Raggiungere e superare
Economia – Capitolo 5
«Eccomi dunque in questa regione grande come un terzo degli Stati Uniti! Urali-Kazakhstan-Siberia, combinat dei combinat, seconda grande base metallurgica dell’URSS che si estende su quasi 3 milioni di chilometri quadrati. La ricchezza del combinat ha del fantasmagorico. Un miliardo di tonnellate di ferro dorme sotto gli Urali (parliamo delle riserve conosciute).»
Paul Vaillant-Couturier
Un’industrializzazione serrata
Gli ambiziosi obiettivi fissati dal piano quinquennale impongono una modernizzazione dei modelli industriali e degli strumenti agricoli. Il modello che viene preso come riferimento è quello americano delle fabbriche della Ford e della River Rouge, dove gli operai lavorano seguendo una linea continua di produzione, senza che ci sia bisogno di qualifiche particolari. Ma per spingere la produzione industriale servono materie prime ed è necessario sfruttare ogni risorsa a disposizione: giovani operai vengono mobilitati per abitare zone impervie del paese, dove sorgono veri e propri cantieri d’assalto e nuove città votate all’estrazione dei metalli. Reti di trasporto, scuole, mense e complessi residenziali vengono costruiti intorno al nuovo centro propulsore della città: la fabbrica.Il processo di industrializzazione è accompagnato dalla costruzione di grandi opere, come dighe e ferrovie, molto spesso costruite dagli internati dei campi di lavoro, o gulag, nuovi sistemi di lavoro forzato che vengono stabiliti in diverse zone del paese.
Gli esiti in tempo di guerra
I frutti di questo sforzo produttivo si raccolgono durante la Seconda guerra mondiale. In pochi anni l’URSS riesce a formare un esercito tra i più avanzati al mondo, e le industrie pesanti si attestano su regimi produttivi molto redditizi. I poli industriali alternativi costruiti negli Urali si rivelano particolarmente strategici durante il conflitto. Quando la Germania nazista avanza sul territorio occidentale, la produzione dei mezzi pesanti viene dirottata nelle fabbriche meno raggiungibili, che durante il periodo bellico riescono a produrre oltre 2.000 carri armati al mese.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del quinto pannello della mostra, allestita con tre manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, e le copertine di cinque pubblicazioni: Urss 1931, Vita quotidiana – piano quinquennale di Ettore Lo Gatto, Les géans industriels n.3 di Paul Vaillant Couturier, L’urbanisme Soviétique di Lazar’ Moiseevič Kaganovič, Moscow of tomorrow di Aleksandr Feoktistovich Rodin e A la recherche des mines d’or de Sibérie di John Dickinson Littlepage.
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Approfondisci
Organizzare il lavoro
di Mario Perugini, Università Luigi Bocconi
Nella letteratura politica e sociale di sinistra del Ventesimo secolo il taylorismo è stato comunemente rappresentato come uno strumento di sfruttamento “scientifico” del lavoro operaio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di autonomia è vista come una condizione necessaria per ottenere un rendimento produttivo più intenso e uniforme. Questa lettura del taylorismo tuttavia non tiene conto della fase storica dell’economia industriale americana di cui Taylor stesso si trovò ad essere testimone, segnata da un profondo contrasto fra un livello di progresso tecnico che consentiva ormai una produzione di massa e l’arretratezza dell’organizzazione produttiva delle fabbriche, rimasta ancorata a criteri rozzi e obsoleti con un miscuglio di approssimazione, empiria e arbitrio. Taylor era un conoscitore profondo del mondo dell’officina, che aveva osservato, scomposto e analizzato in ogni sua piega, fin dai dai tempi del tirocinio giovanile fino all’attività direttiva esercitata presso la Midvale Steel Company e la Bethlehem Steel Company. Negli anni dedicati allo studio del funzionamento degli impianti industriali, aveva riscontrato un’estrema varietà dei metodi di lavoro e un’assoluta eterogeneità dei procedimenti organizzativi.
Con i suoi studi sullo scientific management, Taylor intendeva quindi offrire una risposta ai problemi di crescita che in quel momento le imprese industriali americane si trovavano di fronte e che potevano essere compendiate nella resistenza sindacale al cambiamento e, soprattutto, nella necessità di imprimere una disciplina produttiva alla massa eterogenea dei lavoratori immigrati. Per quanto riguarda il primo punto, la risposta di Taylor era da cercare nell’aumento di produttività generato dal suo sistema, che sarebbe stato così imponente da estirpare per sempre ogni contrasto tra gli interessi dell’azienda e quelli dei lavoratori.
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tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Il XIII Congresso del PCI: alle origini del Compromesso storico
Gli artisti innovativi e la Rivoluzione d’Ottobre
Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
A cent’anni dall’inizio della Rivoluzione Russa si analizzano le trasformazioni e l’impatto, anche a livello globale, che ha comportato un avvenimento storico di questa portata.
Viene ripercorsa la vicenda da un punto di vista storico attraverso le tappe di sviluppo più importanti dal 1917 a oggi. Il kit didattico approfondisce i temi che portano alla conoscenza di una “grande trasformazione” politica, sociale, culturale e economica quale fu quella portata dalla rivoluzione bolscevica che ebbe ripercussioni profonde non solo nella storia russa e europea del XX secolo, ma in quella di tutto il mondo. Il mito che essa generò fuori dalla Russia alimentò infatti aspettative e speranze di riscatto che furono alla base di molti movimenti di liberazione nazionali nel lungo e complesso processo di decolonizzazione.
Viene illustrato il ruolo che le donne svolsero nella rivoluzione e gli apporti che alcune di loro diedero non solo alla formulazione politica della questione femminile, alla lotta per l’uguaglianza e la parità dei diritti della donna, ma anche alla realizzazione di una legislazione sociale all’avanguardia per la tutela delle donne nella Russia degli anni tra il 1917 e il 1920.
Joseph Roth, invece, rappresenta uno dei primi testimoni occidentali che raccontano come veniva percepiti gli eventi di quel periodo; infine un attento lavoro di ricerca porta alla luce il tema della costruzione della memoria nella Russia di oggi in cui, a cento anni di distanza, la Rivoluzione d’ottobre rimane un’eredità difficile da gestire, raccontare e celebrare.
Il XIII Congresso del PCI: alle origini del Compromesso storico
Di seguito, il quinto articolo del percorso Chi decide della politica?
In Italia, in epoca di primarie che spesso eleggono il candidato “più forte” (per esempio, Walter Veltroni nel 2007 o Matteo Renzi nel 2013), si è soliti considerare i congressi come un momento di discussione sugli aspiranti segretari piuttosto che sulle linee politiche di cui sono espressione. Ciò è senz’altro dovuto al processo di personalizzazione della politica nostrana, ma anche alle difficoltà nel percepire le effettive differenze di vedute e dunque di proposta politica tra un candidato e l’altro.
Nella lunga storia del Partito comunista italiano, cui il PD, benché tra molteplici distinguo, viene solitamente ricollegato,[1] il Congresso rappresentava un momento di discussione incentrato anche sulla prospettiva politico-programmatica. Fu così, ad esempio, nel V Congresso (29 dicembre 1945 – 6 gennaio 1946), quando il PCI impostò le linee da seguire nella duplice campagna elettorale per il referendum istituzionale e per l’Assemblea costituente, oppure nell’VIII Congresso (8 – 14 dicembre 1956), quando dovette ricompattarsi a seguito dei fatti dell’“anno terribile”. Altrettanto importante, nell’ottica di valutare i momenti congressuali quali spazi di effettiva discussione politico-programmatica, è il XIII Congresso nazionale (13-17 marzo 1972).
La quotidianità nell’Italia degli anni Settanta iniziava ad essere scossa da quelle turbolenze, dalla fine degli accordi di Bretton Woods alla crisi petrolifera scatenata dalla guerra del Kippur, illustrate con ampiezza da Eric Hobsbawm ne “La frana”, la terza parte del suo libro probabilmente più celebre, Il Secolo breve.[2] Nondimeno, lo scenario italiano era ulteriormente turbato da situazioni endemiche al Paese: l’avvio della strategia della tensione con il tragico episodio di Piazza Fontana del dicembre 1969; i tentativi eversivi (ad esempio il tentato golpe di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970; la violenza dell’estrema destra, protagonista delle rivolte di Reggio Calabria nell’estate 1970 contro la mancata investitura a capoluogo; l’instabilità politica dovuta al progressivo sfarinamento delle maggioranze di centro-sinistra.[3]
Per il PCI, di fronte alle profonde complicazioni, economiche, sociali e politiche, che stavano via via esplodendo nel Paese, si trattava di immaginare una nuova strategia che gli permettesse di tornare al centro dello scenario politico nazionale. In linea con le dinamiche della Guerra fredda e con lo stretto legame che univa il comunismo italiano a quello sovietico, una mutazione di prospettiva significativa doveva giocoforza realizzarsi in coerenza con gli spazi apertisi nello scenario globale: dopo il trauma di Praga del 1968, tra il 1970 ed il 1972, il PCI avviò dei contatti diretti con i principali partiti comunisti dell’Europa occidentale, soprattutto quello francese e quello spagnolo, nell’ottica di individuare un nuovo modus operandi al di qua della cortina di ferro.[4] Come spiegò Enrico Berlinguer, che nel XIII Congresso sarebbe stato acclamato segretario, non si trattava di ripudiare la Rivoluzione d’Ottobre, visto che aveva permesso a milioni di uomini di venire tratti fuori “dal fondo dell’arretratezza e della depressione”. Tuttavia, alla luce delle particolari condizioni italiane, il socialismo che il PCI si proponeva di realizzare sarebbe stato cosa diversa rispetto alle esperienze esistenti, esperienza sovietica inclusa: anziché ricalcare un modello, sarebbe stato “quello che la classe operaia e il popolo nostro vorranno che sia”,[5] fermo e considerando l’inscindibile “rapporto tra democrazia e socialismo” (In allegato: Per rinnovare l’Italia, per la pace, per la liberazione di tutti i popoli oppressi dall’imperialismo: la relazione di Enrico Berlinguer per la preparazione del 13. Congresso nazionale del PCI, Partito Comunista Italiano, Roma, 1972, p. 14).
In politica interna, la nuova predisposizione del PCI si sarebbe dovuta tradurre con l’adozione di un nuovo piano. Alla luce “delle questioni storiche” che travagliavano “l’Italia” nei primi anni Settanta, secondo Berlinguer, l’unica via percorribile, una via nuova rispetto al fronte delle sinistre e al centro-sinistra, poteva essere “realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, cattolica, socialista”. D’altro canto, ribadiva il segretario comunista, “la natura della società italiana e dello Stato italiano, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali […], la profondità delle radici del fascismo e quindi la grandiosità stessa dei problemi da risolvere” imponevano “una simile collaborazione”.[6]
Certo, il compromesso storico sarebbe stato formulato sulle pagine di “Rinascita” tra il settembre e l’ottobre del 1973, cioè in seguito al colpo di Stato in Cile che concludeva l’esperienza del governo di Salvador Allende e di Unidad Popular. Le citazioni tratte dal discorso illustrato da Berlinguer nel corso del XIII Congresso lasciano però intendere come il PCI avesse di fatto già gettato le fondamenta per una nuova collaborazione a livello nazionale con socialisti e democristiani. In vista delle elezioni politiche del 7-8 maggio 1972, dunque, il PCI proponeva, come scriveva Alessandro Natta su «Rinascita» del 17 marzo tornando sui contenuti della relazione congressuale di Berlinguer, di lanciare la “prospettiva politica di una nuova maggioranza”: non si trattava “di un qualche schema di blocco di fronte delle sinistre”, bensì di un vasto processo politico e programmatico “il cui sviluppo” esigeva “nell’immediato una sconfitta elettorale e politica della DC, un colpo a sinistra” che liberasse “le forze popolari cattoliche”, così da sollecitarle “al rapporto con i comunisti e i socialisti” (In allegato: A. Natta, “La nostra alternativa”, Rinascita, a. XXIX, n. 11, 17 marzo 1972, p. 2).
Chiaramente, sui mutamenti d’indirizzo politico pesavano i fattori contingenti, come nel caso del compromesso storico quanto avvenuto in Cile nel settembre del ’73. Ma le basi di quella formula politica, che avrebbe segnato l’agenda del PCI nel corso degli anni Settanta giungendo di fatto fino ai nostri giorni, visto che il PCI è stato volenti o nolenti ritenuto una filiazione indiretta del compromesso storico,[7] vennero gettate nel XIII Congresso.
In linea con gli articoli sui congressi comunisti del 1946 e del 1956, anche questo excursus su uno specifico congresso del PCI ci consente di cogliere quello che era lo spirito dei momenti congressuali e che, al giorno d’oggi, sembra essersi disperso: non soltanto luogo di approvazione di una strategia politica concepita in precedenza in altra sede, ma momento di riflessione e discussione finalizzato alla prefigurazione di una nuova prospettiva, che avrebbe a sua volta contribuito a riposizionare il partito sia in politica interna che sul piano internazionale.
Per approfondire, scarica la fonti tratte dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, dalle rivista Rinascita (1972)
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[1] Cfr. P. Ignazi, I partiti in Italia dal 1945 al 2018, Il Mulino, Bologna, 2018.
[2] Cfr. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991, BUR, Milano, 1997, pp. 471-504.
[3] Cfr. L. Baldissara (a cura di), Alle origini della crisi: l’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Carocci, Roma, 2001.
[4] Cfr., tra i vari documenti, tutti pubblicati in Documenti politici del PCI dal XII al XIII Congresso, Partito Comunista Italiano, Roma, 1972: “Comunicato congiunto sui colloqui di Roma tra delegazioni del PCI e PC spagnolo”, pp. 129-132; “Iniziativa del PCI e del PCF per l’unità anti-imperialista”, p. 175; “Comunicato sugli incontri di Roma fra le delegazioni del PCI e del PCF”, pp. 201-202; “Piena solidarietà del PCI al compagno Santiago Carrillo”, p. 368; “Comunicato comune sui colloqui di Parigi fra delegazioni del PCI e del PCF”, pp. 398-401.
[5] E. Berlinguer, “Unità operaia e popolare per un governo di svolta democratica per rinnovare l’Italia sulla via del socialismo”, in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista Italiano, vol. IV, 1964-1975, Edizioni del Calendario, Venezia, 1985, p. 275.
[6] Ivi, p. 305.
[7] Cfr. S. Menichini, “Sia benedetto il Partito Democratico”, Italianieuropei, 2/2007.
Gli artisti innovativi e la Rivoluzione d’Ottobre
Descrizione
Il testo di Todorov che viene pubblicato in questo eBook ha costituito l’intervento inaugurale del terzo ‘900Fest, il festival di storia che si tiene a Forlì e che è dedicato alle “dittature, totalitarismo, democrazie”.
Nel momento in cui la public history inizia anche in Italia a presentarsi con una riflessione e con un impegno organizzativo nuovi, in cui i master sulla divulgazione storica, sulla comunicazione di storia e sulla public history si moltiplicano e cercano di rispondere a una richiesta di formazione nuova, insieme teorica e professionalizzante, il lascito culturale e intellettuale di Todorov si manifesta come uno dei più preziosi e utili per affrontare il nesso non sempre facile del passato e del presente, della memoria e della storia.
Conosci gli autori
Tzvetan Todorov, nato a Sofia, in Bulgaria, nel 1939, è vissuto in Francia dall’inizio degli anni Sessanta. Direttore di ricerca onorario al Centro Nazionale di Ricerca Scientifica di Parigi, ha ricevuto numerosi premi in Italia e all’estero, tra i quali, nel 2008, il premio Principe delle Asturie per le Scienze sociali. Con Garzanti ha pubblicato La letteratura fantastica (1970), Teorie del simbolo (1984), Di fronte all’estremo (1992), Una tragedia vissuta (1995), Memoria del male, tentazione del bene (2001), Il nuovo disordine mondiale (2003), Lo spirito dell’illuminismo (2007), La letteratura in pericolo (2008), La paura dei barbari (2009), La bellezza salverà il mondo (2010), Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro (2011), I nemici intimi della democrazia (2012), Goya (2013), La pittura dei lumi (2014), Resistenti (2016), Il caso Rembrandt (2017). Muore a Parigi nel 2017 dopo una lunga malattia.
Marcello Flores (Padova, 1945) ha insegnato Storia contemporanea e Storia comparata nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master in Human Rights and Genocide studies, e nell’Università di Trieste. Tra i suoi libri: Il secolo del tradimento. Da Mata Hari a Snowden 1914-2014, (il Mulino, 2017), Il genocidio degli armeni (il Mulino, nuova ed. 2015), Traditori. Una storia politica e culturale (il Mulino, 2015), Storia dei diritti umani (il Mulino, nuova ed. 2012), La fine del comunismo (Bruno Mondadori, 2011) e 1917. La Rivoluzione (Einaudi, 2007). Con Feltrinelli ha pubblicato Tutta la violenza di un secolo (2005) e La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (2017).
Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia
Descrizione dell’ebook
A seguito dell’esplosione della crisi economica nel 2008, come in altri passaggi storici, ha preso piede una profonda trasformazione tecnologica che ha fatto parlare di “quarta rivoluzione industriale” che, si dice, renderà sempre più superfluo il lavoro. Siamo davvero entrati in una “nuova” epoca e in cosa consiste la trasformazione in corso? Qual è la cifra del mutamento sociale in atto? È il capitalismo che sta cambiando?
Tornando sull’evoluzione storica del capitalismo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il testo di Ardeni analizza lo sviluppo non lineare del capitalismo, ponendo l’accento sulla sequenza di accelerazioni e rallentamenti che ne ha segnato il lungo percorso.