Il Vietnam
Capitolo 4
Contro la guerra
Tra il 1965 e l’inizio del 1973, quando avvenne il ritiro statunitense dal Vietnam, l’opposizione alla guerra fu il tema in assoluto più condiviso e unificante per tutte le componenti del Movement. Non c’è foglio della stampa underground (qui: Quicksilver Times di Washington, Chicago Seed, The Great Speckled Bird di Atlanta, Hundred Flowers di Minneapolis), delle riviste radicali-pacifiste (Liberation) o pacifiste-femministe (Win), che non abbia dedicato alla guerra sia copertine, sia disegni e fotografie a illustrazione degli articoli al suo interno.
I temi pacifisti
Ciascuna rivista utilizza la sua impostazione grafica e, di volta in volta, individua un sotto-tema o episodio su cui puntare l’attenzione: le donne vietnamite combattenti, il massacro di Song My (o My Lai, dove i soldati statunitensi uccisero più di 300 civili inermi nel marzo 1968), il sostegno ai disertori, gli scarponi “vuoti” (poi adottati, insieme con il fucile piantato a terra e l’elmetto appoggiato sul suo calcio, come simbolo dei caduti americani nei monumenti alla loro memoria).
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Il percorso espositivo proposto di seguito è interamente dedicato alla protesta contro la guerra in Vietnam così come si manifesta nella pubblicistica underground americana dell’epoca. Il materiale, tratto sempre dall’archivio della Fondazione, riproduce soprattutto immagini satiriche o iconiche, in grado di colpire istantaneamente l’immaginario del lettore, chiamato a riflettere e opporsi a quella che viene considerata una follia sanguinaria.
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Un frammento del ’68
La disobbedienza civile nasce dagli ideali da affermare e non dagli interessi da difendere
La Grande Trasformazione della guerra contemporanea
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Crisi, sviluppo, crescita, mobilitazione, investimento. Parole intercambiabili per descrivere un panorama in continuo mutamento. Dove siamo noi? L’economia degli ultimi cento anni ha cambiato la vita di tutti, spesso ha indotto trasferimenti di attività, di persone, di interi gruppi umani.
L’economia nel corso del Novecento ha attraversato un’epoca di radicali trasformazioni – tra progresso e sviluppo, crollo delle borse e boom economico – e ha contribuito in larga parte a rendere il Novecento “Il Secolo breve”.
Un frammento del ’68
«La dipendenza del capitalismo messicano dall’imperialismo nord americano, è camuffata sotto la maschera della “grande amicizia” del popolo messicano con gli U.S.A.; si spiega il nostro sottosviluppo attraverso la mediazione della assurda teoria dell’equilibrio dei fattori di produzione. E se la nostra borghesia narcisista proclama fieramente il suo ritmo di sviluppo, ella non è in fondo ingenua al punto tale da credere che la prosperità è al suo culmine, e la prova ne è il movimento studentesco».
Così il Consiglio Nazionale degli studenti messicani in lotta illustrava, nel settembre del 1968, in una lettera inviata agli studenti italiani, alcune delle ragioni alla base delle proteste che si stavano producendo da alcuni mesi in Messico contro il governo di Gustavo Díaz Ordaz. Da lì a pochi giorni, il 2 ottobre, si sarebbe compiuto quello che sarebbe passato alla storia come il massacro di Tlatelolco, con centinaia di manifestanti che sarebbero stati letteralmente trucidati dall’esercito mentre sfilavano pacificamente per le strade di Città del Messico. La strage sarebbe stata, appunto, la risposta del governo messicano a quel ciclo di mobilitazioni innescato dagli studenti nel luglio del ’68, ai quali si erano uniti praticamente fin da subito operai e contadini.
Gli studenti messicani socializzavano con i giovani in lotta dall’altra parte dell’Atlantico le ragioni alla base della contestazione di un governo che dimostrava una totale indifferenza nei riguardi degli enormi problemi sociali del paese, fra cui la povertà estrema e la piaga dell’analfabetismo che interessavano importanti fette della popolazione, e che aveva strumentalmente accettato di ospitare le Olimpiadi per utilizzarle come vetrina sul mondo.
Il documento, presente nell’ultimo Annale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Memory in Movement. 1968 in 2018, rappresenta una piccola testimonianza della portata globale di quel complesso di fenomeni sociali, politici e culturali generalmente indicati come «il Sessantotto».
Una fonte che ha la capacità di proiettare nel contesto storico di quella stagione, di integrare il piano locale, quello dei singoli paesi in cui questo evento si produsse, con quello di carattere, invece, globale, di far percepire le peculiarità e gli elementi comuni dei movimenti di protesta e delle istanze di un ciclo di lotta che ha visto come protagonisti soggetti fino a quel momento marginali, che hanno alzato la loro voce contemporaneamente in differenti aree del mondo. Come è stato affermato, infatti, il ‘68 fu un evento epocale di portata globale, capace di mettere fine all’epoca del generale De Gaulle in Francia e, contemporaneamente, a quella dei presidenti democratici negli Stati Uniti, di cancellare le residue speranze di un comunismo liberale nell’Europa comunista centrale e di segnare l’inizio di una nuova fase della vita politica di nazioni latinoamericane come il Messico, di produrre cambiamenti immediati in alcuni contesti e di gettare i semi di trasformazioni ben più profonde che si sarebbero registrate nel corso del decennio successivo in paesi dell’Europa Occidentale come l’Italia.
Scarica la fonte digitalizzata tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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La disobbedienza civile nasce dagli ideali da affermare e non dagli interessi da difendere
Nell’immagine, un’illustrazione della presa della Bastiglia (1789)
Nel 1789 venne redatta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e Tzvetan Todorov, come ci ricorda Giorgio Fontana, ne sottolinea il paradosso: “non è mai contemplata” infatti “la possibilità di un conflitto tra i diritti dell’uno e dell’altro”.
Cosa accade, invece, se i due diritti entrano in conflitto? Se il fatto di rispettare le leggi di uno Stato e di ottemperare ai propri diritti e doveri di cittadino finisce per contrastare con un principio che sentiamo più alto, la tensione etica a farsi carico di una vita nella sua “nuda” umanità?
La domanda ha una storia antica, che con un salto di migliaia di anni potrebbe portarci fino allo scontro tragico tra Antigone e Creonte: da un lato, le leggi non scritte degli dei e, dall’altro, la ragion di Stato.
Antigone condannata a morte da Creonte, Diotti Giuseppe, 1845
Per fermarci al Novecento, il cortocircuito tra uomo e cittadino ci riporta invece alla riflessione proposta da Hannah Arendt nelle pagine de Le origini del totalitarismo, dove illustra il paradosso che si accompagna alla nozione di diritti umani: su un piano formale, essi dovrebbero essere validi per ogni essere umano, tuttavia – spiega Arendt – se un uomo perde il suo status di cittadino, perde di conseguenza anche la tutela dei diritti inalienabili. Il dramma degli apolidi mostra come i diritti umani valgano solo a condizione che si venga riconosciuti da uno Stato sovrano garante del diritto: “I diritti umani si sono rivelati inapplicabili (…) ogni qual volta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di nessun stato sovrano”.1
Riflessioni queste che arrivano dritte a noi, stanno sull’immediato presente e ci parlano di tutte quelle vite che, varcata una frontiera, faticano a trovare intelligibilità giuridica e legittimità politica.
Di fronte a quelle vite in transito, destituite delle prerogative di cittadinanza, dovremmo chiederci quale sia l’origine della nostra obbligazione reciproca, della nostra responsività, della responsabilità intesa in primo luogo come capacità, appunto, di rispondere all’altro e di riconoscerne la dignità?
Intervenuto al Festival della letteratura di Mantova, Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che ha preso parte al film documentario Fuocoammare e autore del libro Lacrime di sale, ha detto “continuerò a fare il mio lavoro, anche se mi sta costando tantissimo, perché credo che sia giusto, doveroso, dare un’identità e una dignità a dei corpi, anche solo a delle ossa”.
Possiamo davvero demandare quest’implicazione etica al piano formale del diritto? O c’è qualcosa che precede l’istituzione della legge e della “persona giuridica”?
E se le azioni che discendono da quel vincolo originario – che ci lega gli uni agli altri per il fatto di essere umani, fatti della stessa carne – entrano in contrasto con quanto previsto dalle leggi dello Stato, come comportarci?
Nel febbraio scorso, il contadino francese Cédric Herrou venne condannato per aver aiutato degli immigrati irregolari ad attraversare il confine con l’Italia. Davanti al tribunale di Nizza sostenne: “Se dobbiamo infrangere la legge per aiutare delle persone, facciamolo!”. Dobbiamo “impegnarci per rimettere al centro di tutto gli esseri umani”.
Cédric Herrou
Un “atto politico”, lo definisce lo stesso Herrou: un gesto di ribellione, di disobbedienza. Un esercizio pericoloso della libertà, per tornare ad Arendt e al suo modo di definire la “disobbedienza civile”.
Qui di seguito un estratto dal saggio di Hannah Arendt, Disobbedienza civile, edito da Chiarelettere, che ringraziamo pe la disponibilità.
Disobbedienza civile, pubblicato nel 1970 sulla rivista “New Yorker” (la stessa su cui nel 1963 aveva pubblicato i testi che compongono La banalità del male) è un testo in cui è un testo in cui Arendt si schiera dalla parte delle ragioni dei movimenti di protesta in corso in quel momento negli Stati Uniti, pur non condividendone spesso la cultura e l’ideologia, ma perché individua che la disponibilità ad associarsi sulla base dell’impegno reciproco a partecipare alle questioni di pubblico interesse – qui sta il nocciolo duro della “disobbedienza civile – significa praticare una “libertà pericolosa”. Significa spesso sfidare il luogo comune e aiutare la politica a “fare un passo avanti”, lavorando per la costruzione e la definizione di un nuovo “senso comune”. Significa, per riprendere una riflessione di Gandhi, sapere che “una legge non diviene ingiusta semplicemente perché io lo affermo. Lo stato ha il diritto di applicarla finché è contemplata nei codici, io devo resistere a essa in modo nonviolento. E lo faccio violando la legge e sottomettendomi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento”.
Hannah Arendt
Che cosa intendiamo con “disobbedienza civile”
La disobbedienza civile insorge quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più, che non viene più dato ascolto né seguito alle loro rimostranze o che, al contrario, il governo sta cambiando ed è indirizzato o ormai avviato verso una condotta dubbia in termini di costituzionalità e legalità. Gli esempi sono numerosi: si pensi ai sette anni di guerra mai dichiarata al Vietnam, alla crescente influenza dei servizi segreti sugli affari pubblici, alle esplicite o sottilmente velate minacce alle libertà garantite dal Primo emendamento , ai tentativi di privare il Senato dei suoi poteri costituzionali, a cui ha fatto seguito l’invasione della Cambogia decisa dal presidente nel pieno disprezzo della Costituzione che prevede che non si possa dichiarare guerra senza il consenso del Congresso; per non parlare dell’iniziativa ancora più vergognosa del vicepresidente di riferirsi agli attivisti della resistenza e del dissenso chiamandoli “avvoltoi e parassiti che dobbiamo impegnarci a estromettere dalla nostra società con non più dispiacere di quello che proveremmo nel buttar via le mele marce da un cesto”: un’affermazione che non lede solo le leggi degli Stati Uniti , ma di ogni altro ordinamento.
In altre parole la disobbedienza civile può essere posta al servizio di un cambiamento auspicabile e necessario o di un altrettanto auspicabile mantenimento e rispristino dello status quo; il mantenimento dei diritti garantito dal Primo emendamento o il recupero della stabilità di governo messa a rischio dal ramo esecutivo e dall’enorme crescita del potere federale a scapito dei diritti dei singoli Stati. In nessuno dei due casi la disobbedienza civile può essere equiparata alla disobbedienza criminale.
C’è una differenza sostanziale tra il criminale che cerca di sottrarre i propri atti agli sguardi della collettività e colui che pratica la disobbedienza civile sfidando la legge in maniera manifesta. Questa distinzione tra una violazione clandestina e una violazione aperta della legge, operata in pubblico, è talmente palese che può essere ignorata solo per pregiudizio o malafede. E’ riconosciuta da tutti i principali studiosi dell’argomento ed è chiaramente la base da cui partire per il riconoscimento della disobbedienza civile come compatibile con la legge e le istituzioni governative americane.
Il delinquente comune, anche quando agisce per conto di un’organizzazione criminale, lo fa per il proprio tornaconto, rifiuta di piegarsi al pare della maggioranza, cederà solo alla violenza delle forze dell’ordine. Al contrario chi pratica la disobbedienza civile, pur agendo in disaccordo con la maggioranza, opera nel nome e nell’interesse di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite per manifestare un dissenso non perché vuole fare un’eccezione per sé e beneficiarne come individuo.
Un esempio particolarmente eloquente del rapporto tra legge e cambiamento è rappresentato dalla storia del Quattordicesimo emendamento, che era stato concepito per tradurre in termini costituzionali il cambiamento ottenuto attraverso la Guerra civile. Cambiamento che non era accettato dagli Stati del Sud, tanto che per quasi un secolo la disposizione sull’uguaglianza razziale non entrarono in vigore.
Il Quattordicesimo emendamento entrò in vigore più tardi tramite l’azione giudiziaria della Certe suprema ma, per quanto si possa affermare che questa abbia sempre avuto la responsabilità di bloccare le leggi contrarie all’eguaglianza razziale, la verità è che nel caso specifico scelse di pronunciarsi solo quando i movimenti per i diritti civili – che per le leggi del Sud erano movimenti di disobbedienza civile a tutti gli effetti – avevano già cambiato profondamente la mentalità dei cittadini bianchi e di colore in proposito.
Non fu la legge ma la disobbedienza civile a portare allo scoperto il dilemma americano e, forse per la prima volta a obbligare la nazione a riconoscere non solo l‘enormità del crimine della schiavitù in sé ma anche della tratta degli schiavi che aveva ereditato, fra tante cose buone, dai propri predecessori.
1 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p 406.
La Grande Trasformazione della guerra contemporanea
Descrizione dell’eBook
Alessandro Colombo La grande trasformazione della guerra con-
temporanea esamina sinteticamente ed efficacemente le forme della guerra dalla Prima guerra mondiale a oggi. La prima guerra mondiale, per tutti “la Grande guerra”, è tornata al centro delle celebrazioni pubbliche sull’onda della ricorrenza del centenario. Il secolo scorso, il 24 maggio 1915, l’Italia entrava in quella guerra. La guerra che ricordiamo è ancora la guerra di oggi?
Dal Piave del 1915 all’Eufrate nel 2003; dai bombardamenti su Dresda il 13 febbraio 1945 a ciò che resta di Tripoli 2012; dalle strage a Marzabotto 1944 alle stragi degli ostaggi che ci rincorrono in televisione, quanto è cambiata la guerra, il modo di viverla, le forme del combattimento? Il nemico ha ancora diritto al rispetto o è meritevole solo di annientamento? A cento anni di distanza noi oggi parliamo della Prima Guerra mondiale. Alessandro Colombo sostiene che nell’ultimo secolo sono cambiate molte cose (la posta in gioco, i combattenti, lo spazio in cui si combatte, i linguaggi,..) e tuttavia questo non elimina il fatto che il nostro presente sia figlio di una lunga e profonda trasformazione che ha le sue origini e i suoi primi elementi proprio in quello scenario sconvolto di cento anni fa.
Conosci l’autore
Alessandro Colombo. Membro del Comitato scientifico della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e respondabile scientifico del progetto “Prima Guerra Mondiale: la grande trasformazione“. Consulente per l’elaborazione della parte relativa agli scenari internazionali del nuovo Piano Generale dei Trasporti presso il Ministero dei Trasporti e della Navigazione (gennaio-novembre 1999), Coordinatore dei borsisti e dei ricercatori dal 1994 al 1997, dal 2004 è Senior Research Fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). E’ coordinatore del Master in Studi Internazionali Strategico-Militari presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. E’ membro della Società italiana di Scienza politica (SISP), della Commissione di Storia delle Relazioni Internazionali, del Comitato scientifico dell’Istituto per la Cooperazione Economica Internazionale, dell’International Advisory Board dell’European Journal of International Relations e dell’International Advisory Board di Millenium, Journal of International Studies.