Lo sport
Propaganda – Capitolo 5
«Crediamo che lo sport sia il più importante ed efficace mezzo di propaganda internazionale. […] Gli eventi sportivi vengono trasmessi in televisione regolarmente in molti paesi e occupano un posto importante nei programmi televisivi. Che magnifica opportunità! Quale evento, oltre alle maggiori vittorie sportive internazionali, può provocare […] così tanta ammirazione per un personaggio sovietico come una vittoria sul campo sportivo?»
Baruch Hazan
L’importanza dello sport
Lo sport è fin da subito al centro dell’educazione del nuovo cittadino sovietico, materia obbligatoria nell’educazione scolastica e favorito dalla nascita di moltissime istituzioni di dopolavoro dedite all’esercizio fisico. Gli studenti più dotati vengono indirizzati alla pratica sportiva professionale, e lo Stato investe moltissimo nella formazione di atleti destinati a primeggiare nelle competizioni internazionali.
Tensioni in campo
Da elemento di svago e aggregazione nei centri cittadini, ben presto lo sport diventa nella scena internazionale un ulteriore palcoscenico della Guerra fredda, dove la posta in gioco sono il medagliere olimpico e l’attenzione di migliaia di spettatori. Ecco perché tutte le tensioni internazionali finiscono per riflettersi nello sport: come nella famosa partita di pallanuoto tra URSS e Ungheria nel 1956 poco dopo la rivoluzione ungherese – nella quale la violenza in campo fu un riflesso diretto di quella della repressione sovietica a Budapest – o l’“incontro del secolo” a scacchi tra l’americano Bobby Fisher e il russo Boris Spassky, o il gol del calciatore Sparwasser che segna il trionfo della Germania Est sull’Ovest nel mondiale di calcio del 1974.
Le Olimpiadi boicottate
Le competizioni internazionali si caricano di significati politici e diventa anche lo scenario dove manifestare il proprio dissenso. Gli anni ‘80 vedono un boicottaggio reciproco nelle gare internazionali da parte dei due blocchi: dopo l’intervento dell’URSS in Afghanistan nel 1979, le Olimpiadi di Mosca del 1980 sono boicottate da 65 paesi, così come quelle di Los Angeles del 1984 vedranno l’assenza dei paesi del blocco sovietico.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del quinto pannello della mostra, allestita con tre manifesti, dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, e una serie di cartoline dedicate alle competizioni sportive che hanno visto l’URSS protagonista.
Per iniziare la visita alla mostra virtuale, basta cliccare su una delle immagini che seguono. Potete procedere nell’ordine consigliato oppure visualizzare i singoli oggetti.
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“I will stand with you”. Le Olimpiadi del 1968 e le conseguenze sul futuro
È il 17 ottobre 1968, si stanno svolgendo le premiazioni alle Olimpiadi di Città del Messico per la gara dei 200 metri piani maschile. Lo stadio è pressoché vuoto, gli atleti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e medaglia di bronzo, si presentano sul podio senza scarpe, durante l’inno nazionale americano abbassano lo sguardo e, invece della mano sul cuore, alzano il pugno guantato.
Le “anime del popolo nero”, come scrisse W.E.B. Du Bois agli inizi del ‘900, sono diverse. L’unità del movimento contro la segregazione razziale degli Stati Uniti negli anni ’60 è composita: il sogno e i negro di Martin Luther King facevano parte del “sogno americano” ma a questi si affiancavano i black men e il Potere nero di Malcom X, che del sistema americano aveva una visione imperialista e da incubo. Nel movimento degli afroamericani alla questione della razza si sommava quella della classe e il conflitto sociale e razziale nel paese era sempre più esasperato. Smith e Carlos, mentre denunciavano al mondo intero la piaga del razzismo, con questo gesto mostravano chiaramente di non sentirsi americani. Non è per “loro”, cioè per i bianchi e le loro istituzioni razziste, che correvano.
Pochi giorni prima, il massacro degli studenti messicani in Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco non aveva cambiato i piani dei Giochi. Il Comitato Olimpico Internazionale dichiarava che la repressione degli studenti – documentata da Oriana Fallaci per L’Europeo – era una questione interna al Messico e non aveva a che fare con lo sport.
Comunque il rapporto tra sport olimpico e politica sarebbe cambiato profondamente, grazie al gesto di Smith e Carlos: il saluto delle Black Panthers faceva parte del boicottaggio scelto in seno all’Olympic Project for the Human Rights, lanciato dal sociologo Harry Edwards nel 1967, che raccoglieva alcuni atleti olimpici americani contro la segregazione razziale e per i diritti.
Il podista australiano medaglia d’argento, Peter Norman, il secondo uomo più veloce del mondo nel 1968, aderiva alla protesta dei due statunitensi con questa semplice frase: “I will stand with you”. Smith e Carlos in un primo momento mostrano diffidenza nei suoi confronti ma Petern Norman, il bianco, era riuscito nel frattempo a farsi prestare la coccarda del Progetto Olimpico per i Diritti Umani e poi a indossarla come gli altri due sul podio durante la premiazione.
La carriera sportiva di tutti e tre finiva quel giorno.
L’australiano non si è mai pentito e per questo è stato punito. Non viene convocato dal Comitato australiano ai Giochi Olimpici del 1972 e da lì in avanti Peter Norman sarebbe passato attraverso anni di isolamento e ostracismo sociale e professionale. Fino alla morte, avvenuta nel 2006, nessuno ha mai fatto i conti con il valore e le conseguenze della sua solidarietà espressa per la causa dei diritti umani e degli afroamericani.
Peter Norman ha un ruolo di rilievo nella storia olimpica che è frutto dell’incontro tra i suoi grandi traguardi atletici – il suo record del 1968 è tutt’ora imbattuto in patria – e gli eventi globali e rivoluzionari del 1968 che hanno avuto luogo sul palcoscenico delle Olimpiadi e della storia.
I due americani sono riusciti a ottenere piccoli riconoscimenti: nel 2005 è stata eretta una statua in loro onore al college di San José; la statua riproduce il saluto delle Black Panthers alle Olimpiadi del 1968 con le figure di Smith e Carlos, ma il podio del secondo classificato è vuoto per permette alle persone di interagire con la statua. Una scelta che di fatto omette la presenza dell’australiano. L’eredità di Peter Norman infatti fa ancora fatica a farsi strada.
Dal 1968 fino a tempi molto recenti, il Comitato Olimpico Australiano gli ha chiesto di rinnegare il gesto compiuto a Città del Messico, tanto che a causa del suo rifiuto non è stato neanche invitato tra le star dello sport nazionale all’inaugurazione delle Olimpiadi di Sydney del 2000.
Nel 2006 Norman muore e solo sei anni dopo, nel 2012, il Parlamento Australiano gli chiede scusa pubblicamente e ufficialmente.
Cinquanta anni dopo, lo scorso giugno, finalmente, il Comitato Olimpico Australiano conferisce alla famiglia un riconoscimento postumo: l’Ordine al Merito Olimpico.
Esiste poi un comitato che da anni si batte per la costruzione di una statua interattiva a Melbourne, per riconoscere il coraggio di Peter Norman e per celebrare il multiculturalismo della città come modello per il futuro.
Dal Racial Discrimination Act del 1975 sono stati fatti dei passi in avanti ma il razzismo in Australia continua a essere un problema sociale significativo e il paese continua a contraddire, di fatto, il rispetto dei diritti umani.
Non si può tornare indietro, ma la memoria e i riconoscimenti pubblici, politici e sportivi di Peter Norman diventano ancora più importanti oggi dato che la discriminazione razziale verso i migranti, i rifugiati e le minoranze è in crescita in un paese complesso come l’Australia, e non solo.
Anche in Italia e in Europa è tempo di barriere, tracciate sulla linea del colore.
Malgrado le preoccupazioni per la gestione e l’impatto del fenomeno migratorio, molti in Europa restano su posizioni di accoglienza verso gli stranieri, compresi immigrati e rifugiati. La maggior parte della popolazione in Italia oscilla tra rabbia e speranza ed è preoccupata per il crescente clima di razzismo e di discriminazione. Il quadro è estremamente frammentato. Malgrado le forze conservatrici e populiste di destra celebrino i propri trionfi a suon di decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione e di attacchi ai diritti fondamentali, tante piazze meticce da Ventimiglia, a Macerata a Catania, a Riace, a Lodi mostrano lo stesso coraggio di un gesto compiuto da tre giovani atleti cinquant’anni fa. Restiamo umani e non pentiamoci, la storia è dalla nostra parte.
Approfondimenti dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Di seguito le pagine del periodico Cuba conservato nella biblioteca della Fondazione, raccontano le olimpiadi del 1968,
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Politica identitaria, libertà economiche e futuro della democrazia
A che punto è il populismo?
Mass Media e sfera pubblica. Verso la fine della rappresentanza?
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Politica identitaria, libertà economiche e futuro della democrazia
Nel dibattito sulla fine delle ideologie e intorno al nuovo ordine mondiale che avrebbe sostituto la Guerra Fredda, c’è un “prima” e un “dopo” la tesi de “La fine della storia”. Quanto più aspramente la si critichi, tanto più seriamente è utile prenderla in considerazione dell’influenza che ha avuto, insieme ad altre come quella de “Lo scontro di civiltà” di S.P. Huntington, nel tentare di fornire un nuovo paradigma politico mondiale. La tesi, ormai nota, sosteneva che, collassato il sistema sovietico su se stesso, il capitalismo e la liberaldemocrazia di stampo occidentale fossero ormai il sistema economico e politico più evoluto al quale l’umanità potesse arrivare, tanto che tutti i popoli della Terra lo avrebbero presto adottato. Il mondo sarebbe, sintetizzando la visione, prima o dopo divenuto un luogo omogeneo nel quale tutti avrebbero finito per vivere secondo lo stesso modello, in un’epoca di fine della storia nel senso di fine dell’asse politico di divisione conflittuale.
Per sostenere la sua visione, Fukuyama ha largamente contribuito a diffondere la tesi, propria anche di economisti di massimo rilievo quali Milton Friedman, dell’inseparabilità di libertà politica ed economica. Un assunto secondo il quale capitalismo e democrazia vivono in simbiosi alimentandosi fra i due poli l’un l’altro: liberalismo politico e liberismo economico, libera aggregazione in società civile e libero mercato competitivo, libere elezioni e libera accumulazione come endiadi del sistema che avrebbe assicurato prosperità e benessere a tutti. La variabile che nella sua tesi dell’89 Fukuyama non sembrava aver ponderato sufficientemente, è stato l’impatto della globalizzazione – proprio come avvento di un modello economico omogeneo – e il conseguente aumento esponenziale delle diseguaglianze fino al punto di mettere in crisi la classe media occidentale, classe senza la quale il modello di liberaldemocrazia rappresentativa non può esistere. Questo tema sarà posto proprio da Fukuyama anni più tardi, nel suo articolo “The Future of History” (2012) nel quale si chiederà proprio “Can Liberal Democracy Survive the Decline of the Middle Class?”, osservando:
“The other factor undermining middleclass incomes in developed countries is globalization. With the lowering of transportation and communications costs and the entry into the global work force of hundreds of millions of new workers in developing countries, the kind of work done by the old middle class in the developed world can now be performed much more cheaply elsewhere. Under an economic model that prioritizes the maximization of aggregate income, it is inevitable that jobs will be outsourced. Smarter ideas and policies could have contained the damage”
Così sottolineando che, lontano dall’omogeneità prevista, un asse di divisione politica esiste ancora, almeno nel dibattito fra quali siano le “smarter policies”. In questo senso, pur non arrivando mai alle estreme conseguenze del suo ragionamento, Fukuyama è uno dei maggiori sostenitori dell’assunto sull’indivisibilità fra libertà politiche ed economiche ad accorgersi che, per via della globalizzazione neoliberista, le libertà economiche hanno finito per ridurre notevolmente il raggio d’azione delle libertà politiche, fino a costituire quella “post democrazia” di cui parlano Colin Crouch e molti altri.
La nuova impresa intellettuale costituita da “Identity: The Demand for Dignity and the Politics of Resentment”, sembra approfondire questa parabola di “ripensamenti indiretti”: non solo sul piano economico le tesi della scuola di Chicago e degli austriaci à la Von Hayek a cui Fukuyama sembrava rifarsi in un primo tempo, si sono dimostrate fallaci nel prevedere (o creare, a seconda dei punti di vista) una crisi economica significativa come quella del 2008 e le sue conseguenze, ma anche sul piano culturale il conflitto politico continua a riarticolarsi, lontanissimo da quel “consenso di fondo” minimo che sia Fukuyama sia i maggiori pensatori della fine delle ideologie hanno spesso richiamato. Non stupisce infatti che proprio col crollo delle grandi ideologie novecentesche e l’idea che esse non possano essere sostituite da nulla di consimile, gli assi di conflitto sociale si siano spostati dal piano prettamente politico a quello pre-politico: religioso, nazionale, culturale in senso ampio. Infondo questa era stata già la tesi di Huntington che di Fukuyama ha sempre costituito un “nemico-amico”. Fukuyama osserva così in questo ultimo volume che c’è una versione dell’ “identity politics” progressista (come quella dei movimenti degli anni ’60) e una regressiva e reazionaria, come quella utilizzata dall’Alt-Right e da un esponente di primo piano di quella parte come Donald Trump. Infatti, l’incontro fra le due impostazioni dell’identity politics produce una divisione sempre più significativa fra gruppi “inclusi” ed “esclusi”.
In questo senso, Fukuyama legge i recenti sviluppi – aumento dei consensi ai fautori della “democrazia illiberale”, brexit, fenomeni populisti di vario tipo ecc. – attraverso la chiave della rivolta al polo liberale del sistema contemporaneo: “Over the past few years, we’ve witnessed revolts around the world of the democratic part of this equation against the liberal one” (The Dangers of Disruption, 6 Dic 2016, The NY Times), legandola in Identity a quella della rivolta culturale e della necessità da parte di popoli e categorie di popolo di sentirsi riconosciuti e reagire a ciò che ritengono essere minaccioso per il loro riconoscimento. Accantonata dunque l’analisi socio-politica delle conseguenze della globalizzazione, che avrebbe potuto portare ad una discussione politica del celebre “it’s the economy stupid!”, egli propone invece un’angolatura totalmente differente, la quale contempera la conservazione degli elementi essenziali che lo avevano portato a dichiarare la fine della storia nel trionfo del sistema di globalizzazione neoliberista, con quella che fu la tesi huntingtoniana sullo scontro di civiltà. Ironia del destino per quest’ultimo che aveva scritto il suo volume del ’93 proprio in risposta a Fukuyama, si ha la “saldatura del cerchio” fra polo del conservatorismo e quello del liberalismo che trova in Fukuyama uno straordinario interprete di coerenza.
A che punto è il populismo?
A dispetto di chi lo pensava un fenomeno transitorio o addirittura un epifenomeno il concetto di populismo mantiene tutta la sua attualità, mostrandosi sempre più complesso e articolato. Se qualche decennio fa eravamo abituati a considerarlo una reazione contingente oppure solo una espressione della protesta sociale, ormai appare come qualcosa di ben più strutturale. Il populismo è ormai una realtà di governo, è configurazione istituzionale, è mentalità, è grammatica politica, è forma costituzionale, ha assunto molteplici forme in differenti contesti, acquistando una centralità nella riflessione politologica odierna.
Ragionare oggi sul populismo implica necessariamente una riflessione sull’assetto delle democrazie contemporanee, così come, d’altra parte, una valutazione delle odierne trasformazioni della democrazia non può prescindere dalla deformazione populistica che le coinvolge in gradi e forme differenti. Da questo punto di vista il populismo può essere visto o come il principale fattore di un cambiamento paradigmatico dell’impianto democratico liberale, o, di converso, come l’effetto più evidente di una sua epocale destrutturazione.
Come già le prime acute analisi di Gino Germani sul peronismo avevano evidenziato, la correlazione tra populismo e democrazia rimanda alla più complessa questione dei rapporti tra democrazia e modernizzazione. Ogni volta che la democrazia viene investita da dinamiche di modernizzazione si generano spazi vuoti, per dirla con Lefort, che permettono alla sovranità popolare di assumere forme sociali delegittimanti dello status quo, dell’establishment, dell’impianto istituzionale e dei sistemi di rappresentanza vigenti, in favore di nuove configurazioni del potere politico, più dirette, manichee, dove il popolo assume una fisionomia omogenea e compatta, a-ideologica e inter-classista, ma, allo stesso tempo, fortemente rigeneranti della partecipazione politica perché inclusiva e innovativa. Se però nell’Argentina peronista la modernizzazione era dettata dall’industrializzazione e dall’inurbamento di ampi settori della popolazione, oggi sono le nuove tecnologie, i processi di globalizzazione, le continue forme assunte dalla società dei media e dello spettacolo a determinare le nuove modalità del politico. In questo senso, per esempio, vanno interpretate tipologie di neopopulismo quali il telepopulismo e il webpopulism, che sono state determinate dalla comparsa tecnologie e forme di comunicazione prima conosciute, all’interno delle quali si è ripresentato il mito della democrazia diretta, della rappresentanza personalizzata e del culto del leader.
Sul versante strettamente epistemologico occorre notare invece che dopo una lunga stagione di studi tesi a spiegare la natura concettuale del populismo (ideologia, stile, strategia?), da qualche anno si è aperta una nuova fase volta piuttosto alla valutazione empirica e comparativa dei fenomeni populistici in chiave transnazionale. Assistiamo infatti alla diffusione su scala globale del populismo, tanto nei contesti di democrazia avanzata, quanto nelle realtà con processi di democratizzazione più recenti.
A proposito infatti Moffitt e de La Torre parlano di un emergente global populism. Una prospettiva di analisi comparata e globale, non solo ribadisce la necessità anche in questo ambito di ricerche non limitate nel confine metodologico dello stato-nazione, ma conferma pure l’intuizione di Margaret Canovan per cui, sul piano empirico, si realizzano sempre famiglie populistiche, ciascuna con una specifica determinazione storico sociale, variabili con il variare della forma democratica. Oggigiorno possiamo pertanto annoverare nuove specie populistiche: dal multi-populismo italiano, dove da più di venti anni differenti forme di populismo sono in competizione tra loro; alla condizione post-populistica del Venezuela, dove vige un populismo orfano del proprio leader fondatore; al populismo di Trump che presenta una antica tradizione di populismo statunitense conservatore e protezionista, ma in una chiave fortemente anti-cosmopolita e antiglobalista.
Una ulteriore frontiera di studi degli odierni populism studies è rappresentata dalla valutazione di queste derive demo-consensuali sul funzionamento interno della democrazia in termini di mantenimento della rule of law, del pluralismo, di rispetto dei meccanismi di check and balances e della polarizzazione sociale della sfera pubblica. In questo senso sarà particolarmente fruttuoso l’utilizzo degli strumenti proveniente dalle ricerche sulla quality of democracy, poiché permetteranno di misurare e valutare l’effettivo impatto deformante del populismo sulle istituzioni democratiche.
Mass Media e sfera pubblica. Verso la fine della rappresentanza?
Descrizione dell’eBook
La trasformazione della politica nel nuovo scenario mediale, l’impatto di new e social media sulla sfera pubblica, costituiscono alcuni dei grandi temi che interrogano il presente e il futuro della nostra democrazia. Le nuove forme della comunicazione sono la causa o l’effetto di processi quali la personalizzazione delle leadership, la verticalizzazione delle organizzazioni politiche, la presidenzializzazione dei partiti, la delegittimazione sociale dei vecchi “corpi intermedi”?
Interrogandosi su questo problema aperto Luciano Fasano, Massimiliano Panarari e Michele Sorice analizzano il grande tema della relazione tra mass media, democrazia e rappresentanza con la convinzione che nel mondo globale la comunicazione è parte fondamentale della relazione sociale.
Le trasformazioni nel campo della comunicazione e la crisi e ridefinizione della rappresentanza sono elementi chiave del dibattito contemporaneo sulla democrazia e chiamano in causa la grande questione della partecipazione, concetto spesso declinato come ancillare rispetto alla rappresentanza o, viceversa, come suo antagonista. Questo volume non vuole fornire risposte definitive ma contribuire al dibattito pubblico.
È un dialogo a tre voci, che esplora cambiamenti e innovazioni, criticità e prospettive di sperimentazione nel quadro dei tumultuosi processi che stanno cambiando la nostra vita associata. È un dialogo aperto e senza porti franchi. Perché nessuno può pensare di scappare dagli interrogativi che riguardano il futuro e, forse, la stessa sopravvivenza della democrazia. Una parola che spesso maneggiamo con leggerezza, ma che nel corso della nostra storia più recente ha alimentato e continua ad alimentare oggi le passioni e l’impegno civile di milioni di donne e uomini.
Conosci gli autori
Luciano Fasano è docente di Scienza politica e di Istituzioni politiche e processi decisionali presso l’Università degli Studi di Milano.
Massimiliano Panarari è docente a contratto di Informazione e potere presso il Dipartimento di Analisi delle politiche e Management pubblico dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano e docente a contratto di Campaigning e organizzazione del consenso presso l’Università LUISS-Guido Carli di Roma.
Michele Sorice è ordinario di Democrazia deliberativa e nuove tecnologie presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma e Honorary Professor presso la University of Stirling, Scotland, UK.
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Descrizione dell’eBook
Il populismo è in ascesa (in Europa, come in America latina e negli Stati Uniti). Le nostre democrazie sono in un momento cruciale della loro storia e la forma in cui per quasi un secolo e mezzo le abbiamo conosciute ed abitate, si rivela probabilmente inadeguata a contenere ed esprimere le esigenze ed i fermenti di società in costante mutamento.
Conosci l’autrice
Sara Gentile insegna Scienza politica e Analisi del linguaggio politico all’Università degli studi di Catania. Collabora con l’Università di Cagliari per un master sulla mediazione interculturale. È professeur invité al CEVIPOF di Sciences Po di Parigi, dove svolge prevalentemente le sue ricerche. Ha una proficua collaborazione con la associazione Historia. Temi di analisi e di ricerca prevalenti: Populismi e crisi della forma democratica. Comunicazione, rituali e linguaggi dei leader politici.
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