione del profitto soffra di un limite intrinseco, di cui Marx non si sarebbe accorto: la carenza di domanda pagante. Per questo motivo il capitale ha bisogno della continua conquista di nuovi mercati, utilizzando ogni strumento di cui lo Stato è capace. La globalizzazione dei mercati è dunque una necessità inderogabile e può avvenire in forme diverse, a seconda dei contesti storici: conquiste coloniali, politiche imperiali, creazioni di grandi “spazi economici”, conflitti tra stati capitalistici per il dominio del mondo. Il commercio estero, le politiche fiscali, il debito privato e pubblico, il protezionismo, il capitalismo bancario e finanziario, il militarismo, la guerra: sono altrettanti strumenti che il capitale utilizza per creare o conquistare i mercati che sono indispensabili alla sua sopravvivenza. Vengono considerati permanenti i meccanismi che Marx analizza nel capitolo del Capitale dedicato alla “accumulazione originaria”: espropriazione violenta delle risorse naturali (terra anzitutto) e loro mercificazione; creazione del moderno proletariato, che deve essere libero di circolare; rovina delle forme non borghesi di proprietà e di organizzazioni sociali e statuali; diffusione della proprietà privata, che è però ciclicamente sottoposta a processi di concentrazione che hanno immensi costi sociali. Il capitalismo vive grazie alla distruzione di forme di società non capitalistiche e scatena inevitabili conflitti inter-capitalistici. Luxembirg passa in rassegna la storia della politica imperiale dei paesi dominanti in Algeria, India, Egitto, Turchia, ma anche i processi di sviluppo capitalistico interni ai paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti.
- Si tratta di un’analisi che critica alla radice alcune pretese della scienza economica. L’assenza di crisi economiche, il libero scambio, il pacifismo commerciale, la crescita armoniosa di tutti i partecipanti allo scambio di mercato, lo Stato minimo, l’opposizione tra Stato e mercato, la distinzione tra politica ed economia, la differenza tra legalità e illegalità, tra forza e violenza, tra morale e immorale, il compromesso tra crescita, disuguaglianza e uscita dalla povertà: si tratta di precari stati di equilibrio destinati ad essere continuamenti superati, sono altrettante forme di utopia, nel peggiore dei casi si dimostrano dei paraventi ideologici che non permettono di cogliere le più intime e inderogabili leggi di sviluppo del capitalismo e che nascondono le reali poste in gioco della concorrenza. Lo Stato gioca un ruolo imprescindibile non solo nella nascita, ma anche nello sviluppo del capitalismo. La politica fiscale è uno strumento indispensabile alla mercificazione e dunque alla monetizzazione di ogni aspetto della vita sociale e naturale. La creazione della proprietà privata che genera il proletariato e la mercificazione delle risorse. La nascita dell’economia monetaria e del commercio e l’indebitamento privato creano le distinzioni di classe e ne generano le lotte. L’indebitamento pubblico marca la gerarchia e il conflitto tra Stati. La politica di potenza e la guerra sono fenomeni connaturati al capitalismo. La crisi non è un accidente dello sviluppo capitalistico, ma il suo stato normale, perché ristabilisce le distinzioni di classe e la gerarchia tra Stati. In effetti non esiste il capitalismo, esistono i capitalismi nazionali. Il nazionalismo è la logica dell’accumulazione capitalistica. E’ un punto di vista che, perfino per gli ottimisti, vale la pena di prendere in considerazione: per comprendere le forze reali sottese al montante nazionalismo; e come antidoto all’utopismo.
- Tra i più acuti interpreti della Luxemburg in Italia si annovera Lelio Basso, che nel 1972, con Editori Riuniti, ne ha raccolto alcuni scritti. Si tratta di uno dei padri dell’articolo terzo della Costituzione italiana. Rimuovere, con l’azione pubblica, gli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono l’effettivo godimento dei diritti fondamentali dell’uomo, non ha solo un intento etico: lo sviluppo del capitalismo va infatti imbrigliato con programmi di giustizia sociale (diritti sociali, redistribuzione della ricchezza e delle opportunità, politica industriale e sociale), per evitare lo scatenarsi di conflitti che costituiscono le condizioni oggettive dell’affermazione dei regimi autoritari e del fascismo. Solo un impasto di ingenuo idealismo e di dilettantismo, oggi, potrebbe negare che le crescenti diseguaglianze sociali sono all’origine della rinascita di vocazioni “sovraniste”. Solo l’irresponsabilità potrebbe negare che il nazionalismo odierno nasce dal fallimento del riformismo, che poco ha fatto per contrastare la polarizzazione sociale, mentre si è affidato ciecamente ad una visione esclusivamente ottimistica della globalizzazione, aderendo a gran parte delle dottrine neo-liberiste. Solo il fallimento dell’Europa politica e sociale può spiegare la rinascita della conflittualità tra Stati all’interno della stessa Europa. Solo la più completa mancanza di memoria storica può ritenere paradossale che il nazionalismo venga incontro, a modo suo, alle aspirazioni sociali che un tempo erano rappresentate dai partiti dei lavoratori.
- Le pagine della Luxemburg rimandano a quelle di Marx anche perché è vivissima la testimonianza di come il mercato e il capitalismo siano solo un modo particolare di produrre e di distribuire la ricchezza. Sono testimoni oculari della distruzione dei modi di produzione pre-capitalistici e del disastro sociale che questa distruzione ha comportato. Al tempo stesso, hanno avuto anche la forza di non rimpiangere il tempo passato, come invece aveva fatto Sismondi, un autore che pure Luxemburg valorizza nel proprio libro, perché tra i primi a mettere in luce il problema della carenza di domanda pagante e a mettere al centro del discorso politico e sociale la nuova classe creata dal capitalismo, il proletariato. Non hanno avuto rimpianti, perché hanno colto con estremo rigore anche gli aspetti positivi del mercato e del capitalismo: cioè l’immensa capacità di aumentare le forze produttive del lavoro. Per il marxismo il problema della scarsità è stato tecnicamente risolto grazie al capitalismo: il problema della scarsità (di reddito, di risorse, di opportunità, di ricchezza) diventa un problema esclusivamente sociale grazie al capitalismo; che dunque ha fatto il proprio tempo e, in un modo o nell’altro che solo il concreto divenire potrà definire, ma sicuramente opponendo una resistenza violenta e tremenda, verrà superato nel socialismo. E’ importante ricordare che un autore liberale come J.M. Keynes, che pose al centro della propria riflessione l’insufficienza di domanda pagante, addirittura nel bel mezzo della Grande Crisi degli anni trenta ebbe il coraggio di proporre il tema della scomparsa del problema della scarsità. Ed era stato sempre Keynes, a metà anni venti, a ricordare che solo nei paesi più ricchi sarebbe valsa la pena tentare esperimenti di superamento del capitalismo, perché solo in essi vi erano le condizioni oggettive per farlo. Utopia, si dirà. Abbandonati la lettera e lo spirito della Costituzione; abbandonati i propositi di economia regolata del migliore europeismo, quello del Manifesto di Ventotene; dilagati in tutta Europa i principi del liberismo: siamo oggi arrivati, probabilmente, ad un punto di svolta, perché il nazionalismo economico ha l’occasione di una grande vittoria nel cuore dell’Europa. E si riaffaccia la possibilità moralmente inaccettabile che solo per la guerra l’umanità sia in grado di mobilitare una quantità davvero immensa di forze ideali e produttive.
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Patria
Con un’introduzione di David Bidussa
Descrizione dell’eBook
Cent’anni fa Cesare Battisti moriva nel cortile del Castello del Buon Consiglio, a Trento, condannato come traditore. Era il 12 luglio 1916 più o meno a mezzogiorno.
Per gli austriaci era il reprobo, per i nazionalisti italiani un eroe, per i socialisti, suoi compagni di partito, un punto interrogativo. Chi fosse Battisti per davvero nessuno lo sa.
Tutti ne parlano come un traditore o come un martire. Poi alcuni si ricordano che era un socialista, amico di Gaetano Salvemini; pochissimi sanno che era un geografo con una conoscenza approfondita dei problemi politici, economici e sociali delle sue terre. Tutti si ricordano del suo passaggio di frontiera ma non traggono le conclusioni: la patria si sceglie, non è solo il luogo in cui si nasce. È dove si prova a ricominciare.
Non valeva solo nel 1914.
Cesare Battisti testimonia dell’Europa delle patrie di allora o parla anche a noi ora, di qua dal Mediterraneo? E noi quale confine stiamo difendendo, e da che cosa, e quale identità europea?
Conosci gli autori
Cesare Battisti (Trento 1875-1916), laureato a Firenze con una tesi di geografia trentina si impegna giovanissimo in politica. Fonda nel 1895 a Vienna il primo periodico socialista trentino “L’Avvenire”. Nel 1900 fonda “Il Popolo” il suo strumento di polemica e di battaglia politica fino al 1914. Rappresenta i trentini nel Consiglio comunale di Trento (dal 1902), al Parlamento di Vienna (dal 1911), alla Dieta di Innsbruck (dal 1913). Il 12 agosto 1914 passa la frontiera austriaca verso l’Italia. Scoppiata la guerra sviluppa da Milano un programma di sensibilizzazione a favore del coinvolgimento dell’Italia nella guerra. Si arruola nel V Reggimento alpini. Catturato il 10 luglio 1916, è condannato a morte da un tribunale militare il 12 luglio e lo stesso giorno impiccato nel Castello del Buon Consiglio a Trento.
David Bidussa, storico sociale delle idee. È il responsabile delle attività editoriali e didattiche di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Ha pubblicato: La France de Vichy (Feltrinelli, 1997); I have a dream (BUR, 2006); Siamo italiani (Chiarelettere, 2007);Dopo l’ultimo testimone (Einaudi, 2009); Leo Valiani tra politica e storia (Feltrinelli, 2009). Con Fondazione Feltrinelli nel 2016 ha pubblicato Il passato al presente. Raccontare la storia oggi (con Paolo Rumiz e Carlo Greppi).
Il rapporto tra Guerra e Globalità
L’affondamento del Lusitania e, poco più tardi, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, diedero definitiva evidenza all’immagine della Grande guerra come “guerra mondiale” – anzi come prima guerra mondiale, a sottolinearne anche sul terreno spaziale il carattere di eccezionalità. La nuova dimensione spaziale della guerra andava ben oltre il fatto che Stati diversi da quelli europei (Stati Uniti, Canada, Impero ottomano, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone) partecipassero al conflitto, o che i combattimenti avvenissero contemporaneamente in Europa, Turchia, Caucaso, Palestina, Mesopotamia, Africa e Cina. Quello che faceva della guerra una guerra autenticamente mondiale era la consapevolezza che gli esiti di tutti questi scenari erano necessariamente interconnessi, nel senso che lo stesso schieramento avrebbe vinto o perso dappertutto.
Il rapporto tra guerra e globalità operò in tutti e due i sensi. In un senso, la globalizzazione della guerra fu semplicemente il riflesso del passaggio già avvenuto nei decenni precedenti a uno scenario diplomatico e strategico di dimensioni globali, spinto in avanti dagli straordinari progressi dei trasporti, delle comunicazioni e delle tecnologie militari, simboleggiato anche sul terreno diplomatico da nuovi segmenti di interdipendenza quali l’alleanza trans-continentale stretta fra Regno Unito e Giappone nel 1902, e condensato nella retorica già diffusa del passaggio dalla politica europea alla Weltpolitik (politica mondiale). Nell’altro senso la guerra operò, a propria volta, come un ulteriore e potentissimo vettore di globalizzazione, mischiando sui campi di battaglia migliaia di uomini provenienti da tutti i continenti; diffondendo ovunque, in questo modo, esperienze e memorie comuni (di sofferenza, paura e lutto); facilitando lo slittamento dal vecchio immaginario nazionale a un nuovo immaginario globale, nutrito di progetti anche istituzionali di portata universale (quale fu, all’indomani della guerra, la Società delle Nazioni); prima di tutto, producendo una nozione di pace e di ordine mondiale di dimensioni altrettanto globali, nella quale non avrebbe più avuto alcun senso la vecchia equiparazione tra pace europea e pace nel mondo.
Perché era proprio questo, almeno visto dall’Europa, il senso storico del passaggio alla Weltpolitik. Non casualmente, già prima della guerra questo riconoscimento aveva cominciato a diffondersi di pari passo con i primi segnali della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, i primi movimenti nazionalisti avevano fatto la loro comparsa nel mondo coloniale, sebbene quasi sempre su iniziativa di élite occidentalizzate e su imitazione del lessico politico occidentale; tra il 1898 e il 1902, la guerra anglo-boera aveva rivelato le debolezze e, a tratti, la vulnerabilità delle truppe coloniali inglesi mentre, tra il 1904 e il 1905, una potenza asiatica, il Giappone, aveva sconfitto per la prima volta e con straordinaria portata simbolica un protagonista dell’equilibrio europeo, la Russia; soprattutto, il pluralismo politico e territoriale dell’Europa aveva già cominciato a essere avvertito come inadeguato a reggere la sfida di competitori di dimensioni incomparabili quali la Russia e gli Stati Uniti.
La Prima guerra mondiale acuì drammaticamente questo senso di declino – riassunto, all’indomani del conflitto, in un’opera-simbolo quale Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Non soltanto perché fu proprio l’entrata in guerra degli Stati Uniti a decidere definitivamente le sorti del conflitto. Ma perché, a differenza di tutte le grandi conferenze di pace dei secoli precedenti, le conferenze di pace di Versailles dell’inverno 1918-19 non furono già più conferenze propriamente europee. Al contrario, se nel ruolo di nemico vinto sedevano due grandi potenze europee, Germania e Austria-Ungheria – la seconda delle quali, oltre tutto, era stata un protagonista assoluto del sistema europeo sin dai suoi esordi – nel ruolo di vincitore per eccellenza della guerra stava una potenza dichiaratamente estranea al recinto europeo, gli Stati Uniti. Il rovesciamento non avrebbe potuto essere più radicale. Come avrebbe osservato Carl Schmitt in un’opera nostalgica come poche altre del mondo pre-bellico, “mentre nei secoli passati erano state le conferenze europee a determinare l’ordinamento spaziale della terra, nelle conferenze di Parigi avvenne per la prima volta il contrario: era il mondo che decideva sull’ordinamento spaziale dell’Europa”(Carl Schmitt, Der Nomos der ErdeimVoelkerrecht des Jus PublicumEuropaeum, Köln 1950; tr. it. Il Nomosdella Terra, Adelphi, Milano 1991, p. 307). Tanto più questo capovolgimento si rifletteva perfettamente anche nei programmi politici dei due “uomini nuovi” per eccellenza del dopoguerra, Wilson e Lenin. “Per molti versi”, nota lo storico inglese Geoffrey Barraclough, “l’aspetto più significativo dei programmi di Wilson e di Lenin era che essi non erano accentrati sull’Europa, ma abbracciavano l’intero mondo; cioè si appellavano ambedue a tutti i popoli, senza badare a razza o a colore. Entrambi implicavano l’annullamento del precedente sistema europeo”(Geoffrey Barraclough, An Introduction to Contemporary History, London 1964; trad. it. Guida alla storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 124).
In questo modo, la Prima guerra mondiale accelerò la più grande trasformazione dell’ultimo secolo, almeno dal punto di vista della storia delle relazioni internazionali: la dissoluzione della centralità europea in una nuova e ancora instabile architettura globale. Tra il 1914 e il 1918, per la verità, questa catastrofe geopolitica fu soltanto accennata. Nonostante l’estensione “mondiale” delle operazioni e della posta in gioco della guerra, il conflitto rimase ancora centrato sull’Europa e si decise interamente sui campi di battaglia europei. Già vent’anni più tardi, nella seconda guerra mondiale, il peso rispettivo di Europa e Asia-Pacifico risultò più equilibrato. Anche se quello europeo rimase il teatro principale delle operazioni militari, il teatro del Pacifico cessò di essere, come era stato ancora nella guerra precedente, un teatro subordinato o una semplice appendice del primo.Ma fu solo alla conclusione della guerra, con la formazione del sistema internazionale bipolare e la divisione stessa del continente nelle due sfere di influenza statunitense e sovietica, che l’Europa perse una volta per tutte il proprio passato ruolo di centro di irraggiamento globale (di istituzioni così come di conflitti). Sennonché neppure questo bastò a cancellare le ultime tracce della sua centralità. Anche durante la guerra fredda, l’Europa rimase pur sempre il fronte principale dello scontro, cioè il luogo nel quale si sarebbe combattuta, in caso di guerra, la battaglia decisiva e nel quale, nel frattempo, non se ne poteva combattere nessuna. Mentre, grazie a ciò, essa poté continuare a percepirsi e a essere percepita come uno spazio separato e, sebbene non più come protagonista ma come posta in gioco, più importante degli altri.
È soltanto oggi, a cento anni dallo scoppio della Grande guerra e a venticinque ormai dalla fine della guerra fredda, che il processo di detronizzazione dell’Europa può dirsi a tutti gli effetti compiuto, senza probabilmente che gli Europei siano ancora riusciti ad adattarsi (politicamente, economicamente e culturalmente) alla loro nuova condizione.Abbracciare l’orizzonte storico di questa grande trasformazione può aiutare, almeno, a evitare illusioni. Nell’attuale contesto internazionale “l’Europa si trova in una posizione che, in termini storici, è nuova e unica: l’Europa non domina né è dominata, non è isolata né è in grado di controllare il mondo. Per la prima volta nella storia l’Europa è una regione qualunque di un sistema internazionale globale: quando, in precedenza, essa era solo una fra le tante regioni del mondo (prima del periodo dell’espansione europea), il mondo era meno interdipendente. Ora il globo è uno solo e l’Europa non ne costituisce più il centro”.
Alessandro Colombo
Curatore scientifico del progetto “La Grande Trasformazione”
Approfondimenti
CLICCA QUI e scopri lo speciale Che cos’è la Patria? pubblicato per “La Grande Trasformazione – Prima guerra mondiale”, un progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.