Il popolo protagonista
Idee – Capitolo 6
“Nei rapporti tra un governo debole e un popolo in rivolta, si giunge sempre a un momento in cui ogni atto delle autorità non fa che esasperare le masse e ogni rifiuto di agire non fa che eccitarne il disprezzo.”
John Reed
I soviet
Il soviet è la grande eredità della Rivoluzione del 1905: una rivoluzione fallita, ma che è servita a cementare un intero ceto rivoluzionario e che, per la prima volta nella storia del socialismo, è riuscita a realizzare un vero e proprio esperimento di democrazia diretta. Nel soviet (“consiglio” in russo) la comunità locale dei lavoratori, siano essi operai, contadini o soldati, decide direttamente obiettivi e strategie dell’azione politica tramite i suoi rappresentanti. Questi sono persone del posto, lavoratori oppure rivoluzionari; non intellettuali borghesi, non aristocratici paternalisti, distanti e inconsapevoli delle reali condizioni di vita del popolo.
Un doppio potere
Nel febbraio del ’17 la rivoluzione riesce per davvero. Lo zar lascia la capitale e viene istituito un governo provvisorio che tuttavia intende proseguire l’impegno della Russia nel conflitto. Nel vuoto lasciato da una classe dirigente in crisi si realizza un dualismo di potere: da un lato il governo provvisorio, dall’altro i soviet che si riorganizzano nelle fabbriche, nei centri rurali, nelle caserme e si impegnano per portare la Russia fuori dal dramma della guerra e della fame.
Ottobre rosso
In questo clima, Lenin lancia le parole d’ordine “Tutto il potere ai soviet!”. Nell’ottobre del 1917 i bolscevichi prendono il potere rovesciando il governo provvisorio di Kerenskij. È così che l’Ottobre rosso irrompe sulla scena, e il mondo assiste, ammirato o atterrito, alle masse che per la prima volta nella storia sembrano diventare artefici in prima persona del proprio destino.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del sesto pannello della mostra, allestita con un manifesto dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, le copertine di due pubblicazioni, The prelude to Bolshevism: the Kornilov rebellion di Aleksandr Kerenskij e Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, e i frontespizi di due opuscoli appartenenti alla collana Documenti della rivoluzione scritti da Vladimir Il’ič Lenin.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
L’alternativa fra popolo ed élite
La forza delle false notizie, la debolezza dei fatti
Soldati per Soldatini. Abbecedario essenziale per giocare alla guerra
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
Dal 1917 in Russia, la propaganda diventa il mezzo dello Stato per parlare non solo della condizione materiale, ma anche della condizione morale. Perché il futuro migliore non è solo quello con più risorse, ma anche quello in cui si realizza la condizione di equilibrio tra benessere materiale e felicità. Una condizione, questa, che fa da sfondo a un lungo processo maturato nel corso del Novecento: la progressiva urgenza del problema del limite alle risorse come inquietante limite alla felicità.
Questo processo conosce un primo punto di svolta con la crisi energetica dei primi anni Settanta, quando inizia la sfida per pensare a un altro sviluppo e dotarsi di un’altra immagine utopistica di futuro. L’arte di regime diventa il mezzo per realizzare questi intenti e attraverso le sue opere deve far apparire l’URSS come “il paese più felice del mondo”.
Il kit didattico affronta quindi questo tema, i suoi sviluppi e la sua evoluzione dalla Rivoluzione di Ottobre fino ai tempi recenti di Putin. In particolare, i contenuti sono sviluppati per analizzare il codice visivo che fu il mezzo predominante, soprattutto nell’età staliniana, di diffusione dei messaggi politici e dei modelli di comportamento promossi dalla nuova ideologia comunista.
L’alternativa fra popolo ed élite
Terza e ultima parte degli articoli L’alternativa fra destra e sinistra, L’alternativa fra reazionari e progressisti
Le due anime inscindibili di una proposta politica moderna sono il “per chi” e “contro chi” si combatte: così, anche e soprattutto nell’Alt-right, la costruzione del popolo corre parallela alla costruzione del “nemico”. Destra e sinistra si tenevano in piedi finché al di sotto di queste categorie politiche veniva più o meno implicitamente sotteso un riferimento sociale: per esempio “i padroni” e “i lavoratori” o almeno delle parti sociali (“confindustria e i sindacati”). Lentamente alle basi sociali si sono sostituite le etichette politiche fino ad arrivare allo scontro ben sintetizzato da Nancy Fraser come: populismo reazionario (quello dell’alt-right appunto) vs. neoliberismo progressista (un grande centro composto da centrodestra moderato cosmopolita e centrosinistra filocapitalista ma attento a temi quale quello dei diritti civili). È questo lo scontro che è andato in scena durante le elezioni presidenziali statunitensi nel 2016 e quelle francesi del 2017.
L’Alt-right negli anni ha costruito solidi riferimenti sociali (il ceto medio arrabbiato innanzitutto, particolarmente fra i cosiddetti WASP nel caso americano ecc.), indicando altrettanti precisi nemici: le élites sovranazionali (europee all’uopo) e gli immigrati come fattore di rischio per motivi culturali (di perdita delle radici valoriali nazionali) e sociali (la necessità di spartizione di welfare, lavoro e risorse fra un numero crescente di individui alcuni dei quali considerati privi di cittadinanza). Funzionalmente a questo, ha propagandato il superamento della dicotomia destra-sinistra. Nella trama della ri-significazione di categorie politiche e riferimenti sociali è rimasta impigliata la sinistra. Quest’ultima ha adottato come proprio nemico non un attore materiale o sociale ma un’altra categoria politica, per altro difficile e complessa, come quella del populismo. Cominciando con l’accettare tutti gli assunti fondamentali della globalizzazione del Washington Consensus, ha sposato la visione del there is no alternative di tatcheriana memoria, congelando ogni possibilità di proporre riforme strutturali di merito nel funzionamento del capitalismo. Escluso il campo delle policies alternative, lo spazio di manovra rimasto quindi nel “per chi” ci si batte è stato confinato alle forme e al mantenimento di volta in volta di situazioni più che di posizioni politiche: il fronte repubblicano nel caso francese, la stabilità e la governabilità nel caso italiano, la fiducia dei mercati nel caso inglese ecc. In questo senso si è andato originando uno scontro fra il polo della “democrazia formale” – quello appena descritto – e quello della “democrazia sostanziale” invaso pressoché dovunque dall’alt-right e dalla sua rivendicazione di opporre la volontà popolare (sempre utilizzando questa compressione e finzione) alla volontà delle tecnocrazie, dei mercati, della finanza.
Tuttavia, che effettivamente l’interesse, ad esempio, degli investitori finanziari non fosse necessariamente l’interesse dei cittadini di un determinato luogo o di una parte anche consistente di essi, è storicamente stato un punto caratterizzante delle battaglie socialiste e socialdemocratiche. La contrapposizione fra interessi economici oligarchici e interessi sociali diffusi era un tema caratterizzante al fine di costruire una democrazia a forte protagonismo dei lavoratori e dei ceti popolari. Da un punto di vista antitetico, è stato anche il tema del rapporto The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies del 1975 della Trilateral Commission, che sosteneva che le democrazie del primo mondo in quegli anni stessero affrontando una crisi dovuta ad un eccesso di istanze che provenivano dai cittadini, fino al sovraccarico del sistema politico; in questo senso, l’unico modo per uscire da tale crisi era secondo gli autori incoraggiare l’apatia e la minore partecipazione democratica. Curiosamente, proprio l’alt-right che ha fatto dello scontro di civiltà (il cui autore della tesi fu anche autore del rapporto della Trilateral, Samuel P. Huntington) il fondamento della propria proposta, si pone su questo tema in antitesi con la destra tradizionale liberale che tendeva a considerare la sfera pubblica un affare per pochi. Infatti, le nuove destre hanno con successo fatto proprio l’invito opposto a quello auspicato da Huntington e colleghi: cioè quello alla massima partecipazione; una partecipazione di tipo plebiscitario e per lo più di contestazione ma con forti elementi mobilitativi. La partecipazione popolare è insomma divenuta essa stessa un elemento di contesa e non un dato acquisito del sistema che lasciasse spazio alla successiva discussione fra parti opposte sul “che fare” una volta raggiunto il Governo per tramite di essa. Per offrire un esempio, non è la stessa cosa entrare in dialettica con le regole europee per chiedere flessibilità sui conti pubblici di uno Stato membro e poi usare la maggiore spesa pubblica per costruire o mantenere ospedali oppure farlo per pagare i paesi della sponda sud del Mediterraneo per trattenere i migranti sulle proprie coste in condizioni umanitarie discutibili. Nella scelta del “che fare” si rianimano la sinistra e la destra, ma le forze politiche sembrano sempre meno interessate a coinvolgere gli elettori in questa discussione.
Non è un caso che movimenti e forze politiche che non solo hanno rivisto profondamente le policies proposte in rapporto alla globalizzazione, ma anche le proprie modalità di fare politica, aprendole proprio al tema di una più significativa e incisiva partecipazione popolare, abbiano ricevuto risultati positivi inaspettati. Alle elezioni presidenziali del 2017 la forza più votata da coloro che dichiarano di non sentirsi né di destra né di sinistra non è stata il Front National, ma La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.
Comizio della Lega. Milano, 2017
A Margate, dopo lo straordinario risultato dell’Ukip nel 2015 e il contestuale pessimo risultato del Labour, nel 2017 l’Ukip perde 10mila voti, i conservatori rivincono il seggio guadagnandone 4000, mentre il Labour raddoppia i suoi consensi dagli 8,5mila di due anni prima a 16,5mila, confermando il trend crescente per i laburisti che li porterà, sotto la guida di Jeremy Corbyn, al picco più alto mai raggiunto.
Non è quindi infondata l’affermazione di De Benoist che le identità di destra e sinistra siano sgretolate e che vengano usate per richiamare ad un voto di appartenenza ormai tramontato. Egli sostiene che “Nel mondo politico, la teatralizzazione della divisione e del confronto tra destra e sinistra mira infatti soprattutto a mascherare la convergenza dei due campi, lei cui identità si sono sgretolate” ma non ha altrettanto ragione nell’affermare che vi sia una convergenza dei due campi: mai come oggi, nel mondo più diseguale di sempre, i due campi sono socialmente chiaramente distinti fra chi ha troppo e chi ha troppo poco, fra chi aspira alla giustizia sociale e chi al mantenimento dello status quo. È la politica – in particolare la politica di sinistra – che troppo spesso rifiuta di prenderne atto, chiusa nei suoi riti stanchi, avvitata nelle liturgie di passate ideologie mai sostituite da quelle nuove e prigioniera dell’interregno dove, come sosteneva Antonio Gramsci, il vecchio muore, il nuovo non nasce e si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
La forza delle false notizie, la debolezza dei fatti
La «fake news», le «notizie false», non sono un’invenzione dei nostri tempi. Da sempre chi ha il potere o chi lo combatte, chi crea e controlla l’informazione e chi la subisce, hanno usato a volte lo strumento della «falsa notizia» per raggiungere i propri scopi, che potevano essere politici o religiosi, ideologici o criminali, economici o familiari. Nella storia ci sono stati esempi macroscopici di «notizie false» che hanno continuato a vivere per decenni o per secoli: si pensi alla «scoperta» della cospirazione ebraica internazionale descritta nei Protocolli dei Savi di Sion, forse la più colossale fake costruita poco più di cento anni fa; o si pensi all’accusa rivolta alla regina Maria Antonietta di avere commesso incesto con il figlio, che fu motivo importante della sua condanna a morte, ritenuta verosimile perché da anni i giornali popolari e radicali avevano diffuso la voce delle sue continue avventure libertine con aristocratici e plebei.
In guerra le «fake news» sono state un elemento importante della propaganda e della disinformazione: l’uccisione di centinaia di bambini belgi da parte delle truppe tedesche all’inizio della prima guerra mondiale venne diffusa per stigmatizzare l’uccisione di civili e la violenta distruzione di Lovanio e creduta perché la propaganda martellava da tempo sulla barbarie del soldato germanico. I regimi totalitari, ovviamente, furono tra i maggiori inventori e creatori di «fake news: i nazisti ritennero gli ebrei e i socialdemocratici responsabili della «coltellata alla schiena» che portò alla sconfitta tedesca nel 1918 e i sovietici considerarono nemici del popolo milioni di operai e contadini, riempiendo così, gli uni e gli altri, i campi di lavoro, di prigionia e di sterminio che contrassegnarono la politica criminale dei due regimi.
In Italia, nel dopoguerra, molti giornali a grande diffusione sono stati coinvolti nel falso rinvenimento dei diari di Mussolini, e altrettanto è accaduto in Germania per quelli attribuiti a Hitler. La disinformazione si è sempre presentata in modo articolato, ed è sulla convinzione di una diffusa disinformazione voluta dal potere che sono circolate numerose contestazioni delle verità raccontate dai media. Teorie del complotto hanno messo in discussione che Neil Armstrong, il comandante dell’Apollo 11, avesse mai posto piede sulla luna, o che davvero le Torri gemelle fossero state distrutte dagli attacchi arerei di Al Qaeda l’11 settembre, o che Hitler fosse davvero morto nel bunker di Berlino.
Cosa c’è di nuovo, allora, nelle «fake news» di cui si parla con insistenza da qualche tempo e che sono state ultimamente intrecciate con il termine di «post-verità» (post-truth è stata indicata come «parola dell’anno» del 2016 dagli Oxford Dictionaries)? C’è il mutamento che internet prima e poi il successo e il diffondersi dei social successivamente hanno determinato nel rendere tutti partecipi dell’informazione, quasi che le notizie «vere» possano essere tali solo se approvate, condivise e accettate dalla stragrande maggioranza, e che false notizie possano diventare vere se, a loro volta, condivise e accettate da un numero consistente di persone. Un aspetto centrale delle attuali «fake news» è il rifiuto-accusa delle notizie della carta stampata, ma anche la circolazione di notizie che quella stessa stampa avrebbe censurato: nella campagna elettorale americana del 2016 Donald Trump e i suoi seguaci urlavano «fake news» ad ogni notizia giornalistica che non soddisfaceva il loro punto di vista; e, al tempo stesso, facevano circolare notizie «fake» (su Obama, Hillary Clinton, il competitor di Trump Marco Rubio, ecc) che acquistavano la parvenza di veridicità proprio perché diffuse e rilanciate sui social.
Quando l’obiettività dei fatti diventa meno rilevante e significativa delle convinzioni personali o dei sentimenti e delle emozioni, nel mondo dominato da internet e dai social, la strada per le «fake news» e la «post-truth» diventa sempre più percorribile.
Soldati per Soldatini. Abbecedario essenziale per giocare alla guerra
Descrizione dell’eBook
La Grande Guerra, per la sua eccezionalità, è la chiamata alle armi della ragione sull’inspiegabile del conflitto che cerca, nel tumulto del discorso, le porte per un accesso facilitato alla sua leggibilità.
Su periodici e opuscoli a larga diffusione, questa chiamata delle lettere alle armi assedia perfino l’infanzia e i suoi giocattoli per neutralizzare, agli occhi dell’opinione pubblica sul «fronte interno», la tragedia attraverso un linguaggio e delle immagini familiari.
L’assedio posto alle parole della quotidianità in tempo di pace e alle figure più docili dell’immaginario infantile – la S di strenna e la A dell’asino del presepe di Natale – descrive però anche la volontà della propaganda bellica di coinvolgere e mobilitare anche i bambini: di familiarizzare proprio loro alle logiche del conflitto.
Il balocco neutrale diventa così l’arma pedagogica che solidarizza il bambino con l’età adulta più tumultuosa e l’adulto con la nostalgia per i giochi di guerra dell’età passata. Lettere e figure sulla pagina scambiano il soldatino con il soldato in un abbecedario-manuale per giocare, tutti, alla guerra.