Il movimento afroamericano
Capitolo 1
La stampa del movimento nero
La grafica delle organizzazioni nere, ma anche della stampa non afroamericana in cui erano rappresentate le figure centrali del movimento nero, faceva largo uso di immagini – vignette e caricature, disegni o fotografie – caratterizzate da un marcato realismo e da moderate stilizzazioni (come nella testata del giornale della Nation of Islam). Il loro tratto prevalente era la estrema leggibilità, evidente nel caso delle due donne – la popolana e la madre pronta a combattere per la propria figlia – tratte da The Black Panther, la cui impronta grafica dominante è quella di Emory Douglas.
I ritratti degli eroi
Nei ritratti si vedono qui Malcolm X, Martin Luther King, Angela Davis, H. Rap Brown e Huey Newton, gli “eroi della razza” del momento. Newton, fondatore del Partito della pantera nera insieme con Bobby Seale, è rappresentato anche nella foto (pubblicata su Ramparts e poi diventata emblematica) del fucile e della lancia, a significare l’unità nella lotta per la liberazione dei neri statunitensi e dei popoli africani, richiamati anche dagli oggetti tradizionali a lato della sedia cerimoniale. Sulla copertina del Seed, giornale underground di Chicago, l’immagine di Fred Hampton – assassinato dalla polizia nel dicembre 1969 – emerge da uno sfondo in cui sono rappresentati i leader rivoluzionari di quegli anni (tra cui Ho Chi Minh) e di una mobilitazione di popolo.
Guarda la photogallery
Di seguito proponiamo un percorso con immagini di copertina e illustrazioni tratte da varie pubblicazioni del movimento afroamericano degli anni ’60, parte del patrimonio della Fondazione G. Feltrinelli. Si tratta, in particolare, delle riviste Nation of Islam, The Black Panther, Ramparts, Seed.
Si noti, insieme alla spiccata curatela grafica, la particolare valenza politica di quanto raffigurato e il riferimento a quelli che vengono considerati dei veri e propri eroi del movimento: Malcom X e Fred Hampton su tutti.
Approfondisci
dal sito di Fondazione G. Feltrinelli
L’eredità di Martin Luther King
Un estratto dall’omonimo articolo di Marta Gara, Giornalista e storica
Quando Martin Luther King fu ucciso il 4 aprile 1968 era impegnato in un progetto che si sarebbe dovuto concretizzare di lì a pochi giorni: la Poor People’s Campaign, marcia per i diritti dei poveri. Dopo la desegregazione e il diritto di voto, King credeva infatti che gli afroamericani non avrebbero ottenuto la piena cittadinanza senza la sicurezza economica.
La marcia dei poveri — poi realizzata ad un mese dalla morte di King — fu un punto di svolta nella politica del movimento per i diritti civili anche per il suo carattere interrazziale: non si rivolgeva solo agli afroamericani, ma ai poveri di tutto il Paese e l’organizzazione trovò ben presto sostegno tra i leader di gruppi di nativi americani, messico-americani, portoricani e delle comunità di bianchi indigenti.
La povertà era considerata da Martin Luther King uno dei tre mali che affliggevano la società americana, insieme al razzismo e al militarismo. In occasione del suo più controverso discorso contro la guerra in Vietnam, il 4 aprile del 1967, dopo aver accusato il Governo di essere «il più grande fornitore di violenza al mondo», King denunciò che l’impegno militare nel Sud Est asiatico aveva causato lo svuotamento finanziario dei programmi della «War on Poverty», promossa quattro anni prima dal Presidente Lyndon B. Johnson. King si appellò all’istituzione di un reddito annuale garantito e sottolineò l’importanza del movimento sindacale come primo «anti-poverty program».
Ad ispirarsi oggi proprio alle parole di Martin Luther King sull’importanza dell’azione sindacale unita alla battaglia dei diritti civili è l’iniziativa Black Workers Matter, promossa dal think thank progressista Institute for Policy Studies e attorno alla quale si sono riuniti la National Association for Advancement of Colored People, l’AFL-CIO e altri sindacati nazionali, alcuni rappresentanti del movimento Black Lives Matter, attivisti religiosi e per i diritti civili ed esponenti del movimento Fight for $15.
01/04/2016
Beyond Vietnam
Discorso di Martin Luther King a Riverside Church, New York, 4 aprile 1967
The Other America
Discorso di Martin Luther King alla Stanford University, 14 aprile 1967
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diri
’900: un secolo di rivoluzioni e conquiste
“I will stand with you”. Le Olimpiadi del 1968 e le conseguenze sul futuro
La lunga marcia per i diritti civili. L’esempio americano a cinquant’anni dalla morte di M.L. King Jr
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
’900: un secolo di rivoluzioni e conquiste
Proponiamo alcuni estratti dall’introduzione di Marcello Flores, Spartaco Puttini, Sara Troglio al testo ‘900, la stagione dei Diritti. Quando la piazza faceva la storia, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2018.
Le trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali in corso nella nostra società e nel sistema democratico interrogano le basi stesse sulle quali si fonda il patto di cittadinanza.
A partire da questo contesto, si può riflettere su almeno tre piani.
Il primo ci spinge a non dare per scontati i diritti dei quali oggi godiamo e a indagare sulla loro origine. Il loro ottenimento è stato frutto di lotte e sacrifici da parte di uomini e donne che spesso si sono giocati tutto quello che avevano per conquistare condizioni di vita migliori e una maggiore giustizia. La loro storia ci parla di gruppi sociali tenuti ai margini o ignorati, considerati “oggetto” dell’iniziativa altrui e non “soggetti” attivi, legittimamente portatori di istanze, aspettative e rivendicazioni. La loro azione ha prodotto un allargamento dello spazio di cittadinanza. Quali sono le condizioni che hanno determinato le grandi conquiste del Novecento? In quale clima culturale si sono sprigionati i movimenti sociali e rivendicativi? Queste sono alcune delle domande che vogliamo porci, mentre guardiamo al nostro passato recente e alle sue eredità.
Il secondo livello di lettura invita a riflettere sul fatto che il processo di acquisizione dei diritti individuali e collettivi non è stato lineare. Ha dovuto affrontare battute d’arresto e ripiegamenti, comportando un continuo braccio di ferro tra interessi e forze contrapposti.
Infine, si vuole sottolineare come, proprio alla luce di questi insegnamenti del passato, i diritti non possano mai essere considerati definitivi. Richiedono, al contrario, uno sforzo continuo di difesa, ridefinizione e impegno collettivo.
[…]
Con sempre maggiore enfasi, la comunità internazionale ha accettato l’idea che tutti i diritti, come ha affermato la Dichiarazione di Vienna del 1993, sono “inalienabili, universali, indipendenti e indivisibili”, rifiutando una gerarchia al loro interno. Ogni diritto, in sostanza, è necessario alla realizzazione degli altri e la violazione di alcuni comporta generalmente la violazione anche di altri.
Oggi la discussione sui diritti umani sembra focalizzata su alcune questioni, tra loro strettamente legate. La prima riguarda l’“universalità” dei diritti, la possibilità di una visione universale che riesca a coinvolgere culture e tradizioni di pensiero diverse e spesso distanti.
La seconda questione riguarda la distanza che esisterebbe tra il riconoscimento dei diritti civili e politici e quello dei diritti economici e sociali. È vero che si è fatta strada negli ultimi anni una tendenza a riproporre come “veri” diritti umani soprattutto o esclusivamente quelli civili e politici, perché si tratta di diritti “negativi” che si possono facilmente introdurre abolendo le leggi che li contrastano (abolire la censura, introdurre il diritto di voto, garantire l’indipendenza della magistratura). Ed è vero che è molto più difficile rendere concreti i diritti “positivi” economici e sociali, che hanno bisogno di un fattivo e intenzionale intervento dello stato per essere garantiti (salute e istruzione hanno bisogno di ospedali e scuole, di medici e insegnanti, e quindi di risorse importanti per garantirle a tutti).
La maggiore lentezza con cui i diritti sociali ed economici possono venire implementati, e la maggiore rapidità con cui si possono abolire o limitare reintroducendo discriminazioni sui diritti che sembravano superate, in realtà sono accompagnate da un identico processo che coinvolge anche i diritti civili e politici, e in qualche caso in modo ancora più marcato i diritti di solidarietà o quelli di ultima generazione. Sono le decisioni politiche di governi e stati che modificano la loro impostazione a seguito di vittorie elettorali (o di restrizioni autoritarie di varia natura) a costituire il terreno di arretramento dei diritti, dati troppo facilmente per permanenti una volta acquisiti. Quello cui assistiamo in questi ultimi anni mostra come la battaglia per difendere i diritti faticosamente conquistati chiama in causa la vigilanza, l’attivismo e il senso di responsabilità di tutti.
“I will stand with you”. Le Olimpiadi del 1968 e le conseguenze sul futuro
È il 17 ottobre 1968, si stanno svolgendo le premiazioni alle Olimpiadi di Città del Messico per la gara dei 200 metri piani maschile. Lo stadio è pressoché vuoto, gli atleti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e medaglia di bronzo, si presentano sul podio senza scarpe, durante l’inno nazionale americano abbassano lo sguardo e, invece della mano sul cuore, alzano il pugno guantato.
Le “anime del popolo nero”, come scrisse W.E.B. Du Bois agli inizi del ‘900, sono diverse. L’unità del movimento contro la segregazione razziale degli Stati Uniti negli anni ’60 è composita: il sogno e i negro di Martin Luther King facevano parte del “sogno americano” ma a questi si affiancavano i black men e il Potere nero di Malcom X, che del sistema americano aveva una visione imperialista e da incubo. Nel movimento degli afroamericani alla questione della razza si sommava quella della classe e il conflitto sociale e razziale nel paese era sempre più esasperato. Smith e Carlos, mentre denunciavano al mondo intero la piaga del razzismo, con questo gesto mostravano chiaramente di non sentirsi americani. Non è per “loro”, cioè per i bianchi e le loro istituzioni razziste, che correvano.
Pochi giorni prima, il massacro degli studenti messicani in Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco non aveva cambiato i piani dei Giochi. Il Comitato Olimpico Internazionale dichiarava che la repressione degli studenti – documentata da Oriana Fallaci per L’Europeo – era una questione interna al Messico e non aveva a che fare con lo sport.
Comunque il rapporto tra sport olimpico e politica sarebbe cambiato profondamente, grazie al gesto di Smith e Carlos: il saluto delle Black Panthers faceva parte del boicottaggio scelto in seno all’Olympic Project for the Human Rights, lanciato dal sociologo Harry Edwards nel 1967, che raccoglieva alcuni atleti olimpici americani contro la segregazione razziale e per i diritti.
Il podista australiano medaglia d’argento, Peter Norman, il secondo uomo più veloce del mondo nel 1968, aderiva alla protesta dei due statunitensi con questa semplice frase: “I will stand with you”. Smith e Carlos in un primo momento mostrano diffidenza nei suoi confronti ma Petern Norman, il bianco, era riuscito nel frattempo a farsi prestare la coccarda del Progetto Olimpico per i Diritti Umani e poi a indossarla come gli altri due sul podio durante la premiazione.
La carriera sportiva di tutti e tre finiva quel giorno.
L’australiano non si è mai pentito e per questo è stato punito. Non viene convocato dal Comitato australiano ai Giochi Olimpici del 1972 e da lì in avanti Peter Norman sarebbe passato attraverso anni di isolamento e ostracismo sociale e professionale. Fino alla morte, avvenuta nel 2006, nessuno ha mai fatto i conti con il valore e le conseguenze della sua solidarietà espressa per la causa dei diritti umani e degli afroamericani.
Peter Norman ha un ruolo di rilievo nella storia olimpica che è frutto dell’incontro tra i suoi grandi traguardi atletici – il suo record del 1968 è tutt’ora imbattuto in patria – e gli eventi globali e rivoluzionari del 1968 che hanno avuto luogo sul palcoscenico delle Olimpiadi e della storia.
I due americani sono riusciti a ottenere piccoli riconoscimenti: nel 2005 è stata eretta una statua in loro onore al college di San José; la statua riproduce il saluto delle Black Panthers alle Olimpiadi del 1968 con le figure di Smith e Carlos, ma il podio del secondo classificato è vuoto per permette alle persone di interagire con la statua. Una scelta che di fatto omette la presenza dell’australiano. L’eredità di Peter Norman infatti fa ancora fatica a farsi strada.
Dal 1968 fino a tempi molto recenti, il Comitato Olimpico Australiano gli ha chiesto di rinnegare il gesto compiuto a Città del Messico, tanto che a causa del suo rifiuto non è stato neanche invitato tra le star dello sport nazionale all’inaugurazione delle Olimpiadi di Sydney del 2000.
Nel 2006 Norman muore e solo sei anni dopo, nel 2012, il Parlamento Australiano gli chiede scusa pubblicamente e ufficialmente.
Cinquanta anni dopo, lo scorso giugno, finalmente, il Comitato Olimpico Australiano conferisce alla famiglia un riconoscimento postumo: l’Ordine al Merito Olimpico.
Esiste poi un comitato che da anni si batte per la costruzione di una statua interattiva a Melbourne, per riconoscere il coraggio di Peter Norman e per celebrare il multiculturalismo della città come modello per il futuro.
Dal Racial Discrimination Act del 1975 sono stati fatti dei passi in avanti ma il razzismo in Australia continua a essere un problema sociale significativo e il paese continua a contraddire, di fatto, il rispetto dei diritti umani.
Non si può tornare indietro, ma la memoria e i riconoscimenti pubblici, politici e sportivi di Peter Norman diventano ancora più importanti oggi dato che la discriminazione razziale verso i migranti, i rifugiati e le minoranze è in crescita in un paese complesso come l’Australia, e non solo.
Anche in Italia e in Europa è tempo di barriere, tracciate sulla linea del colore.
Malgrado le preoccupazioni per la gestione e l’impatto del fenomeno migratorio, molti in Europa restano su posizioni di accoglienza verso gli stranieri, compresi immigrati e rifugiati. La maggior parte della popolazione in Italia oscilla tra rabbia e speranza ed è preoccupata per il crescente clima di razzismo e di discriminazione. Il quadro è estremamente frammentato. Malgrado le forze conservatrici e populiste di destra celebrino i propri trionfi a suon di decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione e di attacchi ai diritti fondamentali, tante piazze meticce da Ventimiglia, a Macerata a Catania, a Riace, a Lodi mostrano lo stesso coraggio di un gesto compiuto da tre giovani atleti cinquant’anni fa. Restiamo umani e non pentiamoci, la storia è dalla nostra parte.
Approfondimenti dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Di seguito le pagine del periodico Cuba conservato nella biblioteca della Fondazione, raccontano le olimpiadi del 1968,
per scaricare la fonte, clicca qui
La lunga marcia per i diritti civili. L’esempio americano a cinquant’anni dalla morte di M.L. King Jr
Il 4 aprile di quest’anno segna il cinquantesimo anniversario dell’assassinio di Martin Luther King (4 aprile 1968) e costituisce un’occasione importante per riflettere sulle nuove forme del razzismo e sull’eredità del movimento per i diritti civili.
Il movimento guidato dal reverendo Martin Luther King, dopo dieci anni di lotte condotte secondo la pratica della disobbedienza civile non-violenta, riuscì a ottenere l’approvazione del Civil Right Act (1964) e del Voting Right Act (1965) che sancivano, almeno sul piano formale, la fine della segregazione negli Stati del Sud e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nell’esercizio del diritto di voto.
Negli anni seguenti, influenzato anche dalla critica mossa dal movimento del Black Power ai limiti dell’uguaglianza formale, Martin Luther King riorientò la sua lotta contro le cause economiche della disuguaglianza e per l’ottenimento di maggiori diritti sociali. Il movimento di King segnò l’apice della lotta contro le discriminazioni tra cittadini negli Stati Uniti d’America.
Marcia su Washington per il lavoro e la libertà. 28 agosto 1963
Quarant’anni più tardi, l’amministrazione Obama, inizialmente interpretata da molti come il coronamento della storia delle lotte per l’emancipazione nera, ha segnato in realtà la fine dell’illusione neoliberale secondo cui gli Stati Uniti erano ormai diventati una color-blind society, capace cioè di garantire uguali opportunità a tutti i suoi cittadini. Un elemento che ha trovato ulteriori conferme con la presidenza di Donald Trump, il cui discorso politico ha ridato legittimità alla cultura razzista che anima una parte della destra americana. Sebbene non esistano più discriminazioni formali, la società statunitense è attraversata da un razzismo strutturale che perpetua la marginalizzazione e lo sfruttamento economico della popolazione non bianca. Come hanno mostrato Michelle Alexander e Keeanga-Yamahtta Taylor, le nuove forme del razzismo agiscono soprattutto attraverso le politiche securitarie che criminalizzano le classi più povere, e quindi specialmente la comunità afroamericana e quella ispanica. La violenza della polizia, contro cui è nato il movimento Black Lives Matter, fondato nel 2013 da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, è solo la punta dell’iceberg di una profonda disuguaglianza di classe e di razza che si manifesta specialmente nell’alto tasso di incarcerazione (sei volte superiore a quello dei bianchi), nell’ipersorveglianza e nell’emarginazione urbana, nei bassi salari e nel minore accesso alla sanità e all’istruzione. In tale contesto, l’eredità delle lotte per i diritti civili appare significativa specialmente per la pratica della resistenza non violenta come azione volta a mostrare la violenza del potere e a suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica e l’attivismo politico. Una delle forme della protesta di Black Lives Matter è stata infatti improntata alla diffusione di video e immagini sulla violenza della polizia tramite i social network. Non da ultimo, l’orientamento verso le cause economiche delle disuguaglianze razziali che Martin Luther King adottò negli ultimi due anni della sua vita è oggi al centro delle lotte antirazziste.
Consigli di lettura:
M.L. King, Jr., The Radical King, ed. by C. West, Boston, Beacon Press, 2016.
Keeanga-Yamahtta Taylor, From #BlackLivesMatter to Black Liberation, Chicago, Haymarket Books, 2016.
Michelle Alexander, The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, New York, The New Press, 2010.
Ta-Nehisi Coates, We Were Eight Years in Power. An American Tragedy, New York, One World Publishing Co., 2017.