Welfare
Capitolo 6
Il 5 luglio 1948 ha segnato una data storica nel sistema sociale dell’Inghilterra. In tale data sono entrate infatti in vigore, contemporaneamente, le cinque grandi leggi che devono provvedere a rendere realtà effettiva quel compito di “sicurezza sociale” che la nuova Gran Bretagna ha posto come dovere essenziale dell’intera collettività.
La sicurezza sociale in Inghilterra
in “Critica sociale”
a. XL, n. 15, 1 agosto 1948
Le conseguenze della rivoluzione industriale sulla società pongono la questione di quali politiche adottare per governare il cambiamento. Verso la fine dell’Ottocento, in tutti i Paesi europei investiti dalla modernizzazione dei processi produttivi, i governi, incalzati dal movimento operaio, varano i primi significativi programmi di welfare: l’introduzione dell’assistenza medica gratuita, l’approvazione di leggi sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Stato sociale universale
Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale le politiche sociali rispondono alla necessità di alleggerire le condizioni di marginalità più aspre. Ma è solo con la fine della Seconda guerra mondiale che, in alcuni Paesi occidentali, viene realizzato lo Stato sociale universale, capace di tutelare i cittadini dalla nascita fino alla morte, offrendo molteplici prestazioni, tra cui la sanità pubblica e la pensione sociale.
Nuovi modelli
Oggi, nel contesto della globalizzazione, del processo di integrazione europeo, della frammentazione del mercato del lavoro e delle difficoltà dello Stato nel finanziare vasti programmi di welfare, abbiamo la necessità di immaginare nuovi modelli di tutela.
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Il welfare come strumento per tutelare i lavoratori, proteggendoli dalle crisi cui il capitalismo è stato soggetto nel corso del Novecento.
1. Conférence donnée par Henri De Man a Liège, 10 novembre 1934, 1934, p. 3.
“En pareil cas, l’expérience a demonstré qu’il suffisait de laisser faire et de laisser passer, non point certes pour empêcher le retour périodique des crises, mais pour que chaque crise soit suive d’une novelle période de conjoncture ascendante. Pour autant que l’on admette alors l’intervention de l’Etat, elle doit logiquement se borner à activer le mouvement de baisse, c’està-dire faire de la déflation, pour précipiter la reprise des affaires”.
[In tali casi, l’esperienza ha dimostrato che è sufficiente lasciar fare e lasciar andare, non per impedire il ritorno periodico delle crisi, ma per garantire che ad ogni crisi faccia seguito un nuovo periodo di crescente attività economica. Nella misura in cui l’intervento statale viene accettato, deve logicamente limitarsi ad attivare il movimento al ribasso, ossia la deflazione, per accelerare la ripresa dell’attività].
2. Winthrop W. Aldrich, An appraisal of the Federal Social Security Act, address delivered on the evening of July 10, 1936.
3. Social insurance and allied services. The Beveridge report in brief, London, 1942, pp. 4-5.
Approfondimento
Avere vent’anni: partire dai giovani per ripensare radicalmente il Paese
Come ricostruire la socialdemocrazia? Alcune ipotesi da Bad Godesberg a oggi
19 novembre 1969. La battaglia contro lo sfruttamento oltre la fabbrica
Assistere chi ha bisogno: tutele e risposte territoriali
Avere vent’anni: partire dai giovani per ripensare radicalmente il Paese
Avere vent’anni in Italia
I giovani italiani hanno mosso i loro primi passi in un Paese già in declino e, nel giro di pochi anni, sono stati marchiati a fuoco da tre crisi: 2008, 2010, 2020. A ogni colpo, la speranza nel futuro ha ceduto sempre più terreno, se non alla rabbia, quantomeno alla disillusione.
La questione giovanile è ai margini della politica. Anche chi la prende in considerazione spesso lo fa con superficialità e miopia.
Non basta destinare più soldi ai giovani, ma bisogna cambiare radicalmente visione e ricette economiche. E bisogna sciogliere il nodo dei rapporti intergenerazionali. Sbaglia chi dipinge una guerra fra vecchi e giovani. Sbaglia chi raffigura il debito pubblico come un “fardello sulle future generazioni”: anche economisti mainstream, infatti, stanno comprendendo che il debito pubblico deve essere visto come uno strumento di politica economica.
In questo articolo delineiamo una serie di proposte per tentare di rispondere agli effetti della pandemia sui giovani.
Ricostruire il welfare
Il nostro modello di welfare è fermo a un sistema che ricalca la realtà del secondo dopoguerra, quando l’obiettivo era assicurare un reddito al capofamiglia.
Se ciò ha funzionato bene fino agli anni Novanta, oggi non è più così. Questo sistema genera una società bloccata. Garantire il lavoro al cosiddetto “capofamiglia” non basta più. Lasciare indietro donne e giovani danneggia la stabilità economica.
È perciò necessaria una revisione del sistema di welfare, più equamente distribuito, che tuteli le donne e permetta ai giovani di entrare nel mondo del lavoro con salari dignitosi e con maggiori tutele. E bisogna anche pensare a misure strutturali. Un esempio: non bastano i bonus nascite, servono anche gli asili nido.
Un salario minimo
Mentre Biden annuncia che alzerà il salario minimo orario a 15 dollari, in Italia siamo ancora indietro. Il fermento nel mondo del lavoro di questi ultimi anni ha fatto emergere un dualismo pernicioso: alcuni vengono coperti dal contratto nazionale del lavoro, mentre altri sono costretti a lavori scarsamente tutelati e con paghe infime – e in questa seconda categoria rientrano molti giovani.
Un salario minimo aiuterebbe a colmare il divario. Anche fra gli economisti, un tempo scettici, molti si stanno convincendo della sua efficacia.
Far ripartire la pubblica amministrazione
In questi mesi di crisi c’è stato un accanimento crescente verso i dipendenti pubblici. I ritardi e i disagi della pubblica amministrazione italiana non sono però dovuti a fantomatici scansafatiche iper-garantiti, ma ad anni di tagli e depauperamento. Per far funzionare il Paese, serve un piano di ricambio generazionale in seno alla PA.
Ad oggi, infatti, i trentenni non sono neanche l’1% dei dipendenti. Negli ultimi anni le migliori opportunità di carriera e le maggiori assunzioni nella finanza o nei servizi hanno allontanato i giovani dalla PA. Ciò ha effetti deleteri sulla qualità dei servizi pubblici: la scarsa digitalizzazione del paese rende la macchina statale troppo lenta. Un ricambio generazionale, attraendo i talenti provenienti dalle università, porterebbe a un netto miglioramento delle capacità digitali della PA, supportata da un piano di investimenti per la modernizzazione. Un esempio interessante? Il digital government in Estonia.
Innovazione, cambiamento climatico, sostenibilità
Se vuole difendere il suo futuro, la nostra generazione deve reclamare una nuova strategia di crescita, che concili salvaguardia dell’ambiente e benessere economico.
Siamo stati abituati a pensare all’Italia come una terra il cui petrolio è il turismo. Ma in questo modo l’innovazione, motore trainante della crescita, è stata trascurata.
Non dimentichiamo poi che la crescita non deve avere soltanto un incremento, ma anche una direzione, come sottolinea Mariana Mazzucato.
Quindi, per garantire alla nostra generazione un futuro più sostenibile e un presente fatto di lavoro ed opportunità, è necessario usare la leva della politica industriale, indirizzando la crescita verso un orizzonte di sostenibilità e inclusività.
Due proposte: creare un fondo pubblico per l’innovazione (destinato, in particolare, alle piccole e medie imprese innovative) e istituire un’agenzia governativa sulla falsariga della SBA statunitense (in modo che gli investimenti siano conformi a obiettivi di sostenibilità).
Una contro-urbanizzazione giovanile
L’emergenza sanitaria ha spinto molti studenti e lavoratori a rientrare nelle province, in un’inedita diaspora dai centri metropolitani.
In vent’anni un milione di residenti è migrato dal Mezzogiorno al Centro-Nord per avere prospettive lavorative migliori. Energie creative e produttive sono fuggite nelle regioni già sviluppate, con enormi vantaggi per gli agglomerati urbani del Nord.
Questa concentrazione dei fattori di produzione non è compatibile con le politiche verdi che si vogliono promuovere in Europa. Infatti, il Nord produttivo ed esportatore è anche più inquinante. Le regioni italiane con maggiore densità di polveri totali sospese sono Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto.
Quella che auspichiamo è una contro-urbanizzazione: un saldo migratorio positivo nel Sud e nelle zone rurali. Per questo serviranno politiche di investimento massicce in infrastrutture, istruzione e beni pubblici.
Scuola e università
Durante la pandemia sono emerse tutte le criticità del nostro apparato educativo, dovute a decenni di scarsi investimenti. L’aggravarsi della sperequazione socio-economica, le nuove disuguaglianze, l’aumento della dispersione scolastica, la carenza di insegnanti, i lati negativi della didattica a distanza devono apparire come problematiche non inedite, ma dis-velate dalla crisi in atto.
Una vera riforma del sistema deve recuperare il meglio della nostra eredità culturale, ma anche aprire alle novità. L’insegnamento è ancora troppo legato alla lezione frontale. Innovazioni didattiche – come la flipped classroom – aiuterebbero gli studenti a migliorare nel lavoro di gruppo e nella capacità di interazione, oltre a sviluppare i necessari strumenti per la maturazione di un pensiero critico.
Affinché le conoscenze possano trasmettersi e ampliarsi servono poi infrastrutture adatte. È necessario re-immaginare la dimensione spaziale, per una scuola che sia immersa in un contesto di biblioteche pubbliche, sale di registrazione, aule computer, luoghi di ritrovo. Perché l’istruzione non può essere solo uno strumento per trovare lavoro, ma anche e soprattutto un percorso di formazione etica della persona.
Conclusione
Come scrive Marc Bloch in “Apologia della storia”, una generazione non viene definita solo da una comunanza di età, ma anche e soprattutto da una comunanza di impronta. Il tempo storico si imprime nella vita di ognuno di noi, lasciando la traccia di un’esperienza comune. Quale potrà essere l’impronta che la nostra generazione lascerà nel futuro, in un tempo dominato dalla precarietà? Solo rifiutando il dominio dell’istantaneo sul durevole riusciremo a sciogliere questo dilemma.
Hanno contribuito per Kritica Economica: Alessandro Bonetti, Ivan Giovi, Francesco Giuseppe Laureti, Mattia Marasti, Giorgio Michalopoulos, Andrea Muratore, Sara Nocent, Anna Noci
Come ricostruire la socialdemocrazia? Alcune ipotesi da Bad Godesberg a oggi
a cura di Jacopo Perazzoli,
articolo di approfondimento che riassume i temi e i risultati del workshop Bad Godesberg, quando siamo diventati riformisti, di Agenda Open Lab
Un quadro d’azione diverso: società, economia e partito, tra ieri e oggi
Approvato nel novembre del 1959 dalla Socialdemocrazia tedesca, il programma di Bad Godesberg rappresenta ancora oggi un documento importante nella lunga vicenda della socialdemocrazia europea. Come emerge da un volume di Fondazione Feltrinelli pubblicato in occasione del sessantesimo anniversario della sua applicazione, lo è probabilmente per due ragioni principali: prima di tutto perché, muovendo da un’approfondita analisi della realtà, quel documento si proponeva comunque di imbrigliare il capitalismo, così da limitarne gli effetti più nefasti; in secondo luogo perché non rinunciava affatto ad immaginare un futuro diverso, non per forza limitato alla sola conservazione, o al massimo miglioramento di piccolo cabotaggio, dello status quo.
Per evitare di realizzare la più classica operazione da “nostalgia del passato” denunciata qualche anno fa da Zygmunt Bauman in un suo libro particolarmente ficcante, nel 2019 una prima operazione utile per provare a immaginare una nuova proposta politica socialdemocratica coincide con l’individuazione del perimetro d’azione, partendo peraltro da una constatazione preliminare. Mentre nel trentennio glorioso non vi erano dubbi sull’ascesa del settore industriale, oggi è la deindustrializzazione, con i suoi impatti in termini di frammentazione sociale, a segnare il panorama del continente europeo. La finestra di opportunità, apertasi dopo la Seconda guerra mondiale, iniziò a chiudersi nel 1971, quando gli Usa decisero per il superamento del sistema di Bretton Woods, che fino a quel momento era riuscito a regolare le relazioni economiche transatlantiche.
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Come spiega Matteo Jessoula, le trasformazioni del capitalismo hanno sfidato l’approccio delle socialdemocrazie anzitutto sul terreno delle politiche sociali.
A partire dunque dalla fine degli anni Settanta, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il nuovo corso si manifestò con le prime ondate di liberalizzazioni. Secondo Mario Ricciardi, mutando il quadro economico di fondo, anche le tendenze ideologiche subirono delle trasformazioni, con un evidente impatto sulle socialdemocrazie. Nel contesto del Cold-War liberalism, il neoliberalismo, un panorama di idee in circolazione già dagli anni Sessanta nel Regno Unito, in alcuni think-thank e tra gli esponenti dei tories più conservatori, riuscì ad avere sempre più spazio e ad influenzare in misura sempre maggiore il dibattito politico. In linea con la riflessione, tra gli altri di Robert Nozick, la caratteristica principale del neoliberalismo era il superamento dei legami sociali, elemento centrale del programma di Bad Godesberg, eccezion fatta di quelli volontari. Le obbligazioni tra generazioni di cui parlavano tanti conservatori “classici”, Edmund Burke su tutti, venivano dunque meno, così come sparivano i rapporti di solidarietà.
Nel 1987 Margaret Thatcher aveva spiegato che “la vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie”. Nella visione neoliberalista sono gli individui il focus centrale: per Ricciardi, infatti, la società equivaleva al bargain tra gli individui, dove il vincolo era costituito da un perimetro piuttosto stretto e molto rigoroso dei diritti di proprietà, diritti di proprietà sul proprio corpo in prima misura, quindi sul lavoro e su tutto ciò che veniva acquisito tramite il lavoro.
Se così sul piano più strettamente ideologico, anche sul piano politico la svolta si verificò tra gli anni Settanta ed Ottanta. A detta di Andrea Panaccione, esemplificativa in questo senso fu la rotta seguita dalla commissione europea guidata da Jacques Delors, incapace di contenere gli effetti più nefasti dell’economia. D’altro canto, il neoliberalismo diventò egemone proprio con l’arrivo degli anni Ottanta, riuscendo così ad orientare il dibattito e a fissare l’agenda anche della socialdemocrazia. Dopo questa svolta, i partiti socialisti e socialdemocratici non riuscirono più ad immaginare un modello di società alternativo, come dimostrato dalle esperienze di governo degli anni Novanta e dei primi anni Duemila.
Questi veri e propri cambi di paradigma erano legati ai mutamenti avvenuti all’interno del quadro economico, che per la socialdemocrazia ha storicamente rappresentato la sfera per antonomasia con cui rapportarsi. Se il programma di Bad Godesberg, secondo quanto spiegato da Michele Di Donato, dimostrava l’intenzione della Spd di governare e di riformare il capitalismo, così come nel dare un ruolo da protagonista allo Stato nel campo economico (“concorrenza quanto possibile, pianificazione quanto necessario”), il programma approvato dalla Spd nel 2007 durante il congresso di Amburgo presentava una prospettiva ben differente: alla politica spettava riconoscere il ruolo propulsivo della globalizzazione. I due approcci sono sintomatici delle trasformazioni intercorse nel quadro economico globale: mentre il programma di Bad Godesberg dava centralità alle risorse e agli strumenti dello stato nazionale, all’interno del quale i socialdemocratici riuscirono ad affermarsi, oggi la globalizzazione delinea invece uno scenario molto diverso in Europa, in cui gli Stati sono visti come al servizio dell’economia. Ne è conseguito, per richiamare la tesi convincente di un libro di Giuseppe Berta, che la socialdemocrazia ha smarrito la sua capacità di proporsi come ostacolo agli effetti più distruttivi del capitalismo in una fase in cui, peraltro, gli effetti iniziavano a presentarsi con forza, lasciando sul campo delle conseguenze estremamente negative in termini di deindustrializzazione e di frammentazione sociale.
Oltre a profondi impatti sulla società e sull’economia, la fine dell’età dell’oro ha ovviamente avuto lunghe influenze anche sulla forma partito, un’altra delle voci fondamentali del programma di Bad Godesberg. Nell’ottica di Giovanni Scirocco, lo sviluppo del benessere e l’inizio del rallentamento dell’economia ebbe delle ricadute negative sulle capacità propositive dei partiti socialisti. Anche se per Edgard Morin la dimensione del conflitto iniziò ad essere attenuata già a partire dalla fine degli anni Sessanta proprio a causa del nuovo benessere diffuso, la storia ci insegna che furono i socialisti ad iniziare ad uscire, in maniera lenta e progressiva, dai contesti conflittuali, iniziando a proporsi sulla scena politica come forze politiche di fatto tutrici dello status quo o, al massimo, di piccoli miglioramenti delimitati.
In questo senso, sarebbe scorretto far risalire le difficoltà dei partiti socialisti attuali alla caratterizzazione odierna dell’economia e della società: per Scirocco, le difficoltà si palesarono quando i partiti socialisti misero da parte la progettualità di lungo periodo, abbracciando di fatto politiche di corto respiro. Avendo abdicato a questa funzione ed essendosi proposti sulla scena come tutori dello status quo, i socialisti diventarono così le prime vittime della crisi e non solo perché ne subirono le conseguenze economiche.
La centralità del tema del conflitto
Alla luce del quadro attuale, un quadro disarticolato sul piano economico e sociale rispetto ai trenta gloriosi, il conflitto sta tornando ad avere una nuova centralità. Per i socialisti, che comunque provengono da Marx e Proudhon, il tema e la pratica del conflitto per porre rimedio alle sfide odierne non può rappresentare un problema, come riconosciuto da Nicola Del Corno. Pur in assenza di una soggettività politica capace di rifare propria la dimensione del conflitto, un aspetto rilevato da Maria Grazia Meriggi, dopo gli anni del compromesso, della mediazione e della “terza via”, per riassumere quella dimensione, la socialdemocrazia deve anzitutto sciogliere il dilemma legato alla metodologia del conflitto da sostenere. Un passaggio propedeutico dovrebbe comunque verificarsi anche nel semplice riconoscimento del conflitto come istanza cui non rinunciare, ma anzi da riattivare. In questo senso, secondo Scirocco, i bonus, che non hanno l’obiettivo di porre rimedio alle diseguaglianze sempre più evidenti nelle società attuali, sono da considerare l’espressione massima della negazione del conflitto. O meglio, i bonus, lungi dall’avere effetti prolungati, alla fine possono essere equiparati a piccoli tentativi di rendere meno complicata una determinata situazione, anche con il fine non secondario di ridurre la conflittualità sociale: è certamente così per i bonus finalizzati a ridurre le spese più gravose ed impattanti che segnano la quotidianità (per esempio il bonus energia), ma forse anche per i famosi 80 euro.
Ma se i socialisti, spiega Ricciardi, intendono effettivamente mettere al centro del loro agire l’abbattimento delle diseguaglianze la logica dei bonus, che di fatto cristallizza le diseguaglianze, deve lasciare spazio alla logica del conflitto, capendo che un passaggio fondamentale risiede nel ritornare nei luoghi in cui i conflitti esplodono, anche con forza. Farlo non significherebbe abbracciare le istanze del populismo, bensì provare a riconoscere i problemi sul campo e a dargli voce e rappresentanza politica.
In questo senso, il conflitto, per Alessandro Coppola, potrebbe riguardare, in una città come Milano così come in altri contesti urbani europei oppure negli Stati Uniti, le politiche abitative: anziché timori reverenziali nei confronti di un qualsivoglia intervento sulla proprietà, i partiti socialdemocratici dovrebbero mettere al centro questo tipo di problematica, ovviamente partendo da un’analisi delle attuali condizioni della proprietà, che sono estremamente diversificate e variegate.
Le linee di una socialdemocrazia radicale per tempi radicali
Alla luce del quadro attuale e delle sue peculiarità che lo differenziano rispetto ai trenta gloriosi, quali temi possono costituire i nuovi assi attorno cui costruire una rinnovata agenda socialdemocratica? Innanzitutto, per la socialdemocrazia una premessa all’azione vera e propria deve passare dal riconnettersi con le istanze e con i bisogni del mondo del lavoro che, come precisato da Fabio Ferrarini, oggi è frammentato e che presenta sfaccettature e tensioni ben diverse rispetto a quelle che segnavano la quotidianità della Spd e delle altre forze socialdemocratiche nel corso del secondo dopoguerra. Ciò è ancora più vero se si considerano gli impatti della tecnologia anche sui lavori avanzati, il settore bancario su tutti.
Muovendo da questo scenario profondamente rinnovato, anche in coerenza con l’approccio empirico forgiato in occasione della formulazione del programma di Bad Godesberg, la socialdemocrazia europea deve sforzarsi di orientare la sua proposta programmatica sulla base delle priorità e delle emergenze attuali.
Secondo Matteo Jessoula, si tratta dunque di muovere da due urgenze. In primo luogo, la condizione di povertà che segna un terzo per cento dei minori. In Italia, dove la quota di minori a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 30,6%, il dato è ben peggiore rispetto alla media europea del 24%, e di altri paesi, come il il 22,9% della Francia, il 21,9% del Portogallo, il 17,3% della Germania, il 15,2% dell’Olanda. Addirittura, nella fascia d’età 0-5 anni solo Bulgaria (31,6%) e Romania (30,8%) hanno tassi appena superiori a quelli dell’Italia (30,6%). Ciò dimostra, in filigrana, l’inefficacia delle misure progettate negli ultimi dieci anni a sostegno delle famiglie più esposte. La seconda corrisponde ai servizi per la prima infanzia, un settore in cui l’Italia è in forte ritardo rispetto agli altri paesi europei: la spesa pubblica è pari allo 0,2% del Pil, mentre la media europea è dello 0,8%. Nondimeno, l’accesso ai servizi della prima infanzia in Italia sia tra i meno inclusivi in Europa: solo il 18 % dei bambini provenienti da famiglie con bassi livelli di reddito accede ai servizi socio-educativi, contro il 32% di Spagna e Olanda e il 50% di Svezia e Danimarca.
Per invertire questo trend, nell’ottica di Jessoula basterebbe leggere integralmente le direttive dell’Unione europea, che non si concentrano soltanto sul contenimento dei costi, ma anche sulla riorganizzazione della spesa in senso maggiormente redistributivo sia in termini di servizi che di ampliamento e miglioramento del welfare. L’agenda socialdemocratica deve accogliere questa prospettiva, anche in considerazione di una ristrutturazione organica sul fronte delle prestazioni da fornire. Per renderla sostenibile e dunque effettivamente realizzabile, suggerisce ancora Matteo Jessoula, i partiti d’ispirazione socialdemocratica dovrebbero attenersi con maggiore attenzione alle indicazioni della Banca Mondiale: in luogo dei contributi sociali, l’attenzione deve essere posta sul necessario affinamento dei meccanismi di fiscalità generale.
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Nell’Europa di oggi, secondo Matteo Jessoula, i margini per nuove politiche sociali di stampo socialdemocratico sono costretti ma ampi.
Un’altra via da percorrere per restituire protagonismo politico alla socialdemocrazia europea nei tempi odierni deve passare dal contrasto di alcuni propositi economici universalmente accettati. A detta di Paolo Borioni, infatti, la riforma del capitalismo deve essere riposta al centro del discorso politico socialdemocratico, richiamandosi così alla classica lezione di Eduard Bernstein. Un esempio può essere il Green New Deal messo a punto dalla Confederazione dei Sindacati Tedeschi (DGB) nel 2013, la cui difficoltà nell’essere realizzato è sintomatica delle complicazioni incontrate dalla socialdemocrazia nel realizzare progetti di riforma legati alla mediazione del conflitto: il compromesso tra capitale e lavoro, così come quello tra esportazione ed importazione, deve essere riattivato alla luce delle esigenze anzitutto interne. Così facendo, verrebbero riorganizzati politicamente i diversi ceti sociali interessati da questi progetti di riforma. A ben vedere, sarebbe un modo di fare profitto diverso dal fare sfruttamento, ma finalizzato a riequilibrare le società sul fronte interno, senza così essere sottoposte ai meccanismi anche distruttivi del capitalismo attuale.
Un’altra soluzione può passare dal colmare i due vuoti invece presenti nel programma di Bad Godesberg, come sostenuto da Di Donato. Prima di tutto la stabilità monetaria, che genera tante preoccupazioni in Europa. In secondo luogo, il controllo dei flussi di capitali. Entrambi tutelati nel ‘59 dal sistema di Bretton Woods ed entrambi invece oggetto di discussione e di intervento politico nel mondo diretto di oggi. Il primato della politica sull’economia passa giocoforza dalla presa in carico di questi due aspetti, che non possono essere sottovalutati dalle socialdemocrazie. Di conseguenza, le socialdemocrazie non possono limitarsi a proporre un cosmopolitismo liberale alla Macron. Paradossalmente, una delle assenze principali in questa epoca di globalizzazione è quella di un discorso internazionalista proveniente dalle sinistre europee: una sfida sta proprio nella riattivazione di una pratica internazionalista, laddove per internazionalismo si intende una connessione politica e sentimentale non episodica, ma strutturata tra le vicende nazionali e quelle internazionali.
L’obiettivo deve essere quello di costruire una valida alternativa tra adesione acritica alle istituzioni internazionali esistenti, comprese quelle europee, e ripiegamento nazionale e nazionalista.
In sostanza, fare i conti con le urgenze delineate e mettere in campo le soluzioni ipotizzate consentirebbe, chiosa Scirocco richiamandosi alla lezione di Carlo Rosselli, alla socialdemocrazia di ragionare in termini di arcaismo, ossia libertà dal bisogno, e di utopismo, ossia libertà di immaginare qualcosa.
19 novembre 1969. La battaglia contro lo sfruttamento oltre la fabbrica
L’articolo fa parte della Rassegna A cinquant’anni dallo sciopero nazionale per il diritto alla casa
CGIL CISL e UIL nel corso dell’autunno già caldo per le vertenze legate ai rinnovi contrattuali promuovono una serie di scioperi articolati ‘per le riforme’ e in particolare per una modifica radicale delle politiche abitative. L’obiettivo è quello di trasformare la casa in un servizio sociale sottraendola alle logiche di puro profitto per assicurare a tutti i cittadini condizioni abitative adeguate ad un livello civile di vita collettiva.[1]
La spinta alla mobilitazione arrivava certamente dalle fabbriche ma anche dai territori dove si erano sviluppate forti lotte spontanee che spesso né le strutture sindacali né i partiti della sinistra tradizionale erano state in grado di organizzare e dirigere.
A Milano il problema della casa era drammatico. Migliaia di lavoratori giunti dalle campagne e dal sud attratti dalle grandi fabbriche trovavano affitti inaccessibili o sistemazioni precarie in condizioni di degrado; i ceti popolari erano espulsi dal centro storico in seguito alla prima grande ‘rigenerazione urbana’ fatta di demolizioni e sfratti; migliaia di proletari vivevano ammassati in quartieri dormitorio, costruiti frettolosamente e senza i minimi servizi. I bisogni immediati di queste famiglie si stavano saldando con la nuova consapevolezza politica espressa dai movimenti giovanili e con il rinato protagonismo operaio.
Il 19 novembre l’Italia si ferma. Milioni di lavoratori in sciopero vogliono modificare i rapporti di potere anche fuori dalla fabbrica consapevoli che se questi non si modificano le stesse conquiste contrattuali e aziendali rischiano di essere riassorbite.[2]
Anche a Milano la mobilitazione ha un indubbio successo. Ma ha un epilogo tragico. Al termine del comizio tenuto all’interno del Teatro Lirico la polizia interviene in modo violento per disperdere un corteo, in quel momento pacifico, di dimostranti della sinistra extraparlamentare che si stava unendo ai lavoratori in uscita dal teatro[3]. Nel buio generato dai gas lacrimogeni resterà ucciso l’agente di polizia Antonio Annarumma. Le circostanze della morte non furono mai chiarite ma questo episodio diede l’occasione alle destre per attaccare in modo violento il movimento sindacale. Attacchi verbali nelle dichiarazioni di alcuni esponenti del governo e nei titoli di giornale ma anche vere e proprie azioni squadriste effettuate dai fascisti nel giorno del funerale dell’agente. Solo ventitré giorni dopo, il 12 dicembre, parole e azioni simili saranno portate alla massima potenza.
Facciamo però un passo indietro: per provare ad analizzare le lotte che diedero la spinta alla mobilitazione generale del 19 novembre proviamo a concentrarci su un caso specifico.
Gennaio 1968, Quarto Oggiaro. Il quartiere, composto in gran parte da edilizia pubblica, negli anni 60 aveva vissuto uno sviluppo demografico impressionante: dai 7.232 abitanti censiti nel 1959 ai 60.000 del 1969. La composizione della popolazione era il frutto della logica di segregazione sociale attuata dallo IACP con l’offerta differenziata di alloggi (tramite il valore dei canoni e i criteri di selezione) nei diversi quartieri periferici[4]: operai non specializzati, pensionati a basso reddito, piccoli esercenti, precari. Gli abitanti provenivano prevalentemente da altre regioni italiane, in modo particolare dal Meridione, e in misura minore da altre quartieri più centrali di Milano, come conseguenza di sfratti o abbattimenti di stabili.
In seguito all’ aumento dell’affitto e delle spese da parte dello IACP, il 14 gennaio ‘68 l’assemblea degli inquilini, contro le indicazioni delll’APICEP (Associazione Provinciale Inquilini Case di Edilizia Pubblica) dove operano anche i rappresentanti dei partiti di sinistra (PCI e PSIUP), avvia uno sciopero dell’affitto ad oltranza con la richiesta di mantenere il valore dell’affitto al 10% del reddito del capofamiglia[5]. Dal primo Comitato di Agitazione nascerà in breve tempo l’Unione Inquilini che riuscirà a intercettare bisogni e pratiche già maturi “dando pubblicità ad un comportamento sino ad allora “clandestino” e trasformandolo in una parola d’ordine semplice e chiara”[6].
La lotta proseguirà estendendo le proprie rivendicazioni alle necessità degli abitanti di servizi e spazi sociali e alla democratizzazione dell’IACP. Il movimento dovrà presto affrontare la repressione, organizzerà l’opposizione di massa agli sfratti e il sostegno alle occupazioni di alloggi sfitti, e a volte di interi stabili, da parte di sfrattati e famiglie senza casa. Pur senza riconoscimenti ufficiali da parte delle istituzioni gli inquilini in sciopero otterrà la sospensione degli sfratti e la proposta di alloggi agli occupanti.
Nel frattempo, dopo la fiammata dello sciopero generale, la battaglia per le riforme delle organizzazioni sindacali si era spostata principalmente sul terreno della contrattazione con il governo rinunciando alla mobilitazione generale dei lavoratori.
Certamente i risultati della contrattazione non furono marginali. Il 22 ottobre 1971, dopo due anni di incontri e modifiche che limitarono di molto la portata delle rivendicazioni sindacali, viene votata la legge di Riforma della Casa: viene istituita l’Edilizia Residenziale Pubblica inserendo il comparto nel sistema dello stato sociale e vengono varate le norme sulla espropriazione per pubblica utilità. Pochi anni dopo, nel 1978, sarà approvato l’Equo Canone che, sebbene non fosse quello richiesto dalle mobilitazioni sindacali, sottrae la determinazione dell’affitto alla pura volontà della Proprietà. Dopo l’autunno caldo però l’intervento sindacale non riuscirà più a intercettare nello stesso modo le istanze dei quartieri popolari rinunciando troppo presto a “uscire dalla fabbrica”.
Per rileggere oggi la mobilitazione di 50 anni fa proviamo ora a utilizzare tre immagini.
La prima. BASTA RAZZISMO CASE POPOLARI A PREZZI POPOLARI[7] è scritto sul cartello portato da una giovane lavoratrice: non possiamo non pensare oggi alle leggi discriminatorie che cercano di limitare l’accesso all’edilizia popolare ai cittadini stranieri. In questi giorni si avvia a Milano l’attuazione della nuova legge regionale che premia con punteggi determinanti i cittadini residenti in Regione da più di 15 anni e nel comune da più di 10 limitando nel contempo l’accesso delle famiglie definite “indigenti” ad una quota massima del 20%.[8] Una doppia discriminazione dunque, nei confronti dei cittadini stranieri in particolare e comunque nei confronti di tutti i cittadini poveri.
La seconda. Emerge un cartello scritto a mano tra la folla radunata fuori dal Teatro Lirico: SALARIO 100.000 AFFITTO 40.000. CON COSA MANGIAMO?[9] A Milano oggi gli affitti continuano a aumentare. Si stima che siano saliti del 10% solo nell’ultimo anno. L’incidenza del costo casa rispetto al reddito supera ormai nella maggioranza dei casi il 50%. La domanda posta nel cartello nel 1969 è quindi oggi ancora più attuale. E la risposta sta negli ultimi dati diffusi dal Ministero dell’interno: nel 2018 a Milano sono stati eseguiti 2.845 sfratti, il 90% per morosità.
La terza immagine riprende invece molti operai che portano uno striscione: LA CASA NON È UN LUSSO MA UN BENE INDISPENSABILE [10]. Di fronte alla completa liberalizzazione del mercato degli affitti e ai processi di dismissione del patrimonio di case pubbliche negli ultimi 20 anni il movimento sindacale è stato spesso assente e a volte anche direttamente responsabile. Non vi è stata la capacità di contrastare l’assunto per cui l’alloggio non è altro che un bene da cui il proprietario ha il legittimo diritto di ottenere il massimo profitto possibile e ci si è affidati alle presunte virtù regolatrici del mercato rinunciando nei fatti alla rappresentanza della parte di popolazione esclusa dal diritto alla casa.
Se oggi la fabbrica del 1969 da cui partire per estendere la battaglia non esiste più, continua ad esistere quel fuori richiamato nel manifesto di convocazione dello sciopero generale e continua ad esistere lo sfruttamento. I quartieri sono ancora popolati da migliaia di persone e famiglie cui è negato il diritto ad una casa e ad un abitare dignitoso, anche se spesso sono “invisibili” ai media ed alle istituzioni. La città è attraversata, anche se in modo discontinuo e disorganico, da varie forme di resistenza: mobilitazioni per chiedere al Comune risposte concrete per le famiglie sfrattate, iniziative di quartiere per ottenere la riduzione degli affitti, opposizioni agli sfratti e agli sgomberi, momenti di denuncia contro le politiche discriminatorie, richieste di intervento perché siano garantite condizioni di vita dignitose nei quartieri popolari. Da fuori la battaglia può ancora ripartire.
[1] Le indicazioni della CGIL, della CISL e della UIL per una politica organica della casa, 24 settembre 1969. Il Testo integrale del documento in Lo spreco edilizio, a cura di Francesco Indovina, Marsilio Editori, 1972.
[2]Dal Testo del manifesto dello sciopero generale unitario del 19 novembre 1969 in Achilli, Casa Vertenza di massa, Marsilio Editori, 1972
[3] Vedi Sergio Turone, Storia del Sindacato Italiano, Editori Laterza, 1998.
[4] Mario Boffi, Stefano Cofini, Alberto Giasanti, Enzo Mingione, Città e conflitto sociale, Feltrinelli, 1972.
[5] Vedi Francesco Di Caccia, La questione urbana. Storia dell’Unione Inquilini, Feltrinelli,1974
[6] Testimonianza di Giuseppe Zambon, primo dirigente dell’Unione Inquilini
[7] http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-2w020-0002444/
[8] Per un approfondimento della norma: http://sbilanciamoci.info/modello-welfare-abitativo-lombardo-opportunita/
[9] http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-2w020-0004681/
[10] http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-2w020-0002443/
Assistere chi ha bisogno: tutele e risposte territoriali
Nell’ambito del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali promosso nel 2017 l’Unione Europea ha ribadito la necessità di rinnovare i sistemi di welfare per realizzare risposte efficaci ai nuovi rischi e bisogni sociali, ricorrendo a soluzioni e strategie di innovazione sociale. L’obiettivo è la trasformazione del welfare state per migliorare la resilienza dei beneficiari aumentando le loro capacità e facilitando il loro accesso alle risorse con l’obiettivo di favorire l’empowerment delle persone e insieme della società nel suo complesso.
Sarebbe auspicabile, oltre che urgente, che l’Italia imboccasse la strada dell’innovazione sociale con riferimento in particolare all’ambito della non autosufficienza. Siamo uno dei Paesi più longevi al mondo, ma la qualità della vita in termini di buona salute e/o limitazioni funzionali non è altrettanto buona. La risposta sia pubblica che privata continua ad essere caratterizzata da una mancanza di progettualità e inadeguata sotto il profilo qualitativo e quantitativo, mostrando per entrambi i settori le medesime criticità: prevalenza di erogazioni monetarie (indennità di accompagnamento per il pubblico, rendite per il privato) senza controllo ex-post circa l’utilizzo delle risorse; frammentazione degli interventi con conseguente disorganizzazione gestionale, rischio di inappropriatezza delle prestazioni e dispersione delle risorse; limitazione delle coperture private ai lavoratori dipendenti durante il periodo di attività (nella maggioranza dei casi la copertura viene meno con la vecchiaia e il pensionamento, quando il rischio è crescente).
In assenza di misure di sostegno e di una adeguata strategia, le famiglie si trovano così costrette a farsi totalmente carico dell’onere organizzativo dell’assistenza, ma anche in gran parte di quello economico. La scelta prevalente è quella della domiciliarità, basata essenzialmente sull’aiuto informale prestato dai familiari e dalla figura del/la badante, accompagnata da un ricorso contenuto alla residenzialità.
In questo contesto sembra oggi esserci una crescente convergenza sulla necessità di un cambiamento deciso nella governance della copertura per la non autosufficienza, incentrato su tre assi portanti: la centralità della persona e della sua famiglia; l’importanza del percorso di presa in carico del soggetto non autosufficiente rispetto alla singola prestazione, abbandonando la logica della progettazione per settori che ancora caratterizza la LTC (Long Term Care) e si basa sulla distinzione fra prestazioni sanitarie e sociali, su budget differenziati, sull’erogazione non coordinata e non efficace delle diverse prestazioni; la messa a sistema di tutte le risorse disponibili, sia in tema di finanziamento, sia in tema di organizzazione dell’erogazione delle prestazioni.
Un nuovo sistema per la non autosufficienza deve considerare l’integrazione socio-sanitaria, la continuità assistenziale e la sostenibilità nel tempo come elementi fondamentali di qualsiasi intervento.Tale sistema dovrebbe quindi operare per favorire la comunicazione, il collegamento e l’integrazione tra tutti i servizi e gli sportelli esistenti, evitando sovrapposizioni tra interventi e puntando all’ottimizzazione delle risorse. I servizi da coinvolgere per favorire una presa in carico integrata e continuativa sono in particolare l’ospedale, le ASL e i MMG, che rappresentano i principali presidi sanitari a livello locale. Ma anche gli enti locali che si sono dotati negli ultimi anni di moltissimi servizi e sportelli informativi per stranieri e per anziani e di punti di accoglienza per esigenze socio-sanitarie. Così come sono numerosi i soggetti privati e del privato sociale attivi sul fronte LTC.
La questione dell’integrazione tra servizi e iniziative chiama quindi in causa il più ampio tema delle reti e del coinvolgimento degli stakeholder. Il sistema attuale può trovare nel coinvolgimento di attori del secondo welfare nuove opportunità in termini di risorse e progettualità. Particolare attenzione deve essere rivolta innanzitutto a favorire la partecipazione di partner quali Regione, enti locali ed enti gestori delle funzioni socio-assistenziali, Agenzie per il lavoro, CPI, soggetti del Terzo Settore che erogano servizi nell’ambito della cura e dell’assistenza. Devono però essere stimolati a partecipare ai nuovi interventi anche nuovi attori come le Fondazioni di origine bancaria o di impresa, che possiedono importanti competenze progettuali; imprese e rappresentanze datoriali e sindacali, che possono essere coinvolte nella progettazione di iniziative di welfare aziendale e territoriale; CAF e patronati, che possono garantire alle persone e alle famiglie un supporto qualificato in ambito burocratico e amministrativo; l’associazionismo, che rappresenta una ricchezza (sebbene non omogeneamente distribuita sul territorio nazionale) in grado di fornire contributi significativi all’implementazione di interventi rivolti alle assistenti familiari e più in generale progetto di welfare comunitario.
Progetti innovativi sul tema della non autosufficienza, che sposano la logica dell’integrazione dei diversi sistemi (sanitario, sociale e solidale) di offerta di servizi con una governance unitaria di assistenza, esistono già a livello territoriale e stanno contribuendo ad alimentare quel cambio di paradigma necessario per ripensare profondamente il sistema di copertura per la non autosufficienza. L’attivazione di reti multi-attore consentirebbe inoltre di superare il problema di assicurare cure e assistenza a coloro che non rientrano nel mercato del lavoro (ad esempio, le casalinghe) o ne sono usciti (gli attuali pensionati), generalmente esclusi dalle coperture a carattere negoziale, ma anche ai lavoratori per i quali non siano stati attivati accordi di copertura.
Il ruolo delle reti territoriali si articolerebbe su più fronti. Il primo, più ovvio, è quello di fornitore dei servizi pubblici. Ma le reti territoriali potrebbero qualificarsi anche come erogatori di prestazioni che vadano oltre quelle previste dall’intervento pubblico. Si pensi alla creazione di reti di servizi socio-assistenziali promosse da fondi pensione, fondi sanitari o attraverso i piani di welfare aziendale che potrebbero ampliare l’ambito di mutualizzazione del rischio LTC consentendo l’accesso alla copertura, con compartecipazioni ragionevoli e sostenibili, anche alle categorie non comprese fra i diretti destinatari della copertura collettiva ma residenti sul territorio in cui opera la rete stessa.