Una storia europea chiamata Rivoluzione: l’economia
Economia – Capitolo 1
“[…] la necessità di un ritmo più accelerato nell’attività economica […] è […] una necessità indiscutibile per la realizzazione dello stato socialista; […]”
L’economia dopo la Grande Guerra
La sfida che si apre con la Prima guerra mondiale è quella di un rinnovato modello economico che possa sorreggere una produzione industriale ormai compiutamente di massa. La risposta che verrà dalle due sponde dell’Europa (gli Stati Uniti da una parte, la Russia sovietica dall’altra) è quella di un diverso assetto industriale dove conta la grande impresa, la capacità di controllare il sistema della distribuzione e di pensare a una diversa organizzazione del lavoro e dei suoi tempi.
Il modello sovietico
La grande crisi del 1929 sarà un momento chiave per ripensare criticamente il ruolo dello Stato nell’economia, guardando con particolare interesse alla Russia sovietica: con le sue politiche di piano, ma anche con il sorprendente sviluppo industriale, l’Urss è una realtà che affascina, ma allo stesso tempo inquieta. È un caso da studiare, e per certi aspetti da imitare, anche da parte di quei regimi politici che pure si collocano politicamente agli antipodi, ma che vedono in quel sistema un modo per colmare i ritardi del proprio modello industriale.
Il grande processo di modernizzazione portato avanti nei primi anni di esistenza dell’Unione Sovietica è stato accompagnato da una ridefinizione non soltanto del rapporto tra Stato ed economia, ma anche dei concetti e delle pratiche di lavoro, e del nesso che il lavoro ha sia con la vita quotidiana sia con la costruzione del benessere.
Tra USA e URSS
Il modello di sviluppo sovietico trova pienamente senso solo se si tiene ben presente il suo rapporto con il paradigma occidentale, incarnato dall’Europa e rilanciato all’ennesima potenza dagli Usa dopo la Seconda guerra mondiale. Nella concorrenza tra i due blocchi, l’Europa si colloca in modo non così netto come la contrapposizione in “sistemi” sembra suggerire: se l’America è all’apice della potenza ed esprime tutte le meraviglie dell’industrializzazione capitalista di stampo fordista, il modello di produzione sovietica – nel quale l’uguaglianza sociale sembra garantire la piena efficienza produttiva, sovvertendo i destini di un mastodonte che pareva votato all’arretratezza – non smette di esercitare il suo fascino sui tanti che gettano lo sguardo oltre cortina.
La Russia sovietica costruisce un mito di modernizzazione, di efficienza e di partecipazione collettiva attraverso il gesto produttivo che, da un lato, serve a rafforzare la costruzione del cittadino (e della cittadina) 1.0, dall’altro lancia la sfida all’esterno, ponendosi come l’alternativa in grado di reggere il passo e, anzi, di accelerarlo.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del primo pannello della mostra, allestita con quattro manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
Approfondisci
In un percorso di diciotto immagini, tre modi di vivere e interpretare la Grande guerra sulle pagine dell’”Avanti”, dell’”Asino” e della “Tradotta”. I protagonisti sono i caricaturisti di punta del quotidiano socialista e del più celebre giornale satirico pubblicato tra Otto e Novecento: Giuseppe Scalarini (1873-1948) e Gabriele Galantara (1865-1937), nonché l’illustratore Antonio Rubino (1880-1964), già co-fondatore del “Corriere dei Piccoli” e tra i collaboratori più apprezzati della “Tradotta”.
Tre modi diversi di fare propaganda pro o contro la guerra, accomunati, a tratti, dalla grande modernità ed efficacia del messaggio veicolato, indicativa di un nuovo modo di leggere un contesto sociale in rapida trasformazione. Dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, tre brevi percorsi tra 1914 e 1919 che consentono di visualizzare la guerra con le lenti della satira e della propaganda.
Kit didattico: Opportunità per tutti
Il nazionalismo economico nell’analisi di Rosa Luxemburg
Strade giuste. Economia e società nel segno del bene comune
La Public History tra memoria e comunità
Kit didattico: Opportunità per tutti
Il 14,5% della popolazione mondiale è povero: oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, tra queste, una su tre ha meno di 13 anni. Cosa significa essere poveri? La povertà è un problema complesso e si accompagna al tema delle disuguaglianze. Lo sapevi che il 10% della popolazione globale non ha accesso ad efficienti servizi di acqua potabile? Che nel 2011 65 milioni di ragazze non hanno avuto accesso all’istruzione primaria e secondaria?
Il kit didattico Opportunità per tutti stimola una riflessione su disuguaglianza e giustizia sociale collegati al tema della “cittadinanza” e prende in esame il programma di assistenza sociale brasiliano Bolsa Familia finalizzato a ridurre la povertà anche attraverso l’accesso a istruzione, servizi sanitari.
Il nazionalismo economico nell’analisi di Rosa Luxemburg
- La più celebre polemica in cui si è cimentata Rosa Luxemburg (1871-1919) fu quella contro E. Bernstein, che voleva incanalare il movimento operaio verso una strategia riformatrice, abbandonando ogni proposito di rivoluzione. Fu tra le più lucide nel sottolineare che sarebbero state le classi dominanti a tradire i principi liberal-democratici, quando le riforme ne avessero intaccato i privilegi economici. Il socialismo, che era l’unica organizzazione di peso a difendere la democrazia borghese, era cioè obbligato a non rinunciare ai propositi rivoluzionari, perché sarebbe stata la logica storica delle riforme a imporne la razionalità, pena il disfacimento sociale e la nascita di sistemi autoritari. E di disfacimento sociale in effetti si trattò quando i riformisti tedeschi appoggiarono i crediti di guerra, dai quali scaturì il Primo Conflitto Mondiale, che cambiò il volto del Mondo aprendo la stagione della violenza politica e dei totalitarismi. Per altro Luxemburg fu tra le prime a scorgere nella prassi del bolscevismo russo giunto al potere i prodromi di forme di autoritarismo. E fu vittima di una situazione politica dove le tendenze rivoluzionarie, isolate dalla parte più consistente del movimento socialista, diedero l’occasione alle forze della reazione di imporre la propria logica, perfino alla socialdemocrazia. Il fallimento della rivoluzione in Germania fu all’origine di convulsioni sociali e politiche gravide di sciagure devastanti: perché rese realistica la politica del “socialismo in un solo paese” in Russia e perché la Germania si incanalò verso il nazismo e il Secondo Conflitto Mondiale.
- Il destino delle menti più lucide è segnato, come la storia insegna: imprigionata e alla fine assassinata, Luxemburg ebbe il tempo di scrivere un’opera a tutt’oggi fondamentale, L’accumulazione del capitale, tradotta in Italia nel 1960 dalla Einaudi. E’ un classico del pensiero socialista, che si contraddistingue per tre aspetti: come critica di alcune parti della teoria economica di Marx, come svolgimento di alcune sue linee di pensiero, infine come interpretazione del nazionalismo economico. Il libro argomenta come la realizzazione del profitto soffra di un limite intrinseco, di cui Marx non si sarebbe accorto: la carenza di domanda pagante. Per questo motivo il capitale ha bisogno della continua conquista di nuovi mercati, utilizzando ogni strumento di cui lo Stato è capace. La globalizzazione dei mercati è dunque una necessità inderogabile e può avvenire in forme diverse, a seconda dei contesti storici: conquiste coloniali, politiche imperiali, creazioni di grandi “spazi economici”, conflitti tra stati capitalistici per il dominio del mondo. Il commercio estero, le politiche fiscali, il debito privato e pubblico, il protezionismo, il capitalismo bancario e finanziario, il militarismo, la guerra: sono altrettanti strumenti che il capitale utilizza per creare o conquistare i mercati che sono indispensabili alla sua sopravvivenza. Vengono considerati permanenti i meccanismi che Marx analizza nel capitolo del Capitale dedicato alla “accumulazione originaria”: espropriazione violenta delle risorse naturali (terra anzitutto) e loro mercificazione; creazione del moderno proletariato, che deve essere libero di circolare; rovina delle forme non borghesi di proprietà e di organizzazioni sociali e statuali; diffusione della proprietà privata, che è però ciclicamente sottoposta a processi di concentrazione che hanno immensi costi sociali. Il capitalismo vive grazie alla distruzione di forme di società non capitalistiche e scatena inevitabili conflitti inter-capitalistici. Luxembirg passa in rassegna la storia della politica imperiale dei paesi dominanti in Algeria, India, Egitto, Turchia, ma anche i processi di sviluppo capitalistico interni ai paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti.
- Si tratta di un’analisi che critica alla radice alcune pretese della scienza economica. L’assenza di crisi economiche, il libero scambio, il pacifismo commerciale, la crescita armoniosa di tutti i partecipanti allo scambio di mercato, lo Stato minimo, l’opposizione tra Stato e mercato, la distinzione tra politica ed economia, la differenza tra legalità e illegalità, tra forza e violenza, tra morale e immorale, il compromesso tra crescita, disuguaglianza e uscita dalla povertà: si tratta di precari stati di equilibrio destinati ad essere continuamenti superati, sono altrettante forme di utopia, nel peggiore dei casi si dimostrano dei paraventi ideologici che non permettono di cogliere le più intime e inderogabili leggi di sviluppo del capitalismo e che nascondono le reali poste in gioco della concorrenza. Lo Stato gioca un ruolo imprescindibile non solo nella nascita, ma anche nello sviluppo del capitalismo. La politica fiscale è uno strumento indispensabile alla mercificazione e dunque alla monetizzazione di ogni aspetto della vita sociale e naturale. La creazione della proprietà privata che genera il proletariato e la mercificazione delle risorse. La nascita dell’economia monetaria e del commercio e l’indebitamento privato creano le distinzioni di classe e ne generano le lotte. L’indebitamento pubblico marca la gerarchia e il conflitto tra Stati. La politica di potenza e la guerra sono fenomeni connaturati al capitalismo. La crisi non è un accidente dello sviluppo capitalistico, ma il suo stato normale, perché ristabilisce le distinzioni di classe e la gerarchia tra Stati. In effetti non esiste il capitalismo, esistono i capitalismi nazionali. Il nazionalismo è la logica dell’accumulazione capitalistica. E’ un punto di vista che, perfino per gli ottimisti, vale la pena di prendere in considerazione: per comprendere le forze reali sottese al montante nazionalismo; e come antidoto all’utopismo.
- Tra i più acuti interpreti della Luxemburg in Italia si annovera Lelio Basso, che nel 1972, con Editori Riuniti, ne ha raccolto alcuni scritti. Si tratta di uno dei padri dell’articolo terzo della Costituzione italiana. Rimuovere, con l’azione pubblica, gli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono l’effettivo godimento dei diritti fondamentali dell’uomo, non ha solo un intento etico: lo sviluppo del capitalismo va infatti imbrigliato con programmi di giustizia sociale (diritti sociali, redistribuzione della ricchezza e delle opportunità, politica industriale e sociale), per evitare lo scatenarsi di conflitti che costituiscono le condizioni oggettive dell’affermazione dei regimi autoritari e del fascismo. Solo un impasto di ingenuo idealismo e di dilettantismo, oggi, potrebbe negare che le crescenti diseguaglianze sociali sono all’origine della rinascita di vocazioni “sovraniste”. Solo l’irresponsabilità potrebbe negare che il nazionalismo odierno nasce dal fallimento del riformismo, che poco ha fatto per contrastare la polarizzazione sociale, mentre si è affidato ciecamente ad una visione esclusivamente ottimistica della globalizzazione, aderendo a gran parte delle dottrine neo-liberiste. Solo il fallimento dell’Europa politica e sociale può spiegare la rinascita della conflittualità tra Stati all’interno della stessa Europa. Solo la più completa mancanza di memoria storica può ritenere paradossale che il nazionalismo venga incontro, a modo suo, alle aspirazioni sociali che un tempo erano rappresentate dai partiti dei lavoratori.
- Le pagine della Luxemburg rimandano a quelle di Marx anche perché è vivissima la testimonianza di come il mercato e il capitalismo siano solo un modo particolare di produrre e di distribuire la ricchezza. Sono testimoni oculari della distruzione dei modi di produzione pre-capitalistici e del disastro sociale che questa distruzione ha comportato. Al tempo stesso, hanno avuto anche la forza di non rimpiangere il tempo passato, come invece aveva fatto Sismondi, un autore che pure Luxemburg valorizza nel proprio libro, perché tra i primi a mettere in luce il problema della carenza di domanda pagante e a mettere al centro del discorso politico e sociale la nuova classe creata dal capitalismo, il proletariato. Non hanno avuto rimpianti, perché hanno colto con estremo rigore anche gli aspetti positivi del mercato e del capitalismo: cioè l’immensa capacità di aumentare le forze produttive del lavoro. Per il marxismo il problema della scarsità è stato tecnicamente risolto grazie al capitalismo: il problema della scarsità (di reddito, di risorse, di opportunità, di ricchezza) diventa un problema esclusivamente sociale grazie al capitalismo; che dunque ha fatto il proprio tempo e, in un modo o nell’altro che solo il concreto divenire potrà definire, ma sicuramente opponendo una resistenza violenta e tremenda, verrà superato nel socialismo. E’ importante ricordare che un autore liberale come J.M. Keynes, che pose al centro della propria riflessione l’insufficienza di domanda pagante, addirittura nel bel mezzo della Grande Crisi degli anni trenta ebbe il coraggio di proporre il tema della scomparsa del problema della scarsità. Ed era stato sempre Keynes, a metà anni venti, a ricordare che solo nei paesi più ricchi sarebbe valsa la pena tentare esperimenti di superamento del capitalismo, perché solo in essi vi erano le condizioni oggettive per farlo. Utopia, si dirà. Abbandonati la lettera e lo spirito della Costituzione; abbandonati i propositi di economia regolata del migliore europeismo, quello del Manifesto di Ventotene; dilagati in tutta Europa i principi del liberismo: siamo oggi arrivati, probabilmente, ad un punto di svolta, perché il nazionalismo economico ha l’occasione di una grande vittoria nel cuore dell’Europa. E si riaffaccia la possibilità moralmente inaccettabile che solo per la guerra l’umanità sia in grado di mobilitare una quantità davvero immensa di forze ideali e produttive.
Approfondisci: leggi l’ebook La conferenza di pace di John Maynard Keynes
Strade giuste. Economia e società nel segno del bene comune
C’è una dimensione sociale, civile e generativa dell’economia che produce valore per l’intera collettività. Un’economia dove non conta solo realizzare l’interesse individuale, ma coniugare profitti e diritti, quantità, qualità e sostenibilità. Al centro c’è l’inclusione sociale: la capacità di garantire a tutti i cittadini l’accesso a servizi, beni e opportunità. Le “strade giuste” da intraprendere – spiegano i saggi presentati in questo volume – vanno dalla finanza d’impatto, alla qualità al lavoro, senza dimenticare le crisi ambientali che ci chiedono di ripensare i nostri modelli di sviluppo. Quello che conta è un’idea di benessere multidimensionale capace di promuovere processi di crescita all’insegna del bene comune.
La pubblicazione è disponibile presso le Librerie Feltrinelli.
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La Public History tra memoria e comunità
Su iniziativa del Parlamento europeo, il 6 maggio 2017 a Bruxelles è nata la Casa della Storia Europea, un museo che – in 4.000 mq di superficie espositiva – racconta il processo di integrazione europea, aspirando a diventare il nuovo punto di riferimento per la storia degli abitanti del vecchio continente. Trovare un modo per narrare nello stesso luogo la costruzione condivisa del progetto europeo e le diversità dei popoli che lo animano si è rivelata un’impresa molto complessa. Come raccontare il passato condiviso di memorie storiche separate?
Nel suo libro Comunità immaginate, Benedict Anderson spiega come i musei rappresentino uno degli elementi principali della macchina narrativa nazionale, ovvero i luoghi dove elaborare un racconto cronologico che fornisca il senso di appartenenza ad una comunità. Ma questo racconto unificante è spesso stato costruito a scapito dei momenti di frattura, delle minoranze, delle diversità, dei cortocircuiti storici poco funzionali alla narrativa stabilita. Per fortuna, nel corso del ventesimo secolo la disciplina storica è cambiata: gli storici hanno accolto una visione polifonica della storia, dove sono diversi pubblici e attori a creare e interpretare attivamente il flusso storico e a determinarne la memoria. Di conseguenza, è cambiato il modo in cui una società pensa al suo passato, lo ricorda nel presente e ne elabora la fruizione. Come trasformare, dunque, i musei da raccoglitori di monoculture “immaginate” a luoghi di espressione di diverse voci?
È questo uno dei compiti che è chiamato a svolgere il public historian, ovvero colui o colei che ha acquisito le competenze della Public history: una disciplina in cui l’uso dei metodi di indagine storica esce dalle aule universitarie per incontrare un’audience più vasta, e per indagare un passato la cui memoria si presenta come il risultato della relazione tra diverse narrazioni e diversi tipi di pubblico.
Una vignetta di Galantara tratta da L’Asino
Non solo, con l’avvento del digitale il mestiere dello storico è stato chiamato a confrontarsi con fonti non tradizionali e la possibilità del singolo di interagire immediatamente con esse. Come evidenziato da Serge Noiret, la presenza del digitale ha imposto nuove pratiche di comunicazione, ha consentito la nascita di tanti archivi digitali, ha abilitato nuove fonti e moltiplicato le voci che discutono di un passato ormai diventato pubblico e sempre “presente”. Il public historian diventa così una figura importante non solo per gli archivi, i musei, le fondazioni e le biblioteche che si dotano di nuovi modi di diffondere la storia, ma anche e forse soprattutto come intermediario tra le nuove fonti e la storia stessa, come interprete di un sapere storico in profondo cambiamento.
Fare storia al tempo presente è diventata una sfida: si tratta di acquisire nuove competenze per raccontare il passato, di attivare nuove fonti, di diffondere la conoscenza con nuovi strumenti, di trovare nuovi modi per coinvolgere molte audience, includendo chi muove i primi passi nella disciplina. È da questa riflessione che nascono progetti come quello de “Le grandi trasformazioni” di Fondazione G. Feltrinelli – una piattaforma digitale, destinata alle scuole superiori, dove i grandi eventi del Novecento vengono raccontati in chiave multidisciplinare – e l’iniziativa di Russian Today “Project 1917”, dove gli scritti di diversi testimoni del 1917 russo vengono raccontati tramite tweet. Ed è in parte dalla necessità di far arrivare la storia ad un pubblico sempre più ampio e di costruire una narrativa europea polifonica che è nato il progetto della Casa della Storia Europea, un museo che – nelle parole del Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani– è stato creato per incoraggiare il dibattito, senza la pretesa di presentare una “monocultura” ma, al contrario,le diverse prospettive di un terreno comune: l’Europa. Non a caso, tra gli oggetti esposti ci sono anche le cartoline elettorali Leave/Remain del referendum sulla Brexit.
Ma la Public history non è solo la storia diffusa con altri mezzi, è anche un processo di attivazione delle memorie delle comunità, dove la possibilità di raccontarsi spinge a una rinnovata consapevolezza: la condivisione di queste storie è uno strumento con cui da una parte difendere le proprie identità locali, dall’altro renderle occasioni di conoscenza globale. In tempi di nazionalismi di ritorno, la Public history apre dunque alla possibilità di allargare la rappresentazione “ufficiale” della storia con nuovi punti di vista, diventando lo strumento con cui far dialogare il presente con il passato e sfidarne gli assoluti. Il nostro augurio è che i public historians possano aiutarci a rendere tutti i musei luoghi inclusivi, in cui confrontarsi e discutere anche di temi oggi controversi quali colonialismi, migrazioni e confini.