Lavoro e società
Capitolo 5
Il linguaggio delle immagini
Nella pubblicistica operaia e sindacale novecentesca, a partire dai giornali dell’Industrial Workers of the World di inizio secolo, vignette e caricature hanno sempre avuto un posto di rilievo: una classe operaia etnicamente e linguisticamente composita riceveva una parte dei suoi messaggi politici attraverso la semplificazione e la sintesi delle immagini. Rappresentazioni del lavoro che sembrano trasportate di peso dalla grafica Art decò degli anni Trenta europei (San José Maverick) coesistono con disegni graficamente complessi (America the beautiful, Door), caricature (il ricco grasso e avaro che saluta da nazifascista la sua bandiera, il dollaro, Movement) e elaborazioni grafiche floreali (Radicals in professions, Radical education project) che provengono direttamente dalla pubblicistica underground. Non manca il ricorso alla simbologia più tradizionale: qui, il martello del lavoro che schiaccia il capitale sull’incudine della classe operaia, su uno squillante fondo rosso; altrove i pugni chiusi e le bandiere rosse.
I nuovi ideali
Le novità sono l’opposizione alla guerra (a cui il movimento sindacale arriva solo a fine decennio); l’attenzione per i temi ambientali (le malattie prodotte dal lavoro in fabbrica, Wildcat); gli effetti nefasti del consumismo, la solidarietà del lavoro, la preoccupazione per l’ambiente, che ritroviamo in una sintesi graficamente efficacissima in una delle più famose copertine di Ramparts.
Guarda la photogallery
Anche la stampa – sia undeground che di fabbrica – dedicata al tema del lavoro e dello sfruttamento operaio ha una vasta diffusione tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70.
Le immagini proposte di seguito sono tra le più rappresentative e mostrano anche quali visioni e ideologie guidavano la critica e la protesta: l’anticapitalismo, la dignità dei lavoratori, il pacifismo e anche un avanguardistico ambientalismo.
Approfondisci
dal sito di Fondazione G. Feltrinelli
I giornali di fabbrica
Un estratto dall’omonimo articolo di
Spartaco Puttini, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Il giornale di fabbrica fa parte dei fermenti che interessano il mondo operaio e sindacale, funge da organo di propaganda, strumento di formazione, di informazione, ma anche di rete, di lettura, di conoscenza e di discussione.
Questo strumento rappresentava la voce del mondo del lavoro e nasceva dal vivo delle vertenze e delle rivendicazioni che si sprigionavano nelle fabbriche e ha rappresentato, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, attraversando fasi e traiettorie diverse, un documento essenziale per capire sentimenti, esigenze e aspettative dei lavoratori.
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli conserva nei suoi archivi un corpus documentale significativo di queste importantissime fonti.
A partire dagli anni Cinquanta, i giornali di fabbrica si affermano come elemento di coagulo per rafforzare l’unità operaia e sindacale. Da questo momento, alle tematiche economiche si affiancano riflessioni sulla politica e sindacato e perfino articoli a scopo culturale e ricreativo. Il fenomeno si impose a tal punto che nel 1953 ricevette un riconoscimento ufficiale presso la sede dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti.
Attraverso questi periodici è possibile cogliere le aspirazioni, gli ideali dei lavoratori che si esprimevano con un linguaggio chiaro e diretto. Notizie sui cottimi, gli straordinari, i salari, gli incidenti, i rapporti coi tecnici, con gli impiegati e con la direzione rappresentano una fonte documentale su quel mondo, proveniente da quel mondo, tanto rilevante da essere paragonata ai Cahiers de doléances. Inoltre dalla lettura di questi fogli traspare una “mentalità di produttori”, di chi non si limitava a lottare per strappare condizioni di vita e di lavoro migliori ma, con le proprie proposte, poneva in qualche modo la propria candidatura alla direzione economica dell’azienda e, in prospettiva, del paese.
A metà anni Sessanta la nuova stampa operaia fiorisce in un contesto ormai rinnovato, caratterizzato da un maggior livello di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori sia alla vita dell’azienda sia alla società e alla politica italiana. Anche per questo nei giornali di fabbrica degli anni Sessanta e Settanta si nota un linguaggio più diretto e immediato, forte di un ruolo nuovo e più solido degli operai dentro e oltre la fabbrica.
Scarica il catalogo tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Sfoglia la photogallery
Di seguito una photogallery con alcune delle testate dei giornali di fabbrica presenti nella collezione della Fondazione.
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diri
I giornali di fabbrica
Il “lungo autunno”: le lotte operaie degli anni settanta
Il lavoro in scena dentro e oltre la fabbrica
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
I giornali di fabbrica
Il giornale di fabbrica fa parte dei fermenti che interessano il mondo operaio e sindacale, funge da organo di propaganda, strumento di formazione, di informazione, ma anche di rete, di lettura, di conoscenza e di discussione.
Questo strumento rappresentava la voce del mondo del lavoro e nasceva dal vivo delle vertenze e delle rivendicazioni che si sprigionavano nelle fabbriche e ha rappresentato, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, attraversando fasi e traiettorie diverse, un documento essenziale per capire sentimenti, esigenze e aspettative dei lavoratori.
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli conserva nei suoi archivi un corpus documentale significativo di queste importantissime fonti.
A partire dagli anni Cinquanta, i giornali di fabbrica si affermano come elemento di coagulo per rafforzare l’unità operaia e sindacale. Da questo momento, alle tematiche economiche si affiancano riflessioni sulla politica e sindacato e perfino articoli a scopo culturale e ricreativo. Il fenomeno si impose a tal punto che nel 1953 ricevette un riconoscimento ufficiale presso la sede dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti.
Attraverso questi periodici è possibile cogliere le aspirazioni, gli ideali dei lavoratori che si esprimevano con un linguaggio chiaro e diretto. Notizie sui cottimi, gli straordinari, i salari, gli incidenti, i rapporti coi tecnici, con gli impiegati e con la direzione rappresentano una fonte documentale su quel mondo, proveniente da quel mondo, tanto rilevante da essere paragonata ai Cahiers de doléances. Inoltre dalla lettura di questi fogli traspare una “mentalità di produttori”, di chi non si limitava a lottare per strappare condizioni di vita e di lavoro migliori ma, con le proprie proposte, poneva in qualche modo la propria candidatura alla direzione economica dell’azienda e, in prospettiva, del paese.
A metà anni Sessanta la nuova stampa operaia fiorisce in un contesto ormai rinnovato, caratterizzato da un maggior livello di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori sia alla vita dell’azienda sia alla società e alla politica italiana. Anche per questo nei giornali di fabbrica degli anni Sessanta e Settanta si nota un linguaggio più diretto e immediato, forte di un ruolo nuovo e più solido degli operai dentro e oltre la fabbrica.
I bollettini dei Consigli di Fabbrica che allora iniziano a proliferare vengono prodotti a caldo, dalla lotta sul campo e testimoniano più dei bollettini sindacali d’un tempo di essere espressione diretta dell’iniziativa dei lavoratori in fabbrica. È la stessa natura del consiglio, “che è rappresentante diretto di tutti i lavoratori occupati in un’azienda che è quotidianamente e direttamente esposto ai successi e ai contraccolpi di una situazione conflittuale, che dà al suo giornale un carattere d’immediatezza nel rispecchiare, oltre che gli avvenimenti, le tendenze, le discussioni, i rapporti interni alla fabbrica”.
Emerge in questo senso l’interesse degli operai verso tutti quegli aspetti della «condizione dei lavoratori» che rendono «chiara ed evidente» la “realtà di classe”, come annuncia l’editoriale del primo numero dell’Organo del consiglio unitario dei delegati Enel della zona di Milano del maggio 1972, intitolato appunto «Realtà di Classe». Queste pagine si spingono ad affrontare altre tematiche che guardano più in generale la realtà politica o il territorio di riferimento e i suoi servizi sociali. Basta leggere l’articolo su “Scuola di classe e libri di testo” nel secondo numero di «Realtà di Classe».
Il processo di deindustrializzazione che avrebbe interessato l’Italia a partire dagli anni Settanta segna la trasformazione profonda di quell’esperienza e l’inizio delle metamorfosi del mondo del lavoro e delle forme della partecipazione dei lavoratori – alla loro azienda e anche alla vita pubblica – e anche alla vita pubblica, che avrebbe segnato la fine della centralità di questi strumenti nella fabbrica e nella politica degli anni Ottanta.
Scarica il catalogo tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Sfoglia la photogallery
Di seguito una photogallery con alcune delle testate dei giornali di fabbrica presenti nella collezione della Fondazione.
Il “lungo autunno”: le lotte operaie degli anni settanta
Descrizione dell’ebook
Sergio Bologna propone di leggere gli anni ’60 e ’70 come snodo fondamentale, non solo del movimento operaio, ma anche della storia economica e industriale di questo Paese.
L’idea è considerare il periodo che va dal 1960 a 1985 (anno del referendum sulla scala mobile) come un unico periodo di ascesa verso i moti del ’68-69 – l’inizio del “lungo autunno”, appunto – e discesa verso la nascita del “sindacato dei diritti” (per riprendere un’espressione di Bruno Trentin); quel sindacato, cioè, che si preoccuperà di tutelare il lavoro subordinato e a tempo indeterminato, trascurando tutte le altre tipologie.
Se per molti gli anni settanta sono gli “anni di piombo”, Bologna propone di guardare a quell’epoca come la stagione del coronamento di un ciclo storico: quello della trasformazione della società tramite l’emancipazione della classe operaia e il mutare dei rapporti di potere sul luogo di lavoro. Si è trattato di mettere in gioco valori morali e condizioni materiali che andavano oltre le relazioni industriali perché investivano l’intera società.
Perché l’Italia, pur tra le prime potenze economiche mondiali, sembra essere destinata, dopo la crisi del 2008, a un declino irreversibile e al peggioramento costante delle condizioni di lavoro? Da dove bisogna ripartire perché si possa andare verso una nuova riscossa? Capire oggi quegli anni è fondamentale per comprendere cosa è avvenuto dopo.
Conosci l’autore
Sergio Bologna (Trieste, 1937) si occupa principalmente di storia del movimento operaio. Dopo aver insegnato in varie Università italiane e tedesche, si dedica, espulso dall’Università, all’attività di consulenza. Nel 1964, dopo essere entrato nella cerchia dei “Quaderni Rossi”, è tra i fondatori di “Classe Operaia” e inizia una lunga collaborazione con i “Quaderni piacentini”. Nel 1967, pubblica, con Feltrinelli, la sua tesi di laurea con il titolo La chiesa confessante sotto il nazismo, 1933-1936. Negli stessi anni, dopo una breve esperienza lavorativa presso la Olivetti, ottiene un incarico all’Università di Trento. Contemporaneamente si dedica ai movimenti di protesta e diventa prolifico autore di testi per pubblicazioni quali “Potere operaio” o fondatore di riviste quali “La Classe” e “Primo Maggio”.
Tra le sue pubblicazioni, si segnalano Le multinazionali del mare, Vita da free lance, con D. Banfi, e Banche e crisi.
Il lavoro in scena dentro e oltre la fabbrica
1971. Elio Petri scrive la sceneggiatura e dirige La classe operaia va in paradiso, un film che per molti aspetti marca un’epoca e, soprattutto, uno stile di recitazione. Il tema è la condizione del lavoro in fabbrica, l’alienazione da lavoro, il senso del riscatto, la dignità che il ritmo del lavoro spesso aggredisce e svilisce. Lulù, il protagonista, è l’operaio prima dedito al lavoro e poi, in seguito a un incidente in cui subisce una mutilazione a una mano, indotto a riconsiderare la sua vita, il suo lavoro, il confronto con la sua doppia famiglia (prima moglie e la convivente), ma anche con il sindacato, con gli altri operai con cui non ha mai avuto un rapporto amichevole. Un film che non lascia indifferenti i molti critici già allora, come si vede dalle tre diverse opinioni – di Mino Argentieri sul settimanale Rinascita, di Alberto Moravia sul settimanale L’Espresso e di Goffredo Fofi sul periodico Quaderni piacentini – che abbiamo tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
A quasi cinquant’anni dall’uscita del film, viene da chiedersi se il 1971 sia irrimediabilmente lontano, o se viceversa qualcosa di quel mondo viva ancora nel nostro quotidiano. Rivedere Lulù – riascoltare il suo mantra “un pezzo, un culo, un pezzo, un culo, un pezzo, un culo”, con cui tiene il livello della produzione e scandisce il ritmo della sua alienazione – ci induce a domandarci: dopo quasi cinquant’anni, le cose sono cambiate? Come sono cambiate? E qualcosa, invece, è rimasto come allora?
1971. Alberto Moravia su L’Espresso
Scarica la fonte
1971. Mino Argentieri su Rinascita
Scarica la fonte
1917. Goffredo Fofi su Quaderni piacentini
Scarica la fonte