Potere alla pace
Idee – Capitolo 4
«La guerra ha indubbiamente generato la crisi più acuta ed ha aggravato in modo inverosimile la miseria delle masse. Il carattere reazionario di questa guerra, l’impudente menzogna della borghesia di tutti i paesi, che maschera i propri scopi di rapina con un’ideologia “nazionale”, tutto ciò, crea inevitabilmente nelle masse degli stati d’animo rivoluzionari».
Vladimir Il’ič Lenin
Il costo della guerra
Per combattere nella Prima guerra mondiale, la Russia zarista ha mobilitato un esercito di 18 milioni di uomini che fatica ad essere sfamato da un’agricoltura lasciata senza forza lavoro dagli arruolamenti. Nemmeno la produzione industriale, nonostante i turni massacranti imposti agli operai, riesce a stare dietro ai ritmi della guerra totale e allo sforzo delle altre potenze coinvolte nel conflitto. L’esercito russo, male equipaggiato e male armato, viene decimato in modo impressionante. Alla fine del 1916 il paese è ormai allo sbando, i soldati si rifiutano di combattere, disertano a migliaia e cercano di raggiungere le loro terre d’origine, per tornare a sostenere le famiglie.
Il rifiuto dello zar
In questa situazione, in completo scollamento rispetto alle esigenze, ai sentimenti e alle sofferenze del paese, l’establishment che ruota attorno allo zar e al governo della Duma – il Parlamento russo – non vuole cedere all’idea di uscire dal conflitto: troppo alto sarebbe il prezzo da pagare in termini territoriali e di conseguenze geopolitiche, si spera nella forza degli alleati e nella passiva resistenza del popolo russo.
La necessità della pace
Sono Lenin e i rivoluzionari dell’ala bolscevica del partito socialista russo a manifestare una posizione intransigente rispetto alla necessità della pace: nei loro slogan, la guerra in cui lo zar e la Duma hanno gettato il paese si palesa come imperialista, una guerra della borghesia condotta nel suo stesso interesse, per i suoi disegni di dominio, che non si preoccupa di affamare e uccidere il popolo.
La pace va perseguita a ogni costo, e questo messaggio va diffuso tra gli operai e i contadini, affinché prendano coscienza del proprio ruolo e della possibilità di prendere direttamente in mano le sorti del proprio paese, rifiutando la guerra, i lutti e le sofferenze che essa porta con sé.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del quarto pannello della mostra, allestita con tre manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, l’articolo “La taglia della storia” di Antonio Gramsci, i frontespizi di due pubblicazioni (Al di sopra della mischia – Au-dessus de la mêlée – di Romain Rolland e l’opuscolo Sozialismus und Krieg. Stellung der S.D.A.P. Russlands zum Kriege, scritto da Vladimir Il’ič Lenin e Grigorij Evseevič Zinov’ev) e la riproduzione della vignetta La condizione per la pace pubblicata sul giornale satirico L’Asino.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
Approfondisci
La Prima guerra mondiale nella percezione dei contemporanei doveva essere un conflitto di breve durata, da esaurire in pochi mesi come una formalità ineludibile: si trasformò invece in una guerra senza fine. Le poche voci contrarie alla guerra tout court risaltano ancora di più: la denuncia senza compromessi di Scalarini nella sua Europa, terra dei morti, tragicamente preveggente perché pubblicata nell’agosto 1914, e l’antimilitarismo di Galantara, che ci presenta un lavoratore che rifiuta, spezzandolo, lo strumento di morte.
Tra il «neutralismo combattente» di Scalarini e il successivo accanimento antigermanico di Galantara che presenta il Kaiser come un tristo macellaio, la conferma nelle nitide immagini in bianco e nero che la guerra sembra non finire mai con il suo tributo di morti, prigionieri, distruzioni e il ricorso ad armi sempre più letali.
Kit didattico: Europa. La storia fa le rime
Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo
Cercare l’alternativa. Rimettere il demos al centro
La Russia in Asia e in Europa
Kit didattico: Europa. La storia fa le rime
Il kit “La storia fa le rime” conduce gli studenti attraverso un viaggio nella storia, alla scoperta delle analogie e dei segnali che il passato ci ha lasciato al fine di comprendere la complessità dei processi che avvengono nel presente.
Conoscere la storia europea, in particolare le vicende legate alla Seconda guerra mondiale e al dramma delle leggi razziali e delle deportazioni, permette di affrontare un tema “caldo” come quello dei rifugiati e delle persone in fuga dalle persecuzioni e dalla guerra, attraverso una sorta di “modello”, distante da noi nel tempo, a partire dal quale è possibile estrapolare alcuni “segni” utili a interpretare il presente.
È possibile ampliare alcuni degli argomenti approfonditi in questo percorso grazie agli altri kit didattici sulle tematiche della cittadinanza, dei diritti, delle migrazioni e della storia europea.
Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo
Estratto dell’ebook Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo
Definire i nuovi volti del fascismo implica disfarsi sia dell’uso corrente della parola stessa che della lingua antica dalla quale deriva. Nel primo caso l’uso della parola fascismo, che prolifera in seguito ad avvenimenti traumatici come quelli del 7 gennaio 2015, serve a qualificare tutto e il contrario di tutto – l’“islamo-fascismo” come le politiche di sicurezza – il secondo ne fa un uso sterile, accontentandosi il più delle volte di un approccio comparatistico che annuncia un ritorno agli anni Trenta.
La sfida non è semplice: si tratta di trovare gli strumenti ad hoc per “svelare” i contorni di questo fascismo postmoderno senza altro “orizzonte d’attesa” se non quello del ritorno all’ordine (reazionario, identitario, sovranista) sostenuto, più che dall’antisemitismo o dall’anticomunismo, da una islamofobia inferocita.
Il fascismo è tornato. In realtà, non ha mai smesso di interessare gli storici e di nutrirne le controversie, ma ultimamente nei dibattiti pubblici riecheggia con insistenza. A volte risorge spontaneamente, come una sorta di passpartout semantico, quando non sappiamo che nome dare a nuove realtà inattese e soprattutto inquietanti. Con questo termine definiamo l’ascesa delle destre radicali un po’ ovunque nell’Unione europea, nella Russia di Putin e nelle fazioni che si affrontano in Ucraina, nel “califfato” che Daech cerca di costituire in Iraq e in Siria e infine negli attacchi terroristici di inizio 2015 in Francia, in Tunisia e in Kenya. In Francia, in particolare, tutti denunciano o rievocano il “fascismo” in modo disarmonico e confuso, da Marie Le Pen a Manuel Valls, fino a Alain Badiou e altri intellettuali di sinistra.
Siamo sicuri che l’uso indiscriminato di tale concetto ci aiuti a capire davvero fenomeni cosi differenti gli uni dagli altri? Molto più che ad analizzarli, il ricorso alla nozione di fascismo serve a condannarli secondo una tendenza tipica della nostra epoca e a trasformare la morale in categoria cognitiva. Ebbene il ritorno del “fascismo” rende urgente e necessario distinguere le realtà circoscritte in tale concetto.
L’ascesa delle destre radicali merita comunque un’attenzione particolare – essa costituisce infatti uno degli aspetti più significativi della crisi europea attuale. Nonostante l’ eterogeneità e le divisioni, che non hanno impedito la creazione di un gruppo parlamentare comune a Bruxelles, le destre radicali condividono alcuni lineamenti – razzismo, xenofobia, nazionalismo – che ne tracciano una tendenza generale. In questa vasta nebulosa, una linea di demarcazione separa i vecchi membri dell’Unione europea dai nuovi provenienti dall’ex blocco sovietico, dove la svolta del 1989 ha creato condizioni favorevoli a una rinascita dei nazionalismi pre-bellici, semi fascisti, anticomunisti e antisemiti. Mostrando la volontà di restituire a questi paesi una coscienza nazionale repressa per quattro decenni d’ibernazione sovietica, tali nazionalismi godono tutti di una certa legittimità nell’opinione pubblica. In Ucraina, un paese attraversato dalle nuove frontiere geopolitiche che separano la Russia dall’Occidente, abbiamo assistito all’inaspettata ricomparsa di formazioni apertamente neonaziste. In Occidente, invece, l’epicentro di questa crisi europea si trova in Francia, dove il Front national domina il paesaggio politico. E dal momento che è dal 1930 che il Vecchio Mondo non assiste a una tale ascesa delle destre radicali, tutto ciò risveglia ovunque la memoria degli anni bui.
Questo ritorno inatteso dei fascismi riapre la vecchia questione sul rapporto tra scrittura della storia e utilizzo pubblico del passato. Secondo Reinhart Koselleck, il fondatore della “storia dei concetti” (Begriffsgeschichte), l’esperienza storica precede la sua concettualizzazione; gli elementi sociali che plasmano la storia sono anteriori al linguaggio che li definisce, senza il quale resterebbero inintelligibili. Tra gli eventi storici e la loro trascrizione linguistica esiste una tensione, perché le due cose sono spesso indistinte e indissociabili1. Questo significa che, non solo i concetti sono indispensabili per pensare l’esperienza storica, ma che addirittura la oltrepassano, sopravvivono ad essa e possono essere utilizzati per comprendere nuove realtà. E se questi concetti non dovessero essere inscritti all’interno di una continuità temporale, saranno per lo meno definiti in base a ciò che è avvenuto.
Il comparatismo storico che, come sottolinea Marc Bloch, mira a cogliere analogie e differenze tra epoche diverse, piuttosto che somiglianze o ripetizioni2, nasce da questa tensione tra storia e linguaggio. Oggi, con l’ascesa delle destre radicali, questa tensione si fa più acuta e rende quindi più urgente la necessità di un approccio comparativo. Da un lato, gli analisti esitano a parlare di “fascismo” – salvo qualche eccezione come l’Alba dorata in Grecia (che si può definire “neonazista”) o come il Jobbik in Ungheria – e sono d’accordo nel riconoscere le differenze che separano questi nuovi movimenti dai loro antenati degli anni Trenta; dall’altro, qualsiasi sia il tentativo di definire questo nuovo fenomeno, il confronto con il periodo tra le due guerre è inevitabile. Il concetto di “fascismo” risulta a volte insoddisfacente, inappropriato, spesso inevitabile per comprendere questa nuova realtà. Quello di “post-fascismo”, termine che distingue questa novità dal fascismo storico e che suggerisce una continuità così come una trasformazione, mi sembra più pertinente; non risponde certo a tutte le questioni aperte, ma corrisponde a questa fase transitoria.
Cercare l’alternativa. Rimettere il demos al centro
Era il 1998 quando i capi di Stato e di governo dell’Eurozona si incontrarono ad Amsterdam per definire lo Statuto e la composizione della Banca Centrale Europea. Nonostante molti Paesi, fra cui l’Italia, fossero all’epoca governati da forze progressiste o di centro-sinistra, venne congiuntamente deciso che l’azione principale della BCE dovesse essere diretta esclusivamente alla lotta all’inflazione, mentre la sua capacità di intervento a sostegno dell’economia e dei bilanci nazionali doveva essere fortemente limitata. Tutte scelte, queste, perfettamente in linea con un fondamentalismo di mercato che vede nell’inflazione il nemico da combattere (perché l’inflazione svaluta il valore del capitale) e nell’occupazione una variabile destinata ad aggiustarsi da sé attraverso la svalutazione del lavoro.
A chi oggi giustamente attacca l’Unione europea per le sue scellerate politiche economiche o la sua completa mancanza di democrazia vogliamo ricordare questo: sono gli stessi stati nazionali ad avere dato all’Unione tale configurazione attraverso l’esclusione di alternative reali nella dialettica politica e nell’economica nazionale. E ora non sarà sufficiente disfarsi dell’Unione per imprimere una svolta alle politiche del pensiero unico. Perché il problema non è semplicemente uno spazio geografico, un confine o una moneta. Ma l’uscita da un immaginario distorto e corrotto e da un sistema economico iniquo e distruttivo.
Francoforte, sede della Banca Centrale Europea
L’opposizione fra quanti si dicono a favore di una maggiore integrazione europea e quanti chiedono un’uscita dalla moneta unica è un’opposizione falsata e fuorviante. Non esiste, infatti, un’Europa arcigna a cui si contrappone una nazione sociale ed egualitaria. Non esiste una tecnocrazia europea neoliberale e predatoria a cui si contrappone una politica nazionale emancipata e dalla parte del popolo. Anzi. Gli Stati nazionali – i primi ad avere costruito l’Europa così com’è – sono anche i primi ad essere stati catturati da lobby di potere e ad aver visto lo spazio della rappresentanza sterilizzato da qualunque germe di alternativa.
Basti pensare alla cattura della democrazia da parte dei grandi interessi economici e finanziari, capaci di influenzare sempre più direttamente le politiche pubbliche.
Abbiamo più volte scritto a riguardo la totale assenza di democrazia nei processi decisionali europei. Ma c’è almeno un altro deficit democratico da affrontare: la difficoltà dei cosiddetti corpi intermedi, e più generalmente delle strutture della società civile, dei sindacati, dei media e senz’altro dei partiti, di recuperare lo spazio transnazionale e di agire politicamente a livello europeo.
Abbiamo bisogno di un nuovo tipo di forza politica che dai municipi all’Europa, e viceversa, con un biglietto di andata e ritorno, abbia la capacità di rimettere il demos al centro della democrazia nazionale ed europea. Una forza che sia in grado di tornare a dire parole chiare attorno a un programma di rottura con le ricette fallimentari del passato. E che abbia una strategia su come cambiare rotta a questa Europa, al tempo stesso contro l’establishment economico e finanziario che ci ha portato al disastro e contro i partiti nazionalisti che in questo disastro cercano, come negli anni 30, di imporre una soluzione reazionaria e nazionalista.
Per sottrarre il nostro continente dalla rovina a cui va incontro, proponiamo una strategia di disobbedienza costruttiva. Ma cosa vuol dire? Disobbedire alle proposte politiche o alle direttive che danneggiano l’integrità europea è condizione necessaria ma non sufficiente. Per essere progressisti e costruttivi dobbiamo coniugare la disobbedienza con contro-proposte dettagliate di politiche o direttive alternative a quelle alle quali noi disobbediamo. Queste proposte alternative devono essere universalizzabili.
Lo status quo non è più un’opzione. Utopico non è immaginare un cambiamento possibile e necessario, ma immaginare che le cose possano restare come sono oggi. Non accadrà. La domanda che dobbiamo porci non è se cambiare sia possibile, ma come riuscire a indirizzare la grande trasformazione già in atto verso un’uscita virtuosa e umanista da un sistema in crisi e agli sgoccioli.
Il testo è tratto dal contributo Tre tesi sull’Europa ospitato nel libro collettaneo Indicativo futuro. Le cose da fare: materiali per una politica alternativa. Abele edizioni.
La Russia in Asia e in Europa
Descrizione dell’eBook
Il saggio La Russia in Asia e in Europa è stato pubblicato nel 1921 su L’Europa Orientale, la rivista mensile dell’Istituto per l’Europa Orientale di cui era segretario Ettore Lo Gatto. L’Istituto e la sua rivista sono stati durante il ventennio fascista la più importante sede di intervento degli intellettuali italiani sui problemi dell’Europa dell’Est. Nella serie delle “Pubblicazioni dell’Istituto per l’Europa Orientale”, Šmurlo ha pubblicato anche un saggio, breve ma frutto delle sue lunghe ricerche archivistiche, su JurijI Križanič (1618 – 1683). Panslavista o missionario?, tradotto da Lo Gatto. In occasione della sua partenza dall’Italia, Šmurlo ha lasciato all’Istituto la sua biblioteca di oltre 6.000 volumi. Il saggio di Šmurlo sviluppa in poche pagine una riflessione sui caratteri di lunga durata della storia della Russia, a partire dalla sua geografia, in cui si riflettono le sue posizioni contrarie al determinismo geografico e alla visione di una Russia eurasiatica. Lo scritto individua una contraddizione di fondo tra il fattore culturale (che per lui si identifica con la civiltà europea e prima di tutto con il cristianesimo) e il fattore geografico che proietta la Russia in funzione difensiva ma anche espansiva verso l’Asia, facendo della colonizzazione un elemento permanente della storia russa, ma non assimilabile agli imperialismi delle grandi potenze europeo-occidentali.
Conosci l’autore
Evgenij F. Šmurlo (1854-1934) è stato un importante storico russo formatosi all’Università di S. Pietroburgo, ma particolarmente legato all’Italia dove ha effettuato vari soggiorni e ha lavorato pressoché ininterrottamente – tranne alcuni brevi ritorni in Russia, l’ultimo nel 1916 – dal 1903 al 1924, in particolare all’Archivio della Congregazione “De Propaganda fide” del Vaticano. Il crollo del regime zarista e poi il rovesciamento del Governo provvisorio, nel1917, inaugurano per lui una nuova epoca di “anni torbidi”, analoga a quella che all’inizio del ‘600 aveva minacciato l’esistenza di uno Stato russo. Dal 1924 ha fatto parte dell’emigrazione politica russa a Praga, dove ha organizzato e presieduto la locale Società storica russa. Autore di vari studi sulle relazioni tra il Vaticano, l’Europa orientale e la Russia e su Pietro il Grande, di una Storia della Russia in 3 volumi (Monaco 1922, trad. it. Roma,1928-1930) e di un Corso di storia russa (Praga, 3 voll., 1931 – 1935) che unisce la narrazione dei fatti alla discussione delle questioni storiografiche più controverse.