L’ora del riscatto delle donne
Idee – Capitolo 8
«La prima dittatura del proletariato apre veramente la strada verso la completa eguaglianza sociale della donna. Sradica più pregiudizi essa che non le montagne di scritti sull’eguaglianza femminile.»
Vladimir Il’ič Lenin
I nuovi ruoli delle donne
Come in tutti gli Stati coinvolti nella Prima guerra mondiale, anche in Russia la partenza degli uomini per il fronte e quindi la necessità di garantire lo svolgimento di servizi essenziali e gli alti tassi di produzione necessari allo sforzo bellico portano tante donne fuori dalle mura domestiche. Tra il 1914 e il 1917, le donne, nelle fabbriche e nelle città, maturano una nuova coscienza rispetto a un ruolo nella società che non fosse solo quello di mogli e madri, ma anche di lavoratrici, protagoniste della vita collettiva e titolari di diritti.
Indipendenza e libertà
È a queste donne che si rivolgono le rivoluzionarie che proclamano, sull’onda della rottura delle strutture sociali tradizionali portata dalla rivoluzione, la parità dei sessi, la libertà del genere femminile dalla sottomissione a quello maschile, addirittura l’amore libero, vedendo nel matrimonio una sorta di schiavitù legalizzata della donna. Mentre la Russia conservatrice, legata alla dimensione sacra dei legami nuziali e fedele a una concezione tradizionale del maschile e del femminile, trema di fronte al dissolversi delle sue certezze, schiere di intellettuali, artiste e letterate aderiscono con entusiasmo a una visione del mondo che finalmente sembra proclamare il diritto delle donne a una vita libera e indipendente, slegata dal loro ruolo riproduttivo.
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Di seguito viene riproposta la bacheca dell’ottavo pannello della mostra, allestita con un manifesto dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, le copertine di due pubblicazioni, La femme nouvelle et la classe ouvrière di Alekandra Kollontaij e Al centro della macchina sovietica di Guido Puccio, e un’opera dell’artista Rozalija Rabinovič.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
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Nella Prima guerra mondiale, in Italia come altrove, le donne furono uno dei tanti “eserciti del fronte interno”.
Un esercito numeroso, di cui a lungo nessuno voleva parlare. A fronte di un’immagine della donna – lavoratrice, infermiera, madrina di guerra – entrata a buon diritto nell’iconografia, non solo italiana, di guerra; e a fronte altresì delle numerose circolari che i responsabili della Mobilitazione Industriale italiana iniziarono da subito a diffondere al fine di incoraggiare l’immissione di manodopera femminile nelle industrie mobilitate, si registra un singolare silenzio della stampa nazionale. La donna è un componente essenziale dell’ “industria di guerra”, c’è nella realtà concerta, ma per la stampa è un fantasma.
Solo nel 1917 questo tema appare fa capolino sull’ “Illustrazione Italiana”, che decide di dedicare un lungo articolo su un fenomeno che, pure, rappresenta, tra le grandi trasformazioni messe in moto dalla guerra, una di quelle dagli effetti più strutturali e di lungo periodo.
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
La lotta delle donne non si arresta
La piazza è delle donne
Femme, Woman, Donna
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
È ormai noto che la maggior parte della popolazione vive in agglomerati urbani e che entro la metà di questo secolo questa quota arriverà a oltre due terzi. La popolazione urbana è infatti in crescita costante: ogni anno aumenta di circa 60 milioni di persone.
Sebbene le città siano luogo di vita per un numero così elevato di persone, la rappresentazione delle stesse rimane indefinita. Da una parte c’è chi vede la città come un luogo di opportunità, di incontro, di diversità e di confronto, dall’altra chi la rappresenta come luogo di disuguaglianze e individualismo, di insicurezza e di inquinamento. Andando al di là delle differenti immagini che più che essere opposti di un continuum identificano aspetti che coesistono nella città contemporanea, il kit “Città vivibile, città del futuro” offre uno sguardo sulle evoluzioni dei contesti urbani. E, attraverso l’analisi del caso di Portland (Oregon), aiuta gli studenti a mettere a fuoco i fattori di vivibilità di una città quali la mobilità sostenibile, la produzione locale di cibo, l’energia rinnovabili e energia pulita, e la vitalità dei quartieri.
La lotta delle donne non si arresta
#Argentina
di Alessandro Guida
È stato un fine settimana di grandi mobilitazioni in tutto il mondo questo che ci siamo lasciati alle spalle. Centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza contro la violenza maschile e le politiche economiche e sociali che la legittimano e la sostengono. Come ha, infatti, sempre sostenuto Marta Dillon, tra le fondatrici del movimento Ni una menos, sorto in Argentina nel 2015, la violenza di genere non interessa solo le relazioni interpersonali, ma “coinvolge la politica, l’economia e tutta la società”.
Proprio in Argentina, poco più di tre mesi fa, il Senato rigettava il progetto di legge approvato nel giugno dalla Camera dei Deputati, che avrebbe dovuto contemplare una sostanziale legalizzazione dell’aborto, prevedendo la possibilità di ricorrere alla pratica in questione fino alla quattordicesima settimana dal concepimento. Nel paese latinoamericano, pertanto, la materia continua ad essere regolata fondamentalmente da una legge del 1921, che, partendo dal presupposto che l’esistenza della persona inizia al momento del concepimento, considera l’aborto un reato, punibile con la condanna fino a quattro anni di carcere, eccetto che nei casi di avvenuta violenza sessuale e quando sia chiaramente a rischio la salute o la vita della donna.
La battaglia condotta dalle numerose attiviste che, in particolar modo a partire dal 2005, hanno portato avanti campagne di mobilitazione e di sensibilizzazione come, ad esempio, quella per il “Diritto all’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito”, alle quali si sono aggiunte, nel corso del tempo, organizzazioni studentesche e movimenti territoriali di vario tipo, si è infranta contro il muro eretto da una seconda camera conservatrice, a maggioranza maschile, evidentemente sensibile al richiamo delle sirene cattoliche e agli appelli del presidente Mauricio Macri, fin da subito schieratosi dalla parte del fronte anti-legalizzazione.
L’aborto seguita ad essere materia regolata dal codice penale e non, per l’appunto, un diritto. E questo, con tutti i rischi in termini di sicurezza per la salute e la vita stessa delle donne. In Argentina, infatti, gli aborti clandestini (fra i 370 .000 e i 520.000 ogni anno) rappresentano la prima causa di morte materna, soprattutto fra le donne che versano in maggiore stato di indigenza, mentre bambine e adolescenti fra i 10 e 14 anni sono costrette a dare alla luce, ogni anno, approssimativamente 3000 bambini frutto di gravidanze indesiderate. Drammi, questi, che non riguardano, quindi, tanto le donne appartenenti agli strati più elevati della società, che possono ricorrere a cliniche private o recarsi all’estero, ma soprattutto i settori meno abbienti, che versano in condizioni di miseria e di marginalità. E, come spesso accade in questi casi, i numeri sono probabilmente sottostimati. Non a caso, l’organizzazione Mujeres de la Matria Latinoamericana (MuMaLá) ha annunciato la creazione di un registro dei decessi di donne in Argentina a causa degli aborti clandestini.
2018, Argentina. Manifestazione del movimento Ni una menos
È evidente come quello dell’aborto sia un tema tutt’altro che agevole in un paese fondamentalmente conservatore, governato dal 2015 dalla destra neoliberista, e dove, con l’assunzione della carica di pontefice da parte di Bergoglio, nel 2013, la Chiesa cattolica ha ripreso ad esercitare un’influenza notevole sul piano, non solo sociale e culturale – favorendo, ad esempio, la diffusione della percezione della donna nel suo ruolo di “riproduttrice” e di madre –, ma anche politico. Non è un caso, quindi, se persino durante la presidenza di Cristina Fernández de Kirchner (2007-2015), quello dell’aborto abbia rappresentato un vero e proprio argomento tabù. E questo, nonostante il fatto che, a partire, soprattutto dal 2010, siano state realizzate alcune delle riforme più avanzate in tema di diritti civili dell’intera regione. L’Argentina è stata, infatti, il primo paese latinoamericano ad approvare il matrimonio fra persone dello stesso sesso, fra i primi a permettere le adozioni da parte di coppie omosessuali, a dotarsi di una legge di identità di genere, a garantire a chiunque l’accesso gratuito a tecniche di fecondazione assistita. Eppure, Cristina – che, peraltro, è stata fra coloro i quali hanno votato a favore della legge di legalizzazione dell’aborto – durante il suo mandato non ha mai permesso che venisse aperta una discussione sul tema dell’interruzione volontaria di gravidanza. Ed è evidente come il ruolo della Chiesa cattolica e delle varie comunità evangeliche presenti nel paese sia stato decisivo anche nel bloccare il tentativo di riforma di quest’anno, in particolare a partire dal voto della Camera di giugno, quando tutto faceva pensare che i “fazzoletti verdi” avrebbero finalmente portato a casa questa vittoria. Dopo il no del Senato di agosto, invece, è facile supporre che la questione non potrà più essere messa sul tavolo della discussione parlamentare prima del 2020, considerato che il 2019 sarà anno di elezioni presidenziali e parlamentari.
Nonostante ciò, la lotta della “marea verde” non si arresta. Il paese rioplatense è indubbiamente fra quelli maggiormente attivi sul piano delle mobilitazioni per i diritti della donna. Non è un caso se è da qui che, come detto, ha preso le mosse il fenomeno di Ni Una Menos, che, a partire dal 2015, ha trovato diffusione non solo in diversi altri paesi dell’area, a cominciare dal vicino Cile, ma ha assunto una portata che non è esagerato definire globale. Un movimento che, partendo dalla necessità di dire basta ai femminicidi – nel 2017, in Argentina, sono state oltre 290 le donne uccise per il solo fatto di essere donne, trend rimasto sostanzialmente invariato nel corso del 2018, dove i dati parlano di cifre superiori a 5 donne ammazzate ogni settimana – ha fin da subito inserito la questione della violenza contro le donne in una cornice più ampia, legandola ai temi della diseguaglianza economica e sociale, dell’antifascismo e dell’anticapitalismo, ad esempio.
Ci sono pochi dubbi rispetto al fatto che l’America Latina rappresenti ancora una regione profondamente machista. L’avvento alla guida di alcuni paesi chiave dell’area di donne come Michelle Bachelet, la stessa Fernández e Dilma Roussef, ha fatto pensare che il trend si stesse finalmente invertendo. Non è andata così. Anzi, l’assassinio dell’attivista brasiliana Marielle Franco, nel marzo di quest’anno, ha confermato, fra le varie cose, l’estrema difficoltà che ancora incontrano le donne nel fare politica a tutti i livelli. Eppure, come dimostrano proprio il caso brasiliano e quello argentino, il principale fronte di resistenza alla deriva (neo)conservatrice in atto sembra essere rappresentato proprio dal variegato mondo femminile.
Alessandro Guida
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#Brasile
di Carolina Amadeo
Se da una parte l’avanzata conservatrice culminata nell’elezione a presidente di Jair Bolsonaro minaccia ancor di più la vita delle donne in Brasile, d’altra parte ha contribuito a rendere ancor più evidente la capacità della donna brasiliana di resistere. Il fatto che le donne si organizzino politicamente per avanzare richieste e fermare le minacce ai diritti già acquisiti non è certo una novità, ma negli ultimi anni si è assistito in Brasile a un grande aumento della visibilità della lotta femminista, come rappresentato dalle manifestazioni #elenão contro Jair Bolsonaro.
Un momento significativo in questo processo di aumento della visibilità fu, nel 2015, la cosiddetta Primavera Femminista brasiliana. Questa ebbe origine nella mobilitazione contro il progetto di legge 5069/2013 dell’allora Presidente della Camera dei Deputati, Eduardo Cunha – uno dei protagonisti dell’impeachment alla Presidente Dilma Rousseff e al momento in carcere per corruzione – che prevedeva il restringimento del diritto all’aborto previsto dalla legge (già comunque limitato a casi di stupro o rischio per la vita della madre). Le donne scesero in strada per protestare contro questa e altre minacce e il discorso femminista si diffuse nel Paese.
Molte campagne presero piede quell’anno, come effetto delle proteste. Tra queste, l’hashtag #meuprimeiroassédio, attraverso il quale le donne raccontavano sui social network le loro prime esperienze come vittime di molestie sessuali o l’iniziativa #agoraéquesãoelas nella quale le donne erano autrici di editoriali comunemente scritti da uomini su giornali, riviste, siti, per richiamare l’attenzione sulla necessità di dare spazio a più voci femminili. L’agenda femminista ottenne così maggior diffusione, occupando anche i media tradizionali.
I social network e la rete contribuirono a stimolare e diffondere anche il femminismo nero in Brasile. In un Paese dalle disuguaglianze sociali e razziali così violente, la intersezionalità e la dimensione di razza hanno un’importanza enorme nella lotta femminista. La lotta della “donna nera e delle periferie” è diventata centrale e la tragica esecuzione della consigliera municipale Marielle Franco ha dimostrato ancora una volta l’urgenza di questa lotta. Marielle portava nelle istituzioni la lotta di base dei movimenti e la sua voce, assieme a quella di molte altre, aveva grande eco nel Paese.
Primavera Femminista brasiliana
Sia detto per inciso che sono passati più di otto mesi e ancora non c’è stato nessun progresso significativo nell’indagine sull’omicidio: l’unica certezza che abbiamo è che hanno ucciso Marielle per spegnere la sua voce, mentre continuiamo a domandarci: “chi ha ammazzato Marielle?” e “chi è il mandante?” (slogan di campagne tuttora in corso).
La presenza di donne con posizioni femministe negli spazi di potere – ossia con incarichi nell’esecutivo e nel legislativo – è aumentata considerevolmente. Secondo la Folha de São Paulo, in queste ultime elezioni per lo meno 36 delle deputate federali elette possono essere considerate femministe – 9 in più che nell’ultima tornata elettorale. È interessante notare come molte di queste candidature sono state costruite proprio sull’agenda femminista, in particolare su battaglie come quelle per la legalizzazione dell’aborto e contro la violenza di genere.
Negli ultimi anni, inoltre, un altro aspetto che ha ottenuto grande visibilità è quello della presenza delle donne in prima linea in diversi movimenti sociali nel Paese. Questa presenza, che esiste da sempre, è adesso maggiormente riconosciuta e celebrata. Per esempio, è regola che, soprattutto a livello di base, i movimenti che organizzano la lotta per un domicilio degno per i lavoratori senzatetto – cresciuti molto in questi anni di crisi – siano guidati da donne.
La mobilizzazione femminista in Brasile è infatti molto estesa e va molto al di là di battaglie meramente identitarie. Le donne si sono guadagnate un ampio terreno di lotta, e il loro potere viene tuttora sottostimato dall’élite politica del Paese. Il movimento #elenão, emerso durante l’ultima campagna elettorale, ha mostrato più che mai come le donne siano un soggetto politico attivo, con capacità di articolazione a livello nazionale e internazionale, non limitata alle capitali, bensì presente anche nelle città dell’interno. Le manifestazioni organizzate dalle donne hanno richiamato l’attenzione in tutto il mondo, e anche se non hanno ottenuto di impedire la vittoria di Bolsonaro nelle urne, hanno mostrato la forza della resistenza femminista. A loro sostegno sono stati costituiti gruppi di appoggio che sono rimasti in vita anche dopo il risultato elettorale. La mobilitazione delle donne continua, e siamo pronte per lottare contro ciò che ci aspetta.
La lotta della donna brasiliana è estremamente radicale e ampia. Con l’avanzare di questa preoccupante variante di autoritarismo machista, razzista e neoliberista, rappresentata da Bolsonaro, le donne, principalmente “nere e delle periferie”, sono destinate a una maggiore vulnerabilità economica e sociale. Ma lo abbiamo già chiarito: lotteremo. Ci sarà resistenza.
Carolina Amadeo
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La piazza è delle donne
La piazza di Londra il 14 giugno 1913 è la piazza dell’irruzione delle donne nello spazio pubblico e politico, in lotta per una causa comune; costituisce una tra le prime manifestazioni di massa delle donne nel ‘900 che annuncia le conquiste più concrete e solide dei decenni successivi.
Quel giorno una folla di quasi 5 mila donne, le più giovani vestite di bianco e di nero le più anziane, ha accompagnato il feretro di Emily Davison, militante suffragetta del Women’s Social and Political Union (WSPU) travolta dal cavallo di re Giorgio V durante i tumulti al Derby di Epson.
RAT n.28/1970, giornale di controcultura USA
Emily Davison era una donna combattiva, capace di molte imprese audaci a favore del diritto di voto delle donne e per l’equiparazione politica e civile agli uomini. La notte del 2 aprile 1911, in occasione del censimento, si nascose in un armadio del Palazzo di Westminster in modo da poter legittimamente indicare sul modulo che la sua residenza, quella notte, era stata la Camera dei Comuni, un luogo che era vietato alle donne.
Se ragioniamo in termini di diritti sociali e politici la mappa dell’Occidente è variegata ma la Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono stati i primi due tornanti per l’accesso delle donne al diritto di voto: l’ingresso delle donne nelle attività produttive a sostegno degli sforzi bellici prima e la determinante partecipazione alla guerra di resistenza contro il nazifascismo poi, non potevano più essere elusi e disconosciuti.
Nel 1948 il diritto di voto attivo e passivo femminile sarebbe stato introdotto nella Dichiarazione universale dei diritti umani, diventando realtà nella maggior parte dei paesi. Da questo mondo che ci sembra così lontano, le donne hanno fatto molti passi avanti nella conquista dei diritti civili, politici e sociali.
Tutte abbiamo letto Gabriella Parca in Le italiane si confessano (1964) “In questa nostra Italia, fatta dagli uomini e per gli uomini, la donna è soltanto un’ospite. Non le si chiede alcuno sforzo mentale, e in cambio non le si lascia alcuna iniziativa. L’educazione che riceve, non solo in famiglia, ma a scuola, attraverso le letture, il cinema, le trasmissioni radiofoniche e ora anche televisive, è volta a fare di lei un essere complementare: tutta la sua vita è vista in funzione dell’uomo, a cui deve soprattutto piacere per ottenere una buona sistemazione, ossia il matrimonio”. Questo scenario ormai insopportabile agli occhi di una società italiana sempre più avanzata e secolarizzata e agli occhi delle donne italiane più indipendenti e coscienti della propria soggettività, è stato uno dei motivi della rottura avvenuta negli anni Sessanta. Le parole di Parca si inseriscono in quegli anni di fermento culturale e politico; un momento di svolta per le donne, di emancipazione e di libertà, segnato sia dalla vitalità dei movimenti femministi sia dalle battaglie per i diritti e per nuove leggi, nelle piazze e nei palazzi. Ad esempio, l’accesso a tutte le professioni (1963), l’abrogazione dell’adulterio femminile come reato penale (1968), la legge sul divorzio (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975), il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (1978), solo per elencare alcune conquiste. Il paese legale si avvicinava a quello reale.
Nella mostra ‘900 la Stagione dei Diritti, in particolare, sono esposti alcuni documenti significativi prodotti tra l’Italia e gli Stati Uniti di quando il personale è diventato politico, uno dei più grandi contributi delle donne alla politica e all’emancipazione che mirava allo svelamento o demistificazione dei rapporti di oppressione sottesi alla contrapposizione, fittizia, radicata sull’opposizione biologico-sociale, natura-politica: la critica del mito dell’inferiorità della donne di Evelyn Reed pubblicata nel 1954 (qui sono allegate le prime pagine del documento originale presente nelle teche della mostra) fotografa fin dall’incipit una sfera pubblica e privata femminile analoga a quella italiana decritta da Gabriella Parca e con queste parole: “Men are the masters in economic, cultural, political and intellectual life while women play a subordinate and even submissive role. Only in the recent years have women come out of the kitchens and miseries tho challege men’s monopoly. But the essential inequality still remains”.
Copertina – Mith of Women’s inferiority, Evelyn Reed, 1954, Boston USA
Tra gli altri documenti della mostra sono poi esposti: “Vogliamo decidere noi”, numero del Bollettino di Lotta Femminista del marzo 1974; la pubblicazione sul tema del controllo delle nascite di Donna Cherniak e Allan Feingold del 1970; il primo numero di Al Femminile, giornale creato dal gruppo “l’anabasi” di Milano nel febbraio 1972; la piccola guida informativa, qui allegate le prime pagine, realizzata dalla Parenthood Association in collaborazione con il Family Planning Center-Community Action Agency del Maryland, dedicata alle donne contenente informazioni mediche, sociali e consigli pratici su come vivere la relazione con il proprio corpo e volta a sfatare alcune superstizioni ancora diffuse negli anni Sessanta dal titolo: As you become a woman (Baltimora 1969).
As you become a woman, 1969 Baltimora, USA. Guida informativa dedicata alle donne della Parenthood Association in collaborazione con il Family Planning Center-Community Action Agency del Maryland.
Nonostante i tanti progressi e i diritti conquistati e acquisiti nel corso del XX secolo, le donne si trovano ora a doverli difendere: dati e proposte di legge recenti mostrano in Italia, ma non solo, il chiaro tentativo di erodere gli spazi della vita pubblica e la libertà di autodeterminazione per spingerci di nuovo verso luoghi e ruoli antichi. Occorre riscoprire la lunga strada percorsa, rintracciando le lotte che hanno portato all’affermazione dei diritti che compongono il nostro quotidiano e che definiscono gli spazi della nostra partecipazione nella società come cittadine, per tornare partecipare oggi. Nessuna conquista è mai veramente definitiva, soprattutto per ciò che riguarda la condizione umana e gli orizzonti culturali delle nostre società.
Femme, Woman, Donna
Descrizione dell’ebook
Questa piccola raccolta di testi comprende La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, un testo del 1791; l’introduzione alla Rivendicazione dei diritti della donna di Mary Wollstonecraft, del 1792; infine, il Discorso inaugurale pronunciato da Anna Maria Mozzoni al Congresso internazionale per il diritto delle donne che si tiene a Parigi il 25 luglio del 1878.
Tre testi che hanno come tema centrale il riconoscimento della donna in quanto soggetto titolare di diritti.
Il fugace ritratto che questi scritti ci forniscono delle tre autrici rimanda a figure accomunate da uno sguardo visionario ma non certo inconsapevole dell’arduo cammino che separa la donna da una piena cittadinanza.
Olympe de Gouges, Mary Wollstonecraft e Anna Maria Mozzoni non chiedono qualche diritto in più ma affermano la soggettività (giuridica) di un genere. Per questo denunciano una dignità mancata. Tre testi che stanno all’origine del nostro parlare oggi della questione della donna, e che segnano la “coda lunga”, di ciò che con difficoltà stenta ancora a farsi senso comune.
Conosci le autrici
Olympe de Gouges, pseudonimo di Marie Giuse (1748-1793), drammaturga, esponente dell’area girondina e amica di Danton e di Condorcet, Pubblica nel settembre 1791 la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne. Arrestata dal tribunale rivoluzionario nell’agosto 1793 è condannata a morte il 2 novembre. La condanna è seguita il 3 novembre 1793.
Mary Wollstonecraft (1759 – 1797), filosofa è considerata la fondatrice del femminismo liberale. Con A Vindication of the Rights of Woman (1792) sostiene, contro la prevalente opinione del tempo, che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione.
Anna Maria Mozzoni (1837 – 1920) giornalista e attivista dei diritti civili e dei diritti delle donn. Nel 1878 rappresenta l’Italia al Congresso internazionale per i diritti delle donne di Parigi nel 1879, fonda a Milano la “Lega promotrice degli interessi femminili”.