Abbiamo raggiunto le stelle
Propaganda – Capitolo 4
“In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.”
Alla nuova luna, Salvatore Quasimodo, 1958
La corsa allo spazio
La corsa allo spazio è uno dei territori su cui si misura la competizione della Guerra fredda. La posta in gioco non è solo il successo in termini tecnologici, ma la dimostrazione di essere una superpotenza a tutti gli effetti, capace di raggiungere territori mai esplorati prima. A dare il via a questo nuovo fronte di competizione è il lancio del primo Sputnik nello spazio nel 1957: un successo per i sovietici, una disfatta per gli americani, che vedono messi in discussione i loro primati tecnologici e missilistici.
Il primo uomo e la prima donna
A questa prima conquista seguiranno una serie di contromisure americane, ma sarà comunque un sovietico il primo cosmonauta della storia: Jurij Gagarin. Figlio di un carpentiere e di un’allevatrice, Gagarin incarna il perfetto sogno sovietico: quello di un paese dove anche gli uomini di origine modesta possono fare la storia. La sua immagine viene ripresa da tutti i giornali, viene insignito del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica e comincia a viaggiare per raccontare la sua storia al mondo. Nel 1963, un altro primato tutto sovietico: la prima donna nello spazio, Valentina Vladimirovna Tereškova.
L’“entusiasmo cosmico” made in URSS, durato oltre un decennio, ha una battuta di arresto con il primo allunaggio di un essere umano: nel 1969 sarà Neil Armstrong, un astronauta americano, a compiere questo grande passo per l’umanità.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del quarto pannello della mostra, allestita con un manifesto, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, e una serie di cartoline dedicate alle imprese spaziali russe.
Approfondisci
Ripensare la scienza liberi da dogmi
Come nacque, grazie a Darwin, la possibilità di studiare e pensare la natura liberi da dogmi: leggi l’approfondimento di Michele Luzzato, Dottore di Ricerca in Biologia evoluzionistica.
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Verità, controllo e manipolazione nella società dei dati
Comunicazione politica e democrazia
Soldati per Soldatini. Abbecedario essenziale per giocare alla guerra
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Crisi, sviluppo, crescita, mobilitazione, investimento. Parole intercambiabili per descrivere un panorama in continuo mutamento. Dove siamo noi? L’economia degli ultimi cento anni ha cambiato la vita di tutti, spesso ha indotto trasferimenti di attività, di persone, di interi gruppi umani.
L’economia nel corso del Novecento ha attraversato un’epoca di radicali trasformazioni – tra progresso e sviluppo, crollo delle borse e boom economico – e ha contribuito in larga parte a rendere il Novecento “Il Secolo breve”.
Verità, controllo e manipolazione nella società dei dati
Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere
L’ultimo decennio ha visto il whistleblowing guadagnarsi un ruolo molto rilevante tra le più importanti dinamiche democratiche del contemporaneo. La parabola di WikiLeaks prima, il caso Snowden, che nel 2013 svelò al mondo la pervasività delle attività di sorveglianza di massa su Internet, e le rivelazioni sulle attività illecite di Cambridge Analytica dello scorso anno, hanno non solo confermato la forza del giornalismo e delle sue fonti, ma hanno soprattutto contribuito in modo decisivo alla comprensione di alcuni equilibri della società digitale di oggi. Al netto delle loro specificità tematiche, i casi Snowden e Cambridge Analytica hanno entrambi fornito elementi imprescindibili per l’analisi degli intrecci tra i campi della tecnologia e della politica in una società dove entrambi rappresentano due tra le più potenti sfere del potere. Esponendo i dettagli del più grande apparato di sorveglianza governativo, e portando alla luce uno dei maggiori casi di abuso dell’economia dei dati, i dibattiti sorti attorno ai due casi hanno fornito elementi precisi a strutturare una discussione che, nata prettamente giornalistica, ha coinvolto anche la politica, le grandi piattaforme tecnologiche e il pubblico. Su un piano più ampio, inoltre, questi due casi hanno anche rappresentato un momento di riflessione sui significati della “datafied society” e sul ruolo stesso dei dati nel rappresentare gli elementi costitutivi di concetti come cittadinanza, diritti, propaganda e, infine, dei dati come colonna portante di quello che la studiosa Shoshana Zuboff ha definito “surveillance capitalism”, un modello economico basato sullo sfruttamento dei dati personali che dalla pubblicità online è diventato il modus operandi di sostanzialmente qualsiasi servizio tecnologico online.
Un aspetto fondamentale è che in entrambi i casi – come già quando WikiLeaks contribuì a riscrivere i concetti di trasparenza e diplomazia nel 2010 – a dare inizio a queste riflessioni, ci siano stati i whistleblower. Il whistleblowing, un termine che in italiano non ha una traduzione efficace in grado di rendere tutte le sfumature del concetto, è una pratica che consiste nel disvelamento di pratiche o fatti illegittimi o illegali perpetuati nel perimetro di azione di un’organizzazione da parte di un membro dell’organizzazione stessa. Questo può avvenire internamente – presso organi o autorità predisposte – o verso l’esterno, con il coinvolgimento di terze parti, tra le quali i giornalisti e gli organi di stampa rappresentano certamente i casi più interessanti da un punto di vista sociale e informativo. Il fatto che il whistleblowing a mezzo stampa sia una parte minoritaria del fenomeno, e per quanto casi globali come quelli Snowden e Cambridge Analytica rappresentino situazioni più uniche che rare quanto a impatto e portata internazionale, essi rappresentano anche momenti di svolta cruciali: per quanto sia una delle pratiche più comuni per il giornalismo investigativo, il whistleblowing è però di solito una soluzione estrema di risoluzione di uno squilibrio informativo e di potere. Il whistleblowing diventa una necessità qualora altre soluzioni di denuncia meno dirompenti siano precluse o non ricevano possibilità di trovare una “voce” per quanto necessita di essere denunciato. O quando la bilancia tra la segretezza e la necessità di informare il pubblico sia fatta tendere in modo preponderante verso la prima.
Il fatto che alcuni tra i maggiori casi di whistleblowing dell’era modera riguardano la tecnologia e i suoi impatti sociali non stupisce, ma deve preoccupare, in quanto l’incidenza del whistleblowing in questo caso è sintomo di quanto proprio alcuni tra i più importanti assetti democratici e della sfera pubblica siano, di fatto, segreti. Nel suo seminale libro The Black Box Society, lo studioso Frank Pasquale ha coniato la metafora della “black box” per definire i meccanismi di alcune funzioni sociali contemporanee mutuate dalla tecnologia nel contesto del “surveillance capitalism”: nell’ottica di Pasquale, questa immagine spiega la condizione di essere “tracciati sempre più da vicino dalle aziende e dai governi, senza avere alcuna idea chiara di quanto lontano possano viaggiare queste informazioni, come vengano usate, o le loro conseguenze”. Questa asimmetria informativa governa direttamente oggi la sfera pubblica, dove algoritmi sotto il controllo delle grandi piattaforme tecnologiche, come quelli Google o Facebook, gestiscono un numero crescente di operazioni e funzioni democratiche, senza che vi sia una reale possibilità di trasparenza da parte dei cittadini o degli altri stakeholder della sfera pubblica. Il tema sarà ancora più urgente per via della crescente centralità del machine learning e delle funzioni di intelligenza artificiale, per lo più fondate su pratiche di big data analysis, le cui maggiori potenzialità sono inevitabilmente nelle mani delle grandi corporation della rete.
La progressiva privatizzazione della sfera pubblica sembra però andare nella direzione di una frizione sempre più forte tra segreto e trasparenza simile a quella che si è vista nell’ambito pubblico e statale, e non mancano già ora i casi di whistleblower che dall’interno delle grandi aziende della Silicon Valley hanno iniziato a far trapelare dettagli su alcune delle pratiche di queste aziende: nel giugno del 2017, ad esempio, la testata investigativa statunitense ProPublica ha pubblicato un’inchiesta sulle linee guida per la rimozione dei contenuti di Facebook, basata su alcuni documenti interni ottenuti da un insider. Allo stesso modo, anche il Guardian, il mese precedente, aveva pubblicato un’altra indagine, basata su un centinaio di manuali per i moderatori che monitorano i contenuti pubblicati sulla piattaforma, decidendo quali devono essere rimossi. In Italia, invece, Valigia Blu ha ottenuto nel 2017, tramite una fonte anonima impiegata presso un’azienda appaltatrice dei servizi di moderazione di Facebook, alcuni dettagli sulle pratiche di moderazione dei contenuti per il nostro Paese. Lo scorso ottobre, invece, la testata dell’alt-right statunitense Breitbart, ha ottenuto una presentazione interna di Google in cui vengono illustrate le idee dell’azienda di Mountain View sulla censura. A fine 2018, infine, fecero discutere le dichiarazioni di Jack Poulsen, scienziato dimissionario di Google che, parlando con il Times di Londra, dichiarò come la prevenzione dei leak da parte dei dipendenti fosse “la priorità numero uno” dell’azienda. In futuro è estremamente possibile immaginare che le fughe di notizie perpetuate da insider della Silicon Valley possano diventare molto più frequenti. Ovviamente, spetterà alla discrezione e alla professionalità dei giornalisti distinguere il whistleblowing nell’interesse pubblico da casi più controversi di spionaggio industriale.
Già nel 2016 il docente di giornalismo statunitense nonché una delle voci più critiche nei confronti dei poteri delle grandi aziende tech, Dan Gillmor scriveva che per i giornalisti intervenire per favorire il dibattito e la comprensione attorno a queste questioni sarebbe stato fondamentale già nell’immediato futuro: cercare di aprire alcune di queste “black box”, e pingere per avere più trasparenza e accountability è un obiettivo irrinunciabile per un giornalismo che voglia davvero svolgere la sua funzione fondamentale di “watchdog”. Il contributo dei whistleblower, anche in questo, potrebbe essere fondamentale.
Comunicazione politica e democrazia
La comunicazione politica è stata spesso declinata (dai media ma anche da molti studiosi) come mero insieme di tecniche e strumenti per le strategie di propaganda. D’altra parte anche diversi settori della politica non sono riusciti a sfuggire dalla banale sovrapposizione “comunicazione politica = propaganda”, privilegiando la dimensione verticale della comunicazione (la logica della trasmissione che presiede alle campagne elettorali) a quella orizzontale della relazione e del dialogo. Non stupisce, quindi, che i partiti “tradizionali” abbiano continuato a considerare la comunicazione come mera variabile interveniente e non come dimensione che struttura la relazione. In altri termini, non sono riusciti a pensare alla comunicazione come dimensione analitica (di fianco a quella organizzativa) per una ridefinizione dei corpi intermedi.
Il successo della comunicazione politica come insieme di ricette facili si è incrociato con alcuni elementi di “crisi” delle democrazie contemporanee. Possiamo individuarne almeno cinque:
- crisi di credibilità delle istituzioni democratiche, percepite come inadeguate nel “frame” sociale rappresentato dalla crisi economica globale;
- delegittimazione sociale delle forme “tradizionali” della rappresentanza (partiti di massa e/o d’opinione, sindacati, forme istituzionalizzate dell’associazionismo e, in genere, quelli che vengono definiti “corpi intermedi”); sarebbe peraltro utile abbandonare l’espressione “corpi” – che richiama a una visione funzionalista della politica – a favore di termini più neutri (“agenti intermedi”?);
- accentuazione dei processi di cartellizzazione e presidenzializzazione dei partiti ed emersione di franchise parties, funzionali alla concentrazione di potere nel leader, che diventa il terminale di gruppi di interesse e stabilisce una relazione con l’elettorato solo nella cornice definita dai media (producendo spesso, peraltro, una deriva anti-egualitaria della democrazia);
- egemonia della “ideologia” neo-liberista, che determina uno strutturale processo di commodification dei processi democratici, con la prevalenza di un’idea di governance basata sull’efficienza temporale e sulla valutazione delle policies a breve periodo, a discapito di un’idea progettuale di government (in quest’ottica, anche lo sviluppo – auspicabile – dell’open government rischia di diventare funzionale a logiche di commercializzazione della cittadinanza e rischia di costituire un modello culturalmente opposto a quello della democrazia partecipativa);
- incremento delle istanze partecipative “dal basso”, che si manifestano sia nelle forme del richiamo populistico alla delegittimazione delle forme organizzative (“democrazia della negazione”, delegittimazione sistematica dei meccanismi di agency) sia nell’impegno di cittadini per una democrazia partecipativa (movimenti sociali, esperienze di cittadinanza attiva, etc.).
Dovremmo poi aggiungere un deficit formativo (che in Italia si è tradotto nella sostanziale marginalizzazione sociale della scuola) e un sistema dei media tendenzialmente conformista e scarsamente plurale. In questo scenario, i media digitali finiscono per enfatizzare gli “effetti strutturali” della comunicazione politica, già evidenti con lo sviluppo e l’affermazione del broadcasting (personalizzazione, spettacolarizzazione, winnowing effects, etc.) e le forme della mediazione e della rappresentanza perdono importanza a favore delle strategie di rappresentazione.
Un’occasione perduta. I media digitali (i social media, le piattaforme di partecipazione, etc.) potrebbero infatti giocare un ruolo importante nell’attivazione di una democrazia capace di coniugare pratiche di partecipazione e deliberazione con i processi della democrazia rappresentativa. La comunicazione potrebbe costituire un asse strategico per incrementare la sensibilità, l’informazione e l’azione all’interno delle piattaforme partecipative. Ma – ridotta a technicality – la comunicazione perde il suo potenziale democratizzante e finisce per assumere valore solo come strumento di costruzione del consenso. L’anestetizzazione della comunicazione (anche in ambito accademico) si rivela così per essere un ulteriore strumento nel processo di negazione della dimensione egualitaria della democrazia.
Michele Sorice
Professore di Democrazia deliberativa alla LUISS “Guido Carli”.
Honorary Professor alla University of Stirling (UK)
Soldati per Soldatini. Abbecedario essenziale per giocare alla guerra
Descrizione dell’eBook
La Grande Guerra, per la sua eccezionalità, è la chiamata alle armi della ragione sull’inspiegabile del conflitto che cerca, nel tumulto del discorso, le porte per un accesso facilitato alla sua leggibilità.
Su periodici e opuscoli a larga diffusione, questa chiamata delle lettere alle armi assedia perfino l’infanzia e i suoi giocattoli per neutralizzare, agli occhi dell’opinione pubblica sul «fronte interno», la tragedia attraverso un linguaggio e delle immagini familiari.
L’assedio posto alle parole della quotidianità in tempo di pace e alle figure più docili dell’immaginario infantile – la S di strenna e la A dell’asino del presepe di Natale – descrive però anche la volontà della propaganda bellica di coinvolgere e mobilitare anche i bambini: di familiarizzare proprio loro alle logiche del conflitto.
Il balocco neutrale diventa così l’arma pedagogica che solidarizza il bambino con l’età adulta più tumultuosa e l’adulto con la nostalgia per i giochi di guerra dell’età passata. Lettere e figure sulla pagina scambiano il soldatino con il soldato in un abbecedario-manuale per giocare, tutti, alla guerra.