Innamorarsi dell’Occidente
Propaganda – Capitolo 10
«Divenne chiaro che la forza principale che guidava la trasformazione non erano le riforme economiche pianificate […] ma un rapido processo di destabilizzazione politica e il collasso del regime […] Poiché tutto stava crollando sotto i nostri occhi, c’era il bisogno di pensare a passi fermi, decisivi, pericolosi e difficili verso la creazione immediata di una produzione di mercato alternativa, in un paese che non ne aveva avuta una per 75 anni.»
Egor Gajdar
La crisi degli anni Ottanta
All’inizio degli anni Ottanta, non è più possibile nascondere le crisi che affliggono la realtà sovietica: crisi economica, crisi nella coesione sociale, risveglio dei separatismi su base etnica e nazionalistica, sfiducia diffusa verso la dirigenza, corruzione crescente, affaticamento per il lungo confronto con l’Occidente, divisioni all’interno del partito e del gruppo dirigente sulla strada da intraprendere per riformare il sistema sovietico.
Riavvicinarsi all’Occidente
Questa è la situazione che si trova a dover fronteggiare Michail Gorbacëv, giunto alla carica di segretario del PCUS nel 1985. Nello sforzo di salvare quello che per lui resta in ogni caso un modello politico positivo, improntato a un supremo senso di giustizia al quale il liberismo capitalista non può rispondere, Gorbacëv promuove una serie di riforme che cercano, da un lato, di rivitalizzare l’economia, introducendo una cauta liberalizzazione, dall’altro di garantire un clima di apertura e pluralismo nel dibattito pubblico all’interno del paese all’insegna della trasparenza.Sul piano internazionale Gorbacëv punta sulla distensione con gli Stati Uniti e sul disarmo con l’obiettivo di costruire insieme all’Occidente una casa comune, sul terreno dove prima albergava la sfiducia e lo scontro tra modelli contrapposti.
La fine di un’era
Il paese si divide tra i sostenitori delle riforme e gli oppositori al nuovo corso. L’Occidente non è mai stato così vicino, il miraggio della opportunità che promette non è mai stato così tangibile. Nell’agosto del 1991 un colpo di stato tenta di escludere Gorbacëv dalle sue funzioni per fermare il nuovo corso. Il tentativo fallisce, ma dopo pochi giorni Gorbacëv si dimette. Nel dicembre del 1991 le repubbliche che compongono l’URSS diventano indipendenti e l’Unione Sovietica implode.
È la fine di un’era, la fine di un mondo. L’Occidente e i suoi modelli penetrano facilmente in ciò che resta del sistema sovietico, consentendo a una ristretta cerchia di oligarchi di approfittare delle privatizzazioni e liberalizzazioni per fondare una nuova casta di ricchi e spregiudicati imprenditori.
Guarda la photogallery
Di seguito viene riproposta la bacheca del decimo pannello della mostra, allestita con un manifesto, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, la copertina di un numero del magazine illustrato Ogoniok, e tre pubblicazioni scritte da alcuni dei protagonisti della vita politica della Russia contemporanea.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
Approfondisci
L’eBook Oltre il confine. Europa e Russia dal 1917 a oggi di Andrea Panaccione, racconta la complessità del rapporto tra Russia ed Europa Occidentale in età moderna e contemporanea.
La storia e la cultura russa sono presenti nel profondo dell’Europa così come, viceversa, l’Europa e la sua storia sono parte dell’identità russa.
Allo stesso tempo l’Europa, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, soprattutto nel Novecento, non ha mai cessato di guardare alla Russia come a un partner privilegiato ma con cui, anche, avere una profonda conflittualità.
Il ritorno dei partiti?
Le conseguenze del futuro \ Comunità
Come sta cambiando il capitalismo occidentale?
Verso una Carta del lavoro mondiale?
Il ritorno dei partiti?
Partito solido o partito liquido? Partito come spazio o come soggettività? Partito reale o partito virtuale? Sono dicotomie nette e non particolarmente interessanti da discutersi se poste in questi termini ma danno l’idea dell’esigenza di un ripensamento, anche carsico, delle modalità di fare politica alla luce dell’aumento delle diseguaglianze, della globalizzazione, dell’atomizzazione del mondo del lavoro e degli sviluppi tecnologici. È passato qualche anno dal 2013, seppur sembri quasi qualche decennio, dal dibattito che, in Italia, fra gli altri, coinvolse anche Fabrizio Barca e la sua idea del “partito palestra”. Nel frattempo, una legislatura si è conclusa e una nuova ha visto la luce.
In un contesto di profonde trasformazioni democratiche all’interno delle quali la “sovranità che appartiene al popolo” sembra non un assunto ma un oggetto di accese discussioni, è interessante riflettere su quel “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Infatti, l’articolo 49 della Costituzione, che attribuisce de facto un’importanza primaria ai partiti nell’esercizio e nel condizionamento della politica nazionale, è oggi di sempre più difficile attuazione. Chiedersi se i partiti politici siano l’infrastruttura principale della democrazia rappresentativa è una domanda che ha poco a che fare con la teoria democratica e molto con la sua prassi, col rapporto fra cittadinanza attiva (e non solo) e istituzioni, con il ruolo delle classi dirigenti in rapporto alla protesta, al malessere, ma anche alle spinte di cambiamento che si politicizzano nelle maniere più svariate.
Ogni paese, persino ogni territorio, ha le proprie specificità, la propria storia politica con tradizioni, contraddizioni, condizioni peculiari ecc., ma quale sia la forma più adatta per interpretare la democrazia del ventunesimo secolo sembra essere oggetto di ripensamento in tutto Occidente tranne che in Italia.
In questo senso, è interessante il contributo proposto qualche tempo fa da Paolo Gerbaudo su Jacobin. Dal dibattito intorno all’abolizione dei superdelegati e intorno al rapporto fra base ed eletti avvenuto nel Partito Democratico statunitense, alla ristrutturazione del Labour Party britannico in connessione ai sindacati e contemporaneamente al mondo giovanile, fino alla saldatura fra intellettuali e movimento operatasi nell’alveo di Podemos in Spagna, l’intervento di Gerbaudo mette in luce un’eventualità non più liquidabile o trascurabile: quella che i partiti politici, con nuove modalità di organizzazione, partecipazione e mobilitazione, possano rappresentare un efficacie modalità per incanalare il malcontento popolare e trasformarlo in istanza di cambiamento e di governo. Se la modernità ha portato i grandi partiti-massa del novecento, la post-modernità sembrava aver portato la dissoluzione dei corpi intermedi e delle organizzazioni collettive, è forse giunto il tempo di chiedersi se la post-post modernità del nuovo millennio non abbia portato con sé “the return of the party”?
Le conseguenze del futuro \ Comunità
Descrizione
Il contesto generato dalle diverse forme di insostenibilità – economiche, sociali, ambientali – della globalizzazione impone una riflessione sui paradigmi di sviluppo. Un ripensamento del sistema economico che, soprattutto nel quadro di una crisi che colpisce anche le istituzioni pubbliche e i loro sistemi di welfare, metta al centro l’idea di comunità: occorre un investimento nelle relazioni tra esseri umani per la convivenza e la sopravvivenza delle società nella loro funzione di protezione, sostegno, gestione delle diseguaglianze, abilitazione delle qualità e
dei progetti di vita degli individui. È possibile salvarsi da soli?
Un eBook in collaborazione con Eni
Come sta cambiando il capitalismo occidentale?
Molte volte il capitalismo è stato dato per finito, e molte volte si è rigenerato cambiando il proprio modo di funzionamento. Non è mai mutata, però, la natura profonda dello “spirito del capitalismo”, cioè il desiderio di trarre un profitto dal proprio lavoro da reinvestire in un continuo processo di accumulazione. È stato proprio questo il motivo del successo del capitalismo come principio di funzionamento dell’economia, a cui si è dovuta adattare la società nel suo complesso dotandosi di istituzioni sociali coerenti con l’incessante processo di accumulazione: dalla famiglia nucleare all’individualismo liberale, dalla democrazia come forma di organizzazione politica al welfare state come difesa dagli effetti negativi della competizione di mercato.
Contrariamente a quanto sostenuto all’inizio degli anni ’90 da alcuni studiosi a proposito della “fine della storia” e dell’inevitabile successo del modello sociale, politico ed economico occidentale, da almeno una ventina d’anni il capitalismo occidentale sta vivendo una profonda trasformazione. I fenomeni che hanno innescato questo processo sono noti, e senza pretese di esaustività possiamo ricordare la globalizzazione economica e culturale e la crescente competizione che essa innesca, le trasformazioni tecnologiche e le conseguenze che queste hanno sull’organizzazione della produzione e del lavoro, l’accelerazione dei movimenti di persone su scala globale che sfidano la rigida concezione della cittadinanza basata sull’appartenenza alla comunità nazionale. La “superiorità” del modello occidentale e la supremazia politica, militare e culturale dei paesi ad esso appartenenti (gli USA in primis) sono drammaticamente messe in discussione dall’emergere di paesi (per prima la Cina) che sono in grado di generare crescita economica e benessere per i propri cittadini pur negando quel pacchetto di diritti individuali (civili, politici e sociali per dirla con Marshall) che sono sempre stati considerati parte integrante e indispensabile del modello occidentale.
E infatti vediamo aumentare le disuguaglianze e regredire i diritti sociali in tutti, o quasi, i paesi occidentali, in primo luogo quelli europei. A questo si accompagnano crescenti tensioni sociali che creano fratture e conflitti sociali che la politica non sembra in grado di ricomporre. Si pensi per esempio al successo che stanno avendo movimenti politici populisti spesso xenofobi e di estrema destra in tutti i paesi europei, e in generale all’estremizzazione del confronto politico che ha portato al successo di Brexit in Gran Bretagna e all’elezione di Donald Trump negli USA.
Manifesto tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Tuttavia si segnalano anche fenomeni che potremmo chiamare di innovazione sociale ed economica, che lasciano immaginare una ridefinizione del modello sociale capitalistico. Innanzitutto, a fronte della crisi delle tradizionali appartenenze collettive (partiti e sindacati in primo luogo) si osservano nuove forme di aggregazione e identificazione da parte dei giovani. Per esempio, nelle città la mobilitazione su istanze locali, invece che sui grandi ideali novecenteschi, sembra in grado di aggregare i cittadini in modo trasversale. Si può forse intravvedere un nuovo tipo di partecipazione democratica non motivata dalle appartenenze contrapposte sull’asse del conflitto tra capitale e lavoro, ma dal riconoscersi cittadini che condividono interessi simili nella difesa del proprio contesto di vita. Quindi, meno ideologia e più pragmatismo. Il successo della sharing economy – al netto dell’uso strumentale che a volte ne viene fatto – è allo stesso tempo una soluzione innovativa che consente anche a chi possiede minori risorse economiche di accedere a consumi che altrimenti gli sarebbero preclusi, e l’espressione di un’attenzione ai beni collettivi che si era forse affievolita nei decenni passati. Il tutto grazie alla diffusione di quelle innovazioni tecnologiche che spesso vengono frettolosamente demonizzate come foriere di disoccupazione e declino economico.
In Western capitalism in transition. Global processes, local challenges (a cura di Andreotti, Benassi e Kazepov, Manchester University Press, in uscita a febbraio 2018), alcuni dei più noti scienziati sociali si interrogano su questi processi di mutamento del capitalismo contemporaneo e che investono diverse dimensioni sociali: il welfare state, la cittadinanza e le nuove forme di mobilitazione sociale, le migrazioni, le trasformazioni urbane, la povertà e i processi di segregazione spaziale.
Verso una Carta del lavoro mondiale?
Descrizione dell’eBook
Problemi del lavoro nell’ora presente raccoglie alcune lezioni tenute da Giuseppe Prato all’Università Bocconi nel maggio del 1919. Tra le varie questioni affrontate, tutte di urgente attualità nell’inquieto dopoguerra italiano, disoccupazione, lavoro femminile, organizzazione scientifica della produzione e sindacalismo operaio. Di particolare interesse le pagine dedicate al progetto di una Carta del lavoro mondiale, poi confluito nella creazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel quadro della Conferenza di Parigi del 1919. Il conflitto aveva avuto, tra le sue conseguenze, quella di bloccare il processo di globalizzazione in atto, favorendo una recrudescenza delle tendenze nazionalistiche a discapito di quelle internazionaliste; ciò fu vero anche in tema di relazioni industriali. Quella del lavoro diveniva in tal modo una delle questioni che gravavano sul futuro della fragile pace europea appena riconquistata ma già intrinsecamente gravata da nuove tensioni.
È in questo quadro che iniziò a delinearsi il progetto di un Codice del lavoro mondiale da emanarsi contestualmente allo statuto della Società delle Nazioni. Il problema della codificazione internazionale del diritto operaio, tuttavia, inglobato nella più generale sistemazione del diritto internazionale ad opera della Conferenza di Parigi, avrebbe finito per assorbirne ritardi, titubanze e insuccessi.
Conosci l’autore
Giuseppe Prato. Piemontese, economista e storico, collaborò come redattore-capo e poi come condirettore alla Riforma sociale. Si occupò soprattutto di storia economica e sociale del Piemonte, ma non fece mai mancare il suo apporto anche alla discussione sulle problematiche economiche nazionali più urgenti ed attuali.