Una storia europea chiamata rivoluzione: le idee
Idee
Capitolo 1
«L’epoca in cui la Russia diviene un paese-guida della storia mondiale […] è racchiusa nello spazio del Novecento, a partire da quei giorni del 1917 che “sconvolsero il mondo”. Il 7 novembre del 1917 la presa del potere del partito bolscevico di Lenin […] instaurò in Russia il comunismo […] che si annunciò come il futuro di tutta l’umanità. Doveva durare […] un arco di tempo […] abbastanza lungo perché […] si diffondesse […] e […] venisse considerato da milioni di uomini come la più grande speranza o la più grande minaccia per la civiltà […]»
Arrigo Levi
Una stagione innovativa
La rivoluzione irrompe sulla scena europea nel 1917. Per i protagonisti di quella stagione, realizzare uno stato che rompa con gli equilibri precedenti e che si rifaccia ai dettami del comunismo vuol dire affermare un progetto politico totalmente innovativo, fondato sulla più totale eguaglianza dei cittadini e su un senso assoluto di giustizia.
Le idee rivoluzionarie
Questo primo ciclo espositivo dà spazio alle idee guida che hanno ispirato l’azione rivoluzionaria e che si sono tradotte in altrettanti forti spinte al cambiamento: il rifiuto della guerra imperialista e la costruzione della pace come precondizione per il trionfo del proletariato; l’applicazione di forme di democrazia diretta con l’esperienza dei soviet; l’emancipazione delle masse contadine da una concezione ancora feudale del rapporto tra le classi e l’assegnazione diretta di terre; la riscrittura dei rapporti tra i generi e la liberazione delle donne.
È un potenziale di rottura esplosivo, capace di penetrare nell’immaginario collettivo dell’Europa anche al di là del suo impatto reale sulla società del tempo.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del primo pannello della mostra, allestita con tre manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
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Approfondisci
L’eBook Oltre il confine. Europa e Russia dal 1917 a oggi di Andrea Panaccione, racconta la complessità del rapporto tra Russia ed Europa Occidentale in età moderna e contemporanea.
La storia e la cultura russa sono presenti nel profondo dell’Europa così come, viceversa, l’Europa e la sua storia sono parte dell’identità russa.
Allo stesso tempo l’Europa, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, soprattutto nel Novecento, non ha mai cessato di guardare alla Russia come a un partner privilegiato ma con cui, anche, avere una profonda conflittualità.
Kit didattico: Oltre il confine: la storia della rivoluzione di ottobre (I grado)
La “via italiana al socialismo”: l’VIII Congresso nella storia del PCI
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre nella Russia di Putin
1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
Kit didattico: Oltre il confine: la storia della rivoluzione di ottobre (I grado)
Proposta percorso scuole secondarie di I grado
A cent’anni dall’inizio della Rivoluzione Russa si analizzano le trasformazioni e l’impatto, anche a livello globale, che ha comportato un avvenimento storico di questa portata.
Il kit didattico affronta questo tema proponendo alcuni spunti di attivazione del lavoro in classe, sia sui concetti riferiti al vocabolario politico del ‘900, attualizzabili nel tempo presente, sia su una metodologia basata sulla lettura e sulla verbalizzazione di un sintetico atlante di mappe geo-storiche che ripercorre gli snodi cronologici dal 1917 al 1922.
La “via italiana al socialismo”: l’VIII Congresso nella storia del PCI
Di seguito, il quarto articolo del percorso Chi decide della politica?
In considerazione dell’importanza dei momenti congressuali nei partiti di massa, che nel Novecento hanno rappresentato delle occasioni di confronto e di cambiamento rispetto alle politiche e programmi dei singoli partiti, un snodo rilevante è rappresentato dall’VIII Congresso nazionale del PCI, svoltosi a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956.
Non si tratta di una scelta casuale: nella vicenda storica della sinistra italiana novecentesca il 1956, anno “terribile” o “indimenticabile” a seconda della prospettiva di rilettura[1], raffigura un effettivo momento di cesura. Il XX Congresso del PCUS con la denuncia di Kruscev dei crimini di Stalin, l’insurrezione degli operai di Poznan e, soprattutto, la repressione dei moti ungheresi da parte dell’Armata Rossa sancirono la fine dell’unità d’azione tra PSI e PCI, che i due partiti avevano sottoscritto nel 1934, impegnati nella lotta antifascista, e riconfermato nel 1946, quando la Guerra fredda stava per fare la sua comparsa anche negli scenari politici italiani.
Se per il PSI il 1956 coincise con l’inizio di una fase politica segnata dalla ricerca dell’autonomia dal movimento comunista[2], per il PCI i fatti di quell’anno lasciarono sul campo soprattutto due dilemmi: come reagire al dissenso, esploso soprattutto nel ceto intellettuale vicino al partito, generato dalla posizione filo-sovietica mantenuta dal ceto dirigente nazionale, Togliatti in primis? Come assorbire le critiche provenienti dalla CGIL, guidata dal comunista Giuseppe Di Vittorio, sempre a causa della fedeltà a Mosca specialmente dopo gli avvenimenti ungheresi?[3]
Dopo il consueto lavoro precongressuale preparatorio – ossia congressi di sezione, congressi cittadini e, come ultimo step, congressi regionali dove venivano votati i delegati nazionali – l’VIII Congresso aprì i suoi lavori in un quadro segnato, sul piano interno, dalle difficoltà democristiane nel voltare pagina dopo la stagione centrista e, su quello internazionale, dalla comparsa dei primi segnali distensivi tra i due blocchi. Per il PCI, rappresentò un momento doppiamente significativo: da un lato, per rispondere alle critiche provenienti dal suo stesso schieramento; dall’altro, anche in considerazione della distensione che si sviluppò tra i due blocchi nella seconda metà degli anni Cinquanta, per progettare una linea politica coerente, così da presentarsi comunque compatto nelle elezioni per la III legislatura (previste, da calendario, nel 1958).
In linea generale, dall’VIII Congresso uscì confermata la condanna della rivolta ungherese: nella mozione politica conclusiva «l’intervento sovietico» venne definito «una dolorosa necessità», «che non si poteva né doveva evitare senza venir meno ai principi dell’internazionalismo proletario»; al tempo stesso l’URSS vedeva riaffermato il suo ruolo di paese capofila, e dunque di irrinunciabile riferimento sovranazionale, perché era l’unico in cui si era «compiuta la rivoluzione socialista»[4].
Malgrado questa professione di fede a favore dell’URSS e la conferma del principio leninista del centralismo democratico, l’VIII Congresso produsse un aggiornamento quanto mai rilevante nell’agenda comunista. Cercando di cogliere la portata dei fatti di quell’anno sul movimento comunista internazionale, il PCI mise da parte il concetto, fin allora estremamente rigido, di Stato e di partito “guida”. Nella lunga relazione d’apertura, Togliatti gettò, infatti, le fondamenta della via italiana alla realizzazione di una società socialista: «l’avanzata verso il socialismo» doveva essere realizzata «dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche, politiche, nazionali e culturali di ciascun paese». In luogo di un blocco monolitico di Stati socialisti, doveva avvenire «il riconoscimento di principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo»[5].
Uscito come messaggio centrale dalle giornate congressuali, quanto affermato dal segretario nazionale venne ulteriormente approfondito anche da un importante saggio di Velio Spano, all’epoca Senatore del PCI e responsabile dei rapporti internazionali del partito. Pubblicato su “Rinascita” del gennaio 1957, il saggio di Spano chiariva il modo di attuazione della “via italiana al socialismo”: in luogo della «presa del potere per via insurrezionale», si sarebbe dovuta sviluppare «svilupparsi in forme democratiche non violente e anche […] valendosi della via parlamentare»[6].
Rinascita gennaio 1957
In quale maniera si sarebbero potute tradurre nella proposta politica interna le linee guida tracciate da Togliatti e ribadite da Spano? Sono le tesi finali approvate sempre nel corso dell’VIII Congresso a spiegarlo con chiarezza. Nell’ottica di legare in misura maggiore il PCI alle questioni domestiche che riguardavano ampi strati della popolazione italiana, la “via italiana al socialismo” sarebbe dovuta passare dal varo di quelle «riforme strutturali previste dalla Costituzione». Queste non raffiguravano la realizzazione della società socialista, bensì l’estensione e il consolidamento della democrazia come pre-condizione ad essa: le riforme strutturali del sistema economico e sociale, previste dalla Costituzione, che fino a quel momento era stato «incapace di assicurare un lavoro a tutti i cittadini», infatti, avrebbero garantito l’accesso ai diritti, la realizzazione delle rivendicazioni economiche e il godimento delle libertà costituzionali; in questo modo si sarebbero indeboliti seriamente i rapporti di produzione capitalistici, cioè attraverso «lo smantellamento delle più arretrate strutture» dell’economia italiana e «la riduzione e l’eliminazione delle più soffocanti e parassitarie strutture monopolistiche»[7].
Non fu certamente facile per il PCI riassestarsi dopo i fatti del 1956. Muovendo i propri ragionamenti dal mutato quadro internazionale, un modus operandi che i partiti attuali, pur nel pieno della globalizzazione, paiono aver messo da parte, il Partito comunista poté così ripresentarsi sulla scena politica italiana sulla base di una nuova linea d’azione: pur non rinnegando il legame organico l’URSS e con il blocco socialista, la “via italiana al socialismo” raffigurò l’apice di un’ampia riflessione che ebbe nell’VIII Congresso un momento certamente decisivo.
[1] Cfr. M. L. Righi (a cura di), Quel terribile 1956: i verbali della direzione comunista tra il 20. congresso del Pcus e l’8. congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma, 1996; G. Tamburrano (a cura di), Quell’indimenticabile 1956: cinquant’anni fa la sinistra in Italia, Piero Lacaita, Manduria, 2006.
[2] Cfr. G. Scroccu, Il partito al bivio. Il PSI dall’opposizione al governo, Carocci, Roma, 2013, pp. 90-139.
[3] Cfr. A. Vittoria, Storia del PCI 1921-1991, Carocci, Roma, 2006, pp. 83-86.
[4] Cfr. “Mozione politica”, in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. III, 1959-1964, Edizioni del Calendario, Venezia, 1985, p. 118.
[5] P. Togliatti, “Per una via italiana al socialismo. Per un governo democratico delle classi lavoratrici”, ivi, p. 35.
[6] V. Spano, “Origini e lineamenti della nostra politica”, Rinascita, a. XIV, n. 1-2, gennaio-febbraio 1957, p. 50.
[7] “Tesi. Per una via italiana al socialismo. Per un governo democratico delle classi lavoratrici”,in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. III, 1959-1964, Edizioni del Calendario, Venezia, 1985, p. 160.
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre nella Russia di Putin
La Russia è un paese con un passato imprevedibile
Yuri Nikolaevich Afanasiev
Il centenario della Rivoluzione Russa, che ricorre questo Novembre, è una data che pone un dilemma sulla sua celebrazione: come dialogare con uno degli eventi più importanti della storia del ‘900 senza incorrere in vuote esaltazioni o denigrazioni facili? L’esperienza del 1917 ha influenzato significativamente la storia del XX secolo, ma valutarne criticamente l’impatto nella costruzione e nella memoria della storia europea è un’operazione difficile, inevitabilmente condizionata dalla fine della guerra fredda e dal crollo dell’URSS. Oltre il confine, questo dilemma è particolarmente sentito nella Russia di Vladimir Putin, dove la necessità di preservare l’unità nazionale prevale sulla possibilità di celebrare uno dei momenti più importanti della storia del paese.
Manifesto di propaganda russa.
Nepomniashij, “Fertilizzanti in primavera per un buon raccolto d’estate”, 1977.
A differenza della rivoluzione del 1789 per la Francia, il nuovo stato nato dalle ceneri dell’URSS non si è riconosciuto apertamente con il portato storico del 1917, mantenendo nel ricordo una certa ambivalenza di fondo. Se il centenario è occasione di dibattito in Europa, per la società russa la questione è molto più spinosa e rischia di porre dei seri problemi di legittimità al potere di Putin. In che modo parlare della Rivoluzione d’Ottobre nella narrativa nazionale russa evitando facili divisioni? Astenersi dal segnare in qualche modo un evento così importante sembrava pressoché impossibile, un evento che ha portato al potere un gruppo politico, quello comunista, di cui lo stesso Putin ha fatto parte. Eppure, il 25 Ottobre scorso il Presidente russo ha domandato ai giornalisti “e cosa ci sarebbe esattamente da celebrare?”. Come a voler negare che ci sia anche un’eredità culturale della rivoluzione d’Ottobre, una componente innegabile del profilo del paese, le cui celebri figure storiche, letterarie ed artistiche sono inevitabilmente legate al suo passato sovietico.
Quale Rivoluzione?
La prima difficoltà posta dal centenario risiede nell’atto stesso di celebrare una rivoluzione in quanto tale. Negli ultimi 20 anni lo spazio post-sovietico ha visto l’avvicendarsi delle cosiddette rivoluzioni colorate, movimenti che hanno determinato un distacco dall’ex madrepatria per un avvicinamento ai valori e sistemi politici occidentali. Il caso ucraino è particolarmente emblematico, un paese che ha visto la sua rivoluzione colorata nel 2004 e un’altra sollevazione nel 2014, portando i russi ad intervenire militarmente e a contribuire alla spaccatura definitiva della società e del suo territorio. Celebrare una rivoluzione vorrebbe dire, dunque, veicolare il messaggio politico che “ribellarsi è giusto”, ancor più che la possibilità di una rivoluzione colorata in Russia è argomento di discussione anche da parte di esponenti del governo (che ovviamente smentiscono).
In secondo luogo, la Russia nel 1917 ha affrontato non una ma due rivoluzioni, a Febbraio ed Ottobre, i cui propositi erano molto diversi. La prima di Febbraio fu quella che rovesciò il potere zarista e portò al potere il governo provvisorio – composto in maggioranza da moderati e favorevole alla continuazione delle belligeranze – contrapposto al Soviet (consiglio) di Pietrogrado, che chiedeva invece a gran voce l’uscita dal primo conflitto mondiale. La rivoluzione d’Ottobre fu il momento in cui presero il potere i bolscevichi, i Rossi, gettando il paese in una guerra civile animata dai Bianchi, i controrivoluzionari. Per il governo attuale, paradossalmente, risulta molto più semplice ricollegarsi alla tradizione della rivoluzione di Febbraio – più fedele alle istanze democratiche che hanno portato alla fine del regime sovietico – piuttosto che a quella d’Ottobre – un evento divisorio che ha portato ad anni di profondo disordine e instabilità.
Festival della luce a San Pietroburgo a tema 1917:
Un popolo con una grande storia e un futuro comune
“L’uomo russo ha bisogno di qualcosa in cui credere. Qualcosa di elevato, di sublime. Comunismo e impero sono radicati nel profondo del nostro cervello. Capiamo meglio ciò che è eroico. Il socialismo obbligava l’uomo a vivere nella storia… ad assistere a eventi grandiosi. E come se siamo spirituali, specialissimi! Non si è vista nessuna democrazia. Noi, lei, io, saremmo dei democratici? La perestrojka è stata l’ultimo grande avvenimento della nostra vita.”
Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano, 2013
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la popolazione russa si è dovuta confrontare con la fine di un’epoca caratterizzata da una ideologia, un’identità e una lettura della storia molto precise. Allo scollamento identitario causato dal collasso dell’URSS, è seguita la progressiva presa di coscienza di molti lati oscuri del suo passato, con cui quasi nessuna elite politica è ancora venuta a patti dopo più di 25 anni. Il risultato è una mancanza di consenso generale sul passato sovietico, tra fautori del crollo dell’URSS, comunisti nostalgici e giovani disincantati sul futuro del paese. Dal suo insediamento, Putin ha tentato di ricostruire una grande narrativa storica nazionale che limasse gli aspetti di rottura causati dal periodo sovietico e favorisse una lettura riconciliante – se non addirittura esaltante – di alcuni momenti della storia russa. Una delle operazioni più riuscite è stata sicuramente quella sulla Seconda Guerra Mondiale, per i russi la Grande Guerra Patriottica. Il governo di Putin, e quello di Medvedev poi, hanno reso il 9 Maggio – giorno della celebrazione – una festa popolare in cui ad essere celebrata è più la vittoria della memoria, un momento di riconciliazione con il trauma della guerra, di creazione di una comunità sociale, un modo di narrare la storia della Russia e le sfide che è stata chiamata a superare. Il passato diventa così uno degli strumenti principali per ricostruire l’identità nazionale, spesso eliminando problemi come colpa e responsabilità, e trattando argomenti scomodi come dei miti minori, piccole deviazioni di percorso in una storia epica e gloriosa (Elizabeth A. Wood, 2011).
I casi di uso politico della storia sono dunque piuttosto comuni. In tempi recenti, gli avventori della capitale russa non avranno potuto far a meno di notare la statua di 17 metri di Vladimir il Grande, inaugurata a Novembre 2016 e fortemente voluta da un altro Vladimir, Putin. La costruzione è stata fortemente osteggiata dagli abitanti, spaventati dalla mole del monumento, ma a scatenare scompiglio è stata soprattutto la problematicità della figura storica di Vladimir. Vladimir il Grande, detto Vladimir di Kiev, è infatti considerato come uno dei padri fondatori sia in Ucraina che in Russia, nonché colui che ha portato il cristianesimo nel mondo slavo. Erigere una statua simile non sembra un omaggio alla storia, ma risulta come un atto molto forte alla base del quale c’è una rivendicazione territoriale e culturale, nonché un grande segno di riconoscimento per la Chiesa Ortodossa.
Un altro esempio emblematico è il decreto del 2005 con cui il giorno di festa nazionale del 7 Novembre – giorno della Rivoluzione d’Ottobre – è stato abolito per preferirgli la data del 4 dello stesso mese. La ricorrenza storica alla base di questa scelta sembra essere sconosciuta a gran parte della popolazione russa, ma trattasi del giorno della liberazione della città di Mosca dagli occupanti polacchi nel 1612. Lo spostamento di data era stato caldeggiato da un appello al Parlamento dell’Unione interreligiosa russa: la resistenza del popolo moscovita era un momento meno problematico da ricordare rispetto agli eventi del ’17. Questo è il primo segnale della difficoltà di inquadrare la Rivoluzione d’Ottobre in una narrativa unificante.
Il momento al Principe Vladimir inaugurato a Mosca nel 2016
Bianchi vs Rossi
Vladimir Medinskii, Ministro della Cultura dal 2012, è colui che ha in parte aiutato Putin a sciogliere questo nodo fondamentale. La sua narrativa sul 1917 si basa sul principio della riconciliazione. Nel 2013, ha dichiarato che era indifferente scegliere chi avesse ragione, se i bianchi o i rossi. In alcuni discorsi pubblici successivi, ha proposto una versione semplificata della storia e, a suo modo, chiarificatrice, dove la guerra civile nasce dal conflitto tra due parti entrambe in lotta per il bene della Russia; ed il passaggio dal regime zarista allo stato sovietico è stato un momento storico particolarmente turbolento che ha fatto durare la guerra più del dovuto. Depotenziando totalmente il peso politico e rivoluzionario dei bolscevichi, Medinskij li presenta come coloro in grado di riprendere le redini dello stato Russo e ricostruirlo. I Bianchi sono invece ricondotti alle istanze della rivoluzione di Febbraio e a quelle post 1991, che hanno portato alla fine del regime zarista e dello stato russo nella versione sovietica. Ma quindi, chi ha vinto alla fine? Chi aveva ragione? Ovviamente c’è un terzo vincitore, e si tratta della Grande Russia, l’unica a rimanere invariata nella storia da ben prima dei Romanov fino ai nostri giorni.
Questa lettura semplicistica sicuramente assolve il suo compito di presentare la storia come un lungo cammino di potenza, evidentemente destinato a durare sotto il governo di Putin. Questa versione, però, è priva di riflessione critica, non rende giustizia alla storia di chi ha lottato per idee di futuro contrastanti, elimina completamente il ruolo delle minoranze di quello stato multi-etnico che era l’impero, prima, e l’URSS, dopo. La cosa veramente interessante però è un’altra: in questa lettura i bolscevichi sono la pars construens, mentre il ruolo destruens è affidato ai bianchi, che hanno prima interrotto il potere degli zar e dopo contribuito alla fine dell’URSS. Questo significa riconoscere apertamente lo stato attuale come una continuazione del regime precedente. Ed è proprio questo che non ha convinto del tutto Putin.
Il consenso prima di tutto
La politica di Putin riguardo il centenario è emersa più o meno chiaramente nel suo discorso annuale al Parlamento del Dicembre 2016:
“Il prossimo anno, il 2017, ricorrerà il centesimo anniversario delle rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre. Questo è un buon momento per guardare alle cause e alla natura di queste rivoluzioni in Russia. Non dovrebbero farlo solo gli storici e gli studiosi; la società russa ha bisogno di un’analisi obiettiva, onesta e profonda di questi eventi. Questa è la nostra storia comune e dobbiamo trattarla con rispetto. Si tratta di qualcosa di cui ha parlato il grande filosofo russo e sovietico Alexei Losev: “Sappiamo la strada spinosa che il nostro paese ha attraversato”, scrisse. “Conosciamo i lunghi e stancanti anni di lotta, desiderio e sofferenza, e per i figli della nostra madrepatria questo è il loro patrimonio natio e inalienabile”. Sono sicuro che la maggioranza del nostro popolo ha la stessa attitudine verso la loro madrepatria, e abbiamo bisogno di lezioni di storia in primis per la riconciliazione e il rafforzamento della concordia civile, sociale e politica che abbiamo raggiunto. È inaccettabile far prendere la nostra vita di oggi dal rancore, rabbia e amarezza del passato, nel perseguire i propri interessi politici e altri interessi per speculare su delle tragedie che coinvolgono praticamente ogni famiglia russa, non importa in quale parte della barricata fossero i nostri antenati. Ricordiamoci che siamo un unico popolo unito e che abbiamo una sola Russia.”[1]
Ecco, dunque, esplicitata la difficoltà nel celebrare un evento così importante, il cui ricordo suscita ancora sentimenti contrastanti e per cui è impossibile esaltarne gli elementi positivi a favore di una narrazione unilaterale, come nel caso della seconda guerra mondiale. L’uso della storia in termini propagandistici che emerge dai casi citati, qui presenta dei problemi di consenso molto forti, e il consenso è una delle risorse principali del potere di Putin. A differenza della posizione di Medinskij, non c’è una parte a prevalere sull’altra, c’è solo un lungo cammino di sofferenza in cui a trionfare è l’unità civile e politica della Grande Russia.
1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre è l’occasione per una riflessione sulla sua storia, le idee, i modelli, i linguaggi e gli immaginari che hanno condizionato le nostre odierne categorie di progresso, lavoro e felicità sociale. Il contesto storico che ha reso possibile la rivoluzione, la creazione di miti fondativi e la costruzione dell’utopia politica, il lavoro e i nuovi modelli di progresso, la propaganda e la costruzione del cittadino 1.0, sono parte di un bagaglio culturale e politico che, a distanza di oltre 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, possono essere guardati da altre prospettive per comprendere ciò che di originale e potente ha portato il ’17 nel nostro vissuto di cittadini europei. Lo scopo non è farne un bilancio distaccato, ma indagarne i codici culturali e simbolici alla luce degli scambi, delle influenze e delle divisioni tra il mondo sovietico e il resto d’Europa.
In uscita, con l’inaugurazione della mostra 1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione, il catalogo, a cura della Fondazione. Il catalogo sarà in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano con i contributi di Massimiliano Tarantino, Gian Piero Piretto, Marcello Flores, Silvio Pons, Boris F. Martynov, Federico Rossin, Vittore Armanni, Chiara Missikoff.
Il catalogo è in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano