Dopo la legge marziale. Il Comitato di Solidarietà con Solidarność in Italia
Capitolo 8
Desideriamo ricordare l’enorme aiuto della popolazione torinese, riguardante l’apporto dato a questo Movimento nel Nord Italia dalla Caritas e dai sindacati italiani,in particolare dalla CISL. Non per caso ci ritroveremo all’Istituto Alfieri Carrù Onlus, dove il Comitato Aiuti per la Polonia, ideato dal Presidente della Comunità Polacca di Torino Ing. Jan Jaworski, svolse la propria attività negli anni 80, grazie all’allora Presidente Maria di San Germano che prestò gratuitamente le sale ove ricevere, imballare e spedire i doni in Polonia, cosi numerosi da riempire più di 40 TIR.
Il Comitato di Solidarietà a Roma
Dopo la dichiarazione dello stato di guerra, a Roma, presso l’Ufficio internazionale Cisl, nasce il Comitato di Solidarietà con Solidarność, che rappresenta il sindacato polacco in Italia e coordina le iniziative politiche a livello nazionale; è diretto da Jacek Pałasiński, successivamente da Andrzej Chodakowski e Tadeusz Konopka, coaudiuvati da Łucja Petti Lehnert.
L’attività a Torino
A Torino, il Comitato di Solidarietà con Solidarność si scinde nel Comitato aiuti per la Polonia, presieduto da Wanda Romer Sartorio e finalizzato alla spedizione di beni di prima necessità, e nel Centro di Coordinamento aiuti Cgil, Cisl e Uil, che poi assumerà il nome di Comitato Solidarietà con Solidarność, riservato all’attività politica e sindacale presso l’Ufficio Internazionale dei tre sindacati, con responsabile Cisl Fredo Olivero.
Il Comitato Solidarietà è coordinato da Joanna Burakowska, Krystyna Jaworska e Nelly Norton e fa capo al Comitato di Roma. Oltre alle iniziative politiche e sindacali, coordina gli invii umanitari e di materiali per la stampa clandestina dai sindacati italiani a livello nazionale. Tramite emissari di fiducia porta in Italia copie delle pubblicazioni clandestine di Solidarność.
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L’intensa attività del Comitato di Solidarietà con Solidarność e del Comitato aiuti per la Polonia è testimoniato dalla immagini che seguono.
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«Noi crediamo necessario sottolineare ulteriormente la gravità della situazione in cui versa la nazione polacca in questo difficile momento; ogni aiuto che, per vostro tramite, potrà giungere in Polonia da parte della sua Azienda costituirà una prova tangibile della solidarietà del popolo italiano e dell’interessamento alle sorti della Polonia da parte degli imprenditori italiani.»
Dalla lettera-tipo del 22 marzo 1982 inviata alle aziende del Piemonte da Barbara Stasiowska Randone a nome del Comitato aiuti per la Polonia (Fondo Solidarność, Fond. Feltrinelli)
«Di che cosa c’è più bisogno in questo momento? Molte volte ci è pervenuta da parte dell’Episcopato Polacco la richiesta di stoffe di qualsiasi tipo, anche piccoli tagli di stoffe per cucire i vestitini per i bambini negli orfanotrofi. Manca anche il filo da cucire, gli aghi per cucire a mano e a macchina.
Se possiamo suggerire qualche cosa pensiamo che potrebbe essere utile occuparsi di trovare queste stoffe utilizzando anche i campioni, interessando le fabbriche, utilizzando le cose che non servono più in casa ecc.
Di questo potrebbe interessarsi una parrocchia, degli alimentari un’altra.»
Dalla lettera di Joanna Burakowska a Don Ermis Segatti del 12 dicembre 1983 (Fondo Solidarność, Fond. Feltrinelli)
Consigli di lettura
Solidali con Solidarność. Torino e il sindacato libero polacco. Di seguito la Fondazione propone in formato cartaceo un volume edito da Franco Angeli che riflette sulla vicenda di Solidarność, e ne studia le ripercussioni sul contesto italiano.
Di particolare interesse il rapporto che si instaurò a Torino con le grandi organizzazioni sindacali confederali e le problematiche che ne derivarono. In un contesto di forte conflittualità sociale, i lavoratori e i sindacati torinesi espressero, pur talvolta con reticenze e diffidenze, slanci di generosa e autentica solidarietà che li legarono idealmente e concretamente a molti polacchi.
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diri
Esigenza di verità e consapevolezza storica
A cent’anni dalla Terza Internazionale: una “modernità alternativa” al capitalismo
Giovani né-né. Oltre la condizione di Neet
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
Esigenza di verità e consapevolezza storica
Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere
L’esercizio della verità, a qualunque livello, necessita di un ambiente in cui la consapevolezza storica abbia un ruolo predominante. La “verità” è infatti una relazione sociale la cui evidenza, più o meno apparente, è in quanto tale contendibile e dunque richiede un continuo impegno della comunità per garantire la manutenzione dei nessi e degli snodi fattuali che ci permettono di ripercorrere/ripensare pezzi di passato ritenuti socialmente rilevanti, a seconda delle epoche e delle pubbliche emergenze del momento.
Per questo il processo di marginalizzazione politica della storia, che da molti anni si può evincere anche dalla scarsa rilevanza attribuita dal Ministero della Pubblica Istruzione all’insegnamento della disciplina (riduzione delle ore assegnate negli istituti professionali, eliminazione della traccia di storia all’esame di Stato, mancata separazione da filosofia nei licei, ecc), non può e non deve essere inteso come uno dei tanti adeguamenti dei programmi scolastici, non di rado definiti soprattutto sulla base di una ristretta logica “pedagogista”. La storia, in quanto sforzo di comprensione del passato, segnala in sé un’esigenza di verità che probabilmente è alla base del grande interesse che suscita nella cittadinanza come tra l’altro dimostra la crescente attenzione verso programmi televisivi, festival, iniziative editoriali legate alla storia, dall’antica alla contemporanea.
E’ probabile che lo specifico disinteresse della classe politica sia frutto di una superficialità di giudizio che considera la storia come una serie di racconti più o meno commendevoli del passato, una raccolta di antiquariato di cui si può, anzi si deve, fare a meno nel momento in cui urge trovare più spazio alle discipline del presente, alla pratica “utile” (lingue, informatica, laboratori ecc). Un tempo regina incontrastata nei processi di formazione della classe dirigente e in quelli dell’elaborazione intellettuale di gran parte delle scienze sociali, la storia appare oggi una sorta di ancella secondaria in quanto non sembrerebbe fornire “competenze”. In realtà la storia a scuola dovrebbe essere una sorta di competenza generale, una pre-materia che, coltivando la complessità degli eventi umani, facilita la consapevolezza del contesto politico, sociale, economico in cui viviamo.
Individuando uno dei fattori della crisi del sistema politico italiano nella mancanza di una classe dirigente, Piero Gobetti invocava una nuova «generazione di storici», proprio per evitare che la politica fosse ridotta a cronaca, cioè amministrazione di un presente privo di futuro. D’altronde, sino agli ’70 e ’80 del XX secolo gli intellettuali e in particolare gli scienziati sociali erano debitori verso la conoscenza storica senza la quale le loro analisi sarebbero apparse prive di efficacia. Si pensi a Marx, Mosca, Weber, Keynes, Schumpeter, solo per fare pochissimi nomi. Ma anche guardando alla classe politica, per tutto il XIX e gran parte del XX secolo non sarebbe stato possibile esercitare una vera leadership senza il possesso di una solida cultura storica: da Gladstone a Cavour, da Thiers a Bismarck, da De Gasperi a Togliatti, da De Gaulle a Brandt e si potrebbe continuare a lungo. Una verità talmente radicata nel sentire comune che il maggior pedagogista italiano dell’800, Aristide Gabelli, ha potuto affermare che “quando gli uomini di Stato non sanno la storia è come se tutto un popolo fosse senza passato”.
La crisi della ragione storica intesa come razionalità “positivista” seguita alla fine della guerra fredda ha messo in moto una reazione che ha condotto le scienze sociali a prendere le distanze dalla storia e dalla sua complessità, a specializzarsi – ritagliandosi settori sempre più ristretti di competenze tecniche – e dunque a isolarsi, scegliendo la strada della de-contestualizzazione dei problemi del presente, preludio a quel particolare tipo di falsificazione che si produce quando fatti reali vengono accentuati ed esasperati o, appunto, decontestualizzati. E’ questo l’ambito entro cui si è affermato un sistema di riflessione sulla crisi avviatasi nel XXI secolo tutto incentrato sulla semplificazione delle proposte di soluzione dei problemi sociali. Con questo non si vuole intendere che la complessità sia scomparsa dagli orizzonti della scienza e della politica. Semplicemente, la complessità veicolata dalla storia, così radicata nei processi di formazione della società, è stata sostituita, a iniziare dalla seconda metà del ‘900, da una nuova complessità, teorizzata questa volta, ad esempio, dalla matematica, che pensa i diversi elementi della società come variabili astratte, ma connesse tra di loro.
Tuttavia non si può negare che tale tendenza alla marginalizzazione della storia trovi la propria ragione, più o meno inconscia, nel difficile rapporto della nostra società con la verità, che per l’indagine storica rimane per forza di cose un orizzonte, un’aspirazione, ineliminabile. Nel concreto – al di là della nota espressione di Leopold Ranke per il quale lo storico deve proporsi unicamente la descrizione delle cose “come sono avvenute” – la storia oggi, anche fuori dalle aule scolastiche, dovrebbe essere considerata soprattutto un percorso critico teso all’accertamento dei fatti attraverso fonti verificabili. Si tratta come è evidente di un procedimento e dunque di una cultura che configgono apertamente con le necessità dell’attuale presentificazione del sapere, incentrata sulla rete e sulla velocità/brevità dell’informazione. Ma se descrivere gli eventi, verificandone la veridicità, rimane un compito ineludibile per gli storici, va anche detto che non possono e non debbono limitarsi a quello, ma devono andare oltre, cercando di comprenderli che è obiettivo ben diverso da giudicarli. Su questo Marc Bloch ha scritto parole limpide quanto definitive che rinviano direttamente al tema del rapporto tra storia e verità: “Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto carica di amicizia. Persino nell’azione noi giudichiamo troppo. E’ così comodo gridare: ‘Alla forca!’ Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi – straniero, avversario politico – passa quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle se si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. E’ una vasta esperienza delle varietà umane , un lungo incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno”.
A cent’anni dalla Terza Internazionale: una “modernità alternativa” al capitalismo
Il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre nel 2017 ha registrato innumerevoli iniziative convegnistiche, espositive e di varia natura in tutto il mondo (anche se molto meno in Russia che in Europa, negli Stati Uniti o in America Latina). Tuttavia è giusto chiedersi se quelle celebrazioni abbiano segnalato un’autentica “presenza” dell’evento 1917 nella memoria storica o non siano state invece disconnesse dal passato del nuovo secolo, un tributo offerto alla consuetudine sempre più invadente degli anniversari senza però suscitare interrogativi e questioni davvero stringenti nel presente. La Rivoluzione Russa è stata sostanzialmente rimossa dal piedistallo storico centrale che ha occupato per molti decenni e che ha trovato la sua sistemazione storiografica a posteriori nel “secolo breve” di Hobsbawm. Un quarto di secolo più tardi, la formula e la periodizzazione del “secolo breve” ci appaiono irrimediabilmente invecchiati. Gli storici coltivano prospettive e visioni diverse, per lo più declinate con i vari paradigmi della modernità globale. Proprio queste prospettive possono però suggerire nuovi significati e gerarchie di senso, ricollocando l’evento 1917 in una dimensione storica che non potrà più essere quella del secolo scorso, ma neppure dovrà andare smarrita tra narrazioni metastoriche e damnatio memoriae.
È questa una necessaria premessa al centenario della Terza Internazionale (marzo 1919), la cui nascita fu una conseguenza diretta dell’Ottobre 1917 e un evento fortemente voluto da Lenin per stabilire sul piano politico e simbolico la centralità della rivoluzione mondiale nelle aspirazioni e nei progetti dei bolscevichi. La “rimozione” della rivoluzione ha investito ancora più il “partito mondiale della rivoluzione”, gerarchico e centralizzato, come si rappresentò il Comintern e come venne percepito dai suoi nemici. Senza contare il fatto che la sua storia fu sostanzialmente fallimentare anche agli occhi dei contemporanei. Il Comintern presiedette alla nascita dei partiti comunisti in Europa e nel mondo, ma non conquistò la maggioranza della classe operaia fedele alle socialdemocrazie e non scatenò nessuna rivoluzione mondiale. Anzi, la sua sigla si legò a un lungo elenco di rivoluzioni abortite: in Ungheria, la Repubblica dei Consigli (aprile-agosto 1919); in Germania, l’ “azione di marzo” (marzo 1921) e soprattutto “l’Ottobre tedesco” (ottobre 1923); in Bulgaria (settembre 1923); in Cina (1926-27); a Cuba (1933); in Brasile (1935). Dopo il 1923, i tentativi di scatenare una rivoluzione nei paesi capitalistici dell’Europa cessarono per sempre, ma non per questo le rivoluzioni nel mondo coloniale conobbero particolari impulsi. La “costruzione del socialismo” in Unione Sovietica divenne una priorità rispetto alla “rivoluzione mondiale“. La subordinazione del Comintern agli interessi dello Stato sovietico fu un dato conclamato sotto Stalin.
Anche le “svolte” strategiche cominterniste generarono soprattutti insuccessi clamorosi. La teoria del “socialfascismo” lanciata nel 1929 contribuì a dividere la sinistra tedesca e favorì l’ascesa di Hitler nel 1933, portando alla distruzione del Partito comunista tedesco. La formula dei Fronti Popolari lanciata nel 1935 portò alla vittoria elettorale delle alleanze delle sinistre in Francia e in Spagna nel 1936 e al consolidamento di partiti di massa in questi paesi, ma le forze antifasciste furono sconfitte nella guerra civile spagnola (luglio 1936-marzo 1939). L’abbandono della linea antifascita imposto dal Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939 ridusse il movimento in Europa ai minimi termini e provocò la distruzione del Partito comunista francese, messo al bando subito dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il Comintern riprese a svolgere un certo ruolo di propaganda e attività cospirative nell’Europa dominata da Hitler dopo l’invasione nazista dell’Unione Sovietica nel giugno 1941. Ma la sua stessa esistenza era palesemente anacronistica alla luce della ricerca di legittimazione nazionale dei partiti comunisti nel tempo di guerra. Quando Stalin ne decise lo scioglimento, nel giugno 1943, ritenendo che la centralizzazione organizzativa non fosse un criterio adeguato agli sviluppi dei partiti comunisti su basi nazionali, tutti i principali dirigenti si dissero d’accordo e nessuno rimpianse la fine del Comintern.
Tuttavia gli storici non dovrebbero trascurare l’eredità del Comintern. Esso fu il principale network politico globale dell’epoca tra le due guerre. Contribuì alla nascita di una politica di massa in Europa e, ancor più, nel mondo coloniale, dove i partiti comunisti furono espressione della modernità politica, seppure con fortune alterne. Gettò le fondamenta ideologiche e culturali delle élites comuniste destinate a svolgere un ruolo molto importante nella guerra fredda e nella decolonizzazione dopo la fine della guerra. È scontato rilevare che i quadri formati nell’organizzazione tra le due guerre consolidarono il potere comunista nell’Europa centrale e orientale occupata dall’Armata Rossa, diventando in gran parte personale di governo delle “democrazie popolari“. Ma l’eredità cominternista è molto più ampia di così. Negli anni tra le due guerre, il Comintern fallì tutti i suo principali obiettivi, ma fu una scuola di formazione politica e un centro di connessioni transnazionali. Si intrecciò con i più diversi movimenti a carattere anti-imperialista e anti-razzista su una scala mondiale. Costruì e smantellò perennemente reti di collegamento, mobilitando ingenti risorse materiali fornite dallo Stato sovietico, ma anche risorse simboliche e culturali che diffusero un po’ ovunque le visioni e i linguaggi del comunismo. La sua attività si svolse lungo un asse centro-periferia che si voleva operativo e coeso, ma in realtà creò o influenzò connessioni molto più ampie anche se molto meno funzionali, non necessariamente espressione delle intenzioni degli attori in scena.
Sotto questo profilo, il fuoco della ricostruzione storica dovrebbe spostarsi dal classico tema della subordinazione o insubordinazione dei partiti nazionali alle strategie di Mosca, al tema delle molteplici implicazioni, significati e pratiche che l’azione dei comunisti promosse in una prospettiva globale. Dopo il giugno 1943, l’apparato del Comintern venne incorporato nella burocrazia del Partito comunista sovietico, divenendo il suo Dipartimento internazionale. Nei due anni successivi, si verificò un enorme salto di qualità del movimento comunista, che acquisisce dimensioni di massa mai viste prima in molti paesi europei e fuori d’Europa. Il prestigio conquistato dall’Unione Sovietica grazie alla vittoria militare sul nazismo e la partecipazione dei comunisti alle resistenze antifasciste in Europa e anti-imperialiste in Asia rappresentarono una duplice fonte di nuova legittimità, che rilanciava l’idea di un soggetto portatore di una “modernità alternativa” al capitalismo, alle sue crisi e degenerazioni nel periodo tra le due guerre. Questa nuova dimensione di massa del comunismo internazionale poggiava sull’esistenza di leader e quadri dirigenti sopravvissuti al terrore staliniano e ai massacri anticomunisti, sull’accumulo di collegamenti transnazionali che non si interruppero mai completamente, sulla capacità di veicolare discorsi classisti e nazionali destinati a lanciare ipoteche credibili sulle nuove generazioni nel mondo del dopoguerra.
Questo capitale politico consentì ai comunisti di esercitare una significativa influenza combinando vocazione internazionalista e nazionalizzazione dopo la Seconda guerra mondiale, principalmente nel Terzo Mondo. I tentativi di ricostruire organizzazioni internazionali del comunismo diverse dal Comintern ebbero invece vita breve e stentata. Nel 1947 Stalin creò il Cominform, un organismo limitato all’Europa e incentrato sulla guerra fredda, che non ebbe alcun ruolo nell’Asia rivoluzionaria. Dopo il 1956, i successori di Stalin convocarono conferenze del comunismo mondiale rivolte soprattutto a includere i partiti dei paesi emergenti dalla fine del colonialismo, ma la rottura tra Unione Sovietica e Cina ne compromise il significato. L’eredità del Comintern conobbe un inesorabile logoramento. Oggi vediamo però meglio che il tramonto della tradizione internazionalista del comunismo non fu un caso a sè stante, legato alle fratture del “campo socialista” e al declino ideologico del marxismo-leninismo. Fu anche l’annuncio del tramonto di tutti gli internazionalismi, in un mondo che nell’ultimo mezzo secolo ha portato all’estremo la contraddizione esplosiva tra la globalizzazione economica e il nazionalismo risorgente della politica.
Qui di seguito alcuni documenti tratti dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sulla Terza Internazionale tra i quali spiccano le pubblicazioni in differenti lingue del Primo Congresso del Komintern, il periodico in lingua russa dell’Internazionale comunista, gli atti sulla questione coloniale, l’intervento del segretario dell’organizzazione Georgi Dimitrov contro il fascismo che apre la stagione dei “fronti popolari”.
Giovani né-né. Oltre la condizione di Neet
Testi di Emmanuele Massagli, Marco Costantino
Con un testo di Marc Bloch
Descrizione dell’eBook
Il concetto di NEET, spiega Lara Maestripieri nella sua introduzione, è sufficientemente ampio ed eterogeneo da rimandare a una pluralità di fenomeni: la condizione di disoccupazione giovanile, i percorsi di transizione scuola-lavoro, i limiti del sistema formativo e delle capacità del sistema produttivo di integrare le nuove generazioni.
Un concetto che spesso si traduce in un’etichetta stigmatizzante, che disconosce le potenzialità dei giovani facendone una categoria “protetta” e spesso ai margini del discorso pubblico.
Chi sono davvero i giovani di oggi, quali le risorse che possono mettere in campo e quali le risposte che meritano in termini di politiche formative e politiche attive?
Queste le domande che guidano la riflessione di Marco Costantino, tra i protagonisti di Bollenti Spiriti, il Programma delle politiche giovanili della Regione Puglia, e Emmanuele Massagli, Presidente di ADAPT, in un testo che, anche grazie ad alcune pagine di Marc Bloch, prova a raccontare una generazione al di là degli stereotipi.
Conosci l’autrice
Lara Maestripieri è dottore di ricerca in sociologia e ricerca sociale. E’ stata ricercatrice postdoc presso il Laboratorio di Politiche Sociali del Politecnico di Milano, visiting presso Sciences Po a Parigi e presso l’Università di Ginevra. Come professore a contratto, insegna “Social Change” nella facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. I suoi principali interessi scientifici si orientano sullo studio delle società postindustriali, in particolare gender e social vulnerability, giovani e precarietà, identità professionale dei lavoratori della conoscenza. Nel 2013 ha pubblicato Consulenti di Management. Il professionalismo organizzativo nel lavoro di conoscenza con L’Harmattan Italia.