Guardare oltre il muro: la perestrojka
Economia – Capitolo 11
«Negli anni Settanta ed all’inizio degli anni Ottanta si sono avute nello sviluppo del paese determinate tendenze negative e difficoltà. Non sono stati valutati tempestivamente e nel modo dovuto i cambiamenti della situazione economica, la necessità di svolte profonde in tutte le sfere della vita.»
Mikhail Gorbačëv
Le riforme di Gorbačëv
Michail Sergeevič Gorbačëv fu l’ultimo Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico. Già dopo pochi mesi dal suo insediamento, il disastro nucleare di Černobyl’ lascia intendere che non sarà un governo felice. Gorbačëv si incarica di portare avanti una ristrutturazione economica del paese (perestrojka) accompagnata dalla trasparenza nelle decisioni del Comitato Centrale (glasnost). Tra le prime riforme c’è l’ammissione di piccole imprese private, e l’incoraggiamento del Komsomol (Unione comunista della gioventù) a sviluppare attività imprenditoriali.
La crisi del sistema
La progressiva libertà di manovra imprenditoriale e di dibattito delle questioni interne dà uno scossone al mondo culturale e sociale del paese, ma non smuove molto sul fronte economico. I nascenti imprenditori legati al Komsomol accumulano ricchezze e procedono a una privatizzazione a “porte chiuse” delle risorse sovietiche, costituendo una nuova oligarchia economica del paese. Le liberalizzazioni e la democratizzazione in corso avvengono in modo disordinato e generano una battaglia interna tra riforme e conservazione del sistema sovietico. Il tentato golpe dell’agosto 1991 dà il colpo di grazia ad un sistema in crisi, che cessa di esistere nel dicembre dello stesso anno con le dimissioni di Gorbačëv.
Guarda la photogallery
Di seguito viene riproposta la bacheca dell’undicesimo pannello della mostra, allestita con tre manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, e le immagini di tre pubblicazioni: la copertina di Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo di Michail Gorbačëv, la copertina di un numero della rivista Realtà sovietica e la quarta di copertina di un numero del giornale satirico «Krokodil», dedicata alla disillusione delle nuove generazioni.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
Sul campo. L’inchiesta operaia di Marx: comprendere il mondo per cambiarlo
Che fine ha fatto il conflitto sociale?
Duecento anni di Marx: la dignità di essere uomini
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
È ormai noto che la maggior parte della popolazione vive in agglomerati urbani e che entro la metà di questo secolo questa quota arriverà a oltre due terzi. La popolazione urbana è infatti in crescita costante: ogni anno aumenta di circa 60 milioni di persone.
Sebbene le città siano luogo di vita per un numero così elevato di persone, la rappresentazione delle stesse rimane indefinita. Da una parte c’è chi vede la città come un luogo di opportunità, di incontro, di diversità e di confronto, dall’altra chi la rappresenta come luogo di disuguaglianze e individualismo, di insicurezza e di inquinamento. Andando al di là delle differenti immagini che più che essere opposti di un continuum identificano aspetti che coesistono nella città contemporanea, il kit “Città vivibile, città del futuro” offre uno sguardo sulle evoluzioni dei contesti urbani. E, attraverso l’analisi del caso di Portland (Oregon), aiuta gli studenti a mettere a fuoco i fattori di vivibilità di una città quali la mobilità sostenibile, la produzione locale di cibo, l’energia rinnovabili e energia pulita, e la vitalità dei quartieri.
Sul campo. L’inchiesta operaia di Marx: comprendere il mondo per cambiarlo
Descrizione
Apparentemente marginale rispetto agli scritti più teorici, l’Inchiesta operaia di Marx può essere compresa solo all’interno della sua più generale prospettiva metodologica volta a svelare scientificamente il carattere critico e non naturale del mondo sociale. Ripresa in contesti storici e politici da collettivi intellettuali e gruppi organizzati tra i più diversi a livello globale, l’Inchiesta Operaia (1880) rivive in questa pubblicazione di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli introdotta da una ampia ricostruzione scritta da Riccardo Emilio Chesta sulle tante vite di questa opera classica del filosofo di Treviri.
Conosci il curatore
Riccardo Emilio Chesta is a Postdoctoral Research Fellow at the Scuola Normale Superiore in Florence. He holds a B.A. in Sociology from the University of Trento, a M.A. in Social Sciences from the EHESS and ENS Paris, and a Ph.D. in Political and Social Sciences from the European University Institute in Florence. He has been Teaching Assistant in Sociological Theory at the University of Trento, Research Assistant for the University of Toulouse and Visiting Scholar at the Urban Democracy Lab, New York University. He is a contributor to Sociologica. International Journal For Sociological Debate, and he collaborates with the Giangiacomo Feltrinelli Foundation in Milan. Focusing on social theory, technology and social movements, his work has investigated the dilemmas of expertise and activism on large-infrastructural projects, industrial plants and the environment. He is currently working on digital capitalism, industry 4.0 and their consequences for worker mobilizations. His researches have been published on international peer-review journals like Global Dialogue, Sociologica as well as on Italian ones like Micromega, Polis, Studi Culturali.
Che fine ha fatto il conflitto sociale?
L’immagine è tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. L’istantanea raffigura un’assemblea dell’Alfa Romeo di fine anni settanta.
Nel tempo della disintegrazione del lavoro salariato, della progressiva erosione dei diritti, dell’aumento crescente di disuguaglianze, disoccupazione, vulnerabilità, instabilità economica e sociale, vale la pena interrogarsi sul ruolo del conflitto. Nei nuovi, per certi versi inediti rapporti di lavoro emersi nell’era digitale, dov’è il conflitto? Si può parlare di aumento, diminuzione, moltiplicazione dei conflitti nei rapporti di lavoro in questo momento storico? Quali sarebbero i regimi di lavoro dell’economia capitalistica contemporanea in cui emergono maggiori mobilitazioni, e quali le dimensioni in cui si registra la totale assenza di tensioni?
Rispondere a questa serie di domande senza dare nulla per scontato è un’operazione semplice solo in apparenza, e sebbene possa sembrare banale, si tratta di una riflessione necessaria a osservare ciò che è ovvio nel tentativo di decostruirlo. La ricerca di una risposta generale rischia di ridurre la complessità delle reali, molteplici forme di mobilitazione sociale nei rapporti di lavoro oggi, in Italia e non solo, ma anche di sminuire le contraddizioni che emergono nei processi di lotta, che andrebbero analizzate di pari passo per non cadere in analisi strumentali. Interrogarsi su che fine abbia fatto il conflitto sociale nel mondo del lavoro in costante decomposizione può indurre in altre parole ad assecondare un dibattito sterile che cerca di prendere posizione all’interno di una visione dicotomica, superficiale, tra chi in sostanza vede con inguaribile ottimismo aumentare sempre più i conflitti e chi al contrario sostiene che il conflitto non esiste più, che le piazze sono deserte, che i sindacati non servono a nulla se non a gettare acqua sul fuoco, eccetera. Un dibattito privo di sfumature, al di là di ogni “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”.
Come viene raccontato il conflitto nel mondo del lavoro è invece un’ulteriore questione connessa agli interrogativi precedenti. Nella letteratura accademica proliferano studi e analisi sul rapporto tra forme di lavoro e rivoluzione digitale, sul cosiddetto capitalismo delle piattaforme e sulla crisi del valore del lavoro in queste dinamiche. Numerosi sono gli studi che riflettono sui processi di resistenza e sulla varietà delle forme di sindacalizzazione nell’economia delle piattaforme e nel mondo del lavoro condizionato dalle tecniche digitali. Una letteratura ibrida s’interroga poi sulla genesi del conflitto, sulle condizioni materiali che producono l’emergere di una coscienza a partire da un punto di non ritorno in cui la situazione diventa inaccettabile.
A tal proposito, vale la pena di ricordare brevemente due luoghi in cui la conflittualità sembra esprimersi nella sua forma più viva. Il primo luogo riguarda il microcosmo dei lavoratori di consegne del cibo, senza dubbio tra i fronti più caldi del conflitto in questo momento. Più o meno dalla notizia della sentenza che sanciva l’assenza di un vincolo di eterodirezione e dipendenza, il lavoro dei riders delle piattaforme di food delivery è al centro dell’attenzione politica e mediatica, una centralità che è andata di pari passo con i recenti fatti di cronaca – come l’incidente grave di un lavoratore che consegnava cibo a Milano. La stampa e le istituzioni, oltre al mondo accademico e ai sindacati confederali, hanno iniziato a prendere in considerazione le mobilitazioni di questo segmento di forza lavoro, le cui lotte in verità sono portate avanti da molto prima che si accendessero i riflettori su questo universo lavorativo. Sono infatti da almeno due anni che tra i fattorini c’è chi ha iniziato a protestare contro le multinazionali delle piattaforme digitali. Attraverso assemblee, scioperi, pratiche di mutualismo, vertenze legali, è stato riaffermato il diritto alla lotta sindacale per rivendicare un contratto collettivo decente, delle condizioni di lavoro migliori laddove il dispositivo tecnologico esercita controllo e disciplinamento sulla forza lavoro spacciandolo per autonomia. Un sistema che favorisce l’estrazione di valore dalla prestazione di lavoro basandosi sui princìpi dell’accumulazione flessibile, della massima fungibilità e flessibilità di un lavoro che la controparte si ostina a definire autonomo.
Milano, 1960. Manifestazione degli elettromeccanici
Il secondo terreno di conflitti e tensioni è quello che viene generalmente definito come la catena logistica del trasporto merci. E nonostante le differenze, si tratta di un luogo contiguo al primo per due ragioni principali: l’esercizio di un servizio di manipolazione e trasporto di una merce, sia essa il cibo o un pacco di Amazon, e una polarizzazione estrema che passa dall’ipertecnologizzazione delle attività logistiche-distributive da un lato a una perversa deregolamentazione dei diritti più elementari in tema di lavoro dall’altro (si pensi al “modello Amazon” e al rifiuto di riconoscere qualsiasi forma di negoziazione con i sindacati).
I conflitti in questi ambiti evidenziano una questione centrale più volte ribadita dagli studiosi, vale a dire la posizione strategica occupata nel capitalismo reticolare contemporaneo dai lavoratori della logistica e da quelli che movimentano le merci. Un libro uscito di recente parla non a caso di “choke points”, nodi critici e fragili delle catene di fornitura capitalistica in cui sono posizionati gruppi di lavoratori alle prese con lotte e conflitti che sfidano gli stessi principi di accumulazione del capitalismo globale, basati sulla circolazione di beni senza soluzione di continuità e sui processi di accelerazione dei flussi di merci.
Prima di riflettere sulle mutevoli dinamiche di subordinazione e sfruttamento nel mondo del lavoro in questo o quel settore, e sulle relative istanze portate avanti, occorre tuttavia fare un passo indietro e ribadire un principio di natura concettuale: è necessario introdurre la categoria di “conflitto” quando si parla di lavoro (magari evitando retoriche vittimistiche e narrazioni superficiali che tendono a dipingere gli attori principali di queste lotte come dei subalterni). Non si può prescindere dall’uno senza l’altro. È opportuno mettere questa parola di nuovo al centro delle analisi sui mutamenti dei rapporti di lavoro in relazione ai meccanismi di accumulazione della ricchezza nell’economia contemporanea, e riflettere, da un lato, su come questi meccanismi incidono sulle condizioni di vita delle persone coinvolte direttamente, dall’altro su come, dove, perché e in che misura queste persone esprimono o meno istanze di emancipazione collettiva capaci di restituire dignità al lavoro. Se si vogliono interpretare le trasformazioni del lavoro in un’epoca segnata dalla rivoluzione tecnologica e digitale bisognerebbe partire da questa semplice, duplice constatazione: lavoro e conflitto, lavoro è conflitto. Nel suo studio sulle trasformazioni storiche dei movimenti operai, Beverly Silver ha sottolineato come Marx e Polanyi affermavano entrambi, seppure in modo diverso, questo dato di fatto: il lavoro è una “merce fittizia”. Di conseguenza, qualsiasi tentativo di considerare gli esseri umani come una merce al pari di ogni altra non può che portare a contestazioni profondamente sentite e forme di resistenza dalla natura ciclica, a fasi, o oscillatoria e ricorsiva. I conflitti sono quindi endemici rispetto al rapporto tra capitale e lavoro, anzi definiscono in teoria tale rapporto. Nel tempo in cui la prestazione di lavoro è sempre più una merce fungibile, svalorizzata, vale la pena ribadirlo. Ancor di più se ci si chiede spesso come cambia il lavoro mentre ci s’interroga raramente su come dovrebbe cambiare il modo di studiare il lavoro che cambia.
Duecento anni di Marx: la dignità di essere uomini
A 200 anni dalla nascita di Karl Marx (5 maggio 1818), in un periodo in cui molti pensano che il suo pensiero non parli più a noi, non è fuori luogo riproporre quelle domande inevase che sono il motore del sua ricerca, a partire da quei testi che ne hanno segnato la fortuna e che Fondazione Giangiacomo Feltrinelli conserva nel suo patrimonio in edizione rare e spesso in prima edizione.
Vogliamo invitare a una lettura rinnovata di Marx a partire da un passaggio che segna la scoperta dell’idea di feticismo della merce e il cui tema è come liberare l’economia dal pensiero che assimila gli uomini a merci fino a ridurli a cose, riassegnando invece all’economia il compito di trattarli di nuovo come persone.
È il 1844, quella che riprendiamo qui è una pagina dai manoscritti economico filosofici.
Marx non è ancora Marx, ma il suo rovello parla ancora a noi.
Il mio lavoro sarebbe libera manifestazione della vita, quindi godimento della vita. Sotto il presupposto della proprietà privata esso e alienazione della vita, infatti io lavoro per vivere, per procurarmi mezzi per vivere. II mio lavorare non è vita.
In secondo luogo: nel lavoro sarebbe perciò affermata la peculiarità della mia individualità, poiché mia vita individuale. Il lavoro sarebbe dunque proprietà vera, attiva. Ma sotto il presupposto della proprietà privata la mia individualità e alienata fino al punto in cui questa attività mi e detestabile, e un tormento e piuttosto soltanto la parvenza di un’attività, perciò anche un’attività soltanto imposta e soltanto da un accidentale bisogno esteriore, non da un necessario bisogno interiore.
Il mio lavoro può apparire nel mio oggetto solo come quel che è. Non può apparire come quel che non e per sua essenza. Quindi esso appare ancora soltanto come l’espressione oggettiva, sensibile, contemplata e perciò al di sopra di ogni dubbio, della mia perdita di me stesso e della mia impotenza.
Guarda la photogallery