Solidarność, il lento cammino verso la legalità e le elezioni del 1989
Capitolo 3
È necessario un nuovo patto, che possa essere condiviso da tutte le maggiori forze politiche. Nuovo, ma che garantisca una continuità.
Il disgeloAlcuni cambiamenti concreti nella politica si manifestano con l’amnistia del luglio 1986, grazie alla quale vengono rilasciati oltre 200 prigionieri politici. L’inizio del disgelo rende possibile la nascita di strutture pubbliche dell’opposizione. Nel 1988 numerosi scioperi riaprono le trattative con il governo.Dal 6 febbraio al 5 aprile 1989 si tengono a Varsavia gli incontri della “Tavola Rotonda”, ai quali partecipano esponenti dell’opposizione, del Poup e della Chiesa cattolica. Le decisioni più importanti riguardano la legalizzazione di Solidarność e l’ammissione dell’opposizione a partecipare alle elezioni per il Parlamento.
Le prime elezioni libere
Il 4 giugno 1989 si tengono le prime attese elezioni parzialmente libere. Al Sejm, Camera dei Deputati, il 65% dei seggi è assicurato ai comunisti. Solidarność ottiene circa il 99% dei seggi al Senato e l’intera percentuale disponibile al Sejm. Jaruzelski, unica candidatura per la presidenza, viene eletto dalle Camere per un solo voto; viene nominato presidente del Consiglio Tadeusz Mazowiecki.
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Le immagini proposte di seguito, tre fotografie e un manifesto tratti dall’archivio del Centro Europeo di Solidarność e dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, danno l’idea del grande fervore generato alla vigilia delle elezioni del 1989 dall’apertura a Solidarność.
Le vicende di quell’anno ebbero grande risonanza internazionale e le trattative per la legalizzazione del movimento furono seguite con una certa attezione.
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1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
La storia in mostra. Public History e percorsi espositivi
Il voto in Polonia e il peso della Storia
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre è l’occasione per una riflessione sulla sua storia, le idee, i modelli, i linguaggi e gli immaginari che hanno condizionato le nostre odierne categorie di progresso, lavoro e felicità sociale. Il contesto storico che ha reso possibile la rivoluzione, la creazione di miti fondativi e la costruzione dell’utopia politica, il lavoro e i nuovi modelli di progresso, la propaganda e la costruzione del cittadino 1.0, sono parte di un bagaglio culturale e politico che, a distanza di oltre 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, possono essere guardati da altre prospettive per comprendere ciò che di originale e potente ha portato il ’17 nel nostro vissuto di cittadini europei. Lo scopo non è farne un bilancio distaccato, ma indagarne i codici culturali e simbolici alla luce degli scambi, delle influenze e delle divisioni tra il mondo sovietico e il resto d’Europa.
In uscita, con l’inaugurazione della mostra 1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione, il catalogo, a cura della Fondazione. Il catalogo sarà in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano con i contributi di Massimiliano Tarantino, Gian Piero Piretto, Marcello Flores, Silvio Pons, Boris F. Martynov, Federico Rossin, Vittore Armanni, Chiara Missikoff.
Il catalogo è in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano
La storia in mostra. Public History e percorsi espositivi
Il 24 settembre 2016 il presidente Barack Obama ha inaugurato a Washington D.C il National Museum of African American History and Culture, che si aggiunge agli altri musei dello Smithsonian Institution presenti nella capitale degli Stati Uniti. L’apertura al pubblico dell’installazione, sorta con l’obiettivo di rileggere la storia nazionale “attraverso un’ottica afroamericana”, raccontando la partecipazione degli afroamericani a numerosi settori della vita politica, sociale e culturale, si inseriva in un contesto di incidenti e aggressioni a sfondo razziale che, come riportato per mesi sugli organi di stampa, avevano spesso avuto per oggetto il movimento Black Lives Matter, che denuncia e combatte discriminazioni, violenze e razzismo nei confronti della comunità dei neri d’America. Il nuovo spazio espositivo, salutato come un primo importante riconoscimento pubblico, potrà contribuire al processo di piena integrazione di questa minoranza?
National Museum of African American History and Culture
Nel maggio 2017 è stata aperta a Bruxelles – in un periodo assai difficile per l’Unione europea – l’esposizione permanente della Maison d’histoire européenne, dopo molti anni di lavoro e un ingente finanziamento. Il nuovo museo riuscirà a concorrere alla costruzione di una storia comune del continente, in cui tutti possano riconoscersi?
Nell’ottobre 2014 è stato aperto a Varsavia Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi, che intende presentare al visitatore un percorso espositivo in cui la storia degli ebrei in Polonia è integrata con la storia nazionale, in un momento in cui gli studiosi della Shoah, che hanno messo in rilievo la partecipazione dei polacchi al genocidio ebraico, sono messi sotto attacco e minacciati.
Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi
Sono questi tre esempi, fra i tanti possibili, della dimensione e del ruolo pubblico di musei che trattano e espongono temi di storia al centro di conflitti, che si pongono l’obiettivo di sensibilizzare un pubblico più ampio, nonché di proporre una rappresentazione del passato che possa essere in grado di modificare e apportare cambiamenti nell’opinione pubblica e nelle nuove generazioni.
Già dall’inizio del XIX secolo le esposizioni sono state l’occasione per gli storici di lavorare con gli “oggetti” e dare un contributo alla valorizzazione del patrimonio culturale. La Public History fin dalla sua nascita, negli anni ’70, è andata interessandosi di mostre e musei come uno degli oggetti precipui delle sue pratiche; e oggi si può certamente constatare – anche a partire dagli esempi sopra menzionati – che l’attenzione per questo tipo di narrazioni nello spazio pubblico è senza dubbio in crescita.
Diversi sono i motivi. Innanzitutto la pluralità dei linguaggi comunicativi che un’esposizione (permanente o temporanea che sia) mette in atto: vi si trovano solitamente oggetti e documenti scritti (in copia o originale), rappresentazioni artistiche, riproduzioni e ricostruzioni e – per l’epoca più recente – fotografie, materiale audio/video, spesso “messi in mostra” attraverso l’uso sapiente di strumenti multimediali e effetti speciali che riescono a valorizzare le fonti storiche.
Proprio grazie alla pluralità dei linguaggi ed alla possibilità di un confronto diretto con i documenti storici – quale che sia il loro medium – le mostre possono attrarre nuove audiences, nuovi pubblici più restii ad essere intercettati, con una finalità didattica e educativa a una scala più larga rispetto ai libri specialistici.
«Che cosa può fare la Public History per i musei? E che cosa i musei possono fare per la Public History?», si è chiesta di recente Ilaria Porciani («Memoria e Ricerca», 1/2017). Indagare il loro rapporto e le interconnessioni tra queste diverse tipologie di trasmissione del sapere storico aiuta non solo a meglio comprendere il ruolo dello storico che opera nello spazio pubblico – una delle molte declinazioni e definizioni del Public Historian, ma anche di quali competenze ha bisogno per svolgere la propria attività in questo ambito.
In anni più recenti la forma museo ha subito profonde trasformazioni grazie alle nuove tecnologie e agli strumenti multimediali che hanno moltiplicato e ampliato la possibilità di utilizzo dei materiali, li hanno resi più fruibili e indotto anche a ripensare lo spazio museale in quanto tale, a partire dall’esperienza dei musei diffusi e alle esposizioni online, visitabili dal proprio computer. La forte espansione del settore a cui oggi si assiste, può dare nuovi sbocchi occupazionali ai giovani interessati alla storia, fuori dal percorso dell’insegnamento a scuola o della ricerca e della didattica all’università.
Una forte attenzione per le fonti storiche, una buona dose di creatività e una attitudine al dialogo, sono certamente elementi essenziali per chi voglia avvicinarsi a queste esperienza professionale, poiché, come ci ricorda Jay Winter a partire dalla sua collaborazione al progetto sullo Historial de la Grande Guerre, a Péronne in Francia, «creare un museo, o una mostra, o una serie televisiva, non può essere mai un one-man show». All’interno di un progetto espositivo o museale, quindi, il Public Historian dotato di una formazione multidisciplinare, deve potere e sapere dialogare in modo fruttuoso con gli altri professionisti, portatori di altre competenze (museologi, architetti, allestitori, video e filmmaker, grafici e così via) senza la pretesa di sostituirsi ad essi.
È attraverso un confronto dinamico che si arriva alla rappresentazione di un percorso espositivo – che è sempre frutto di un lavoro collettivo – in grado di tornare a interrogare eventi del passato alla luce delle domande del presente, con l’obiettivo di riavvicinare la cittadinanza allo studio e all’utilità della storia.
Il voto in Polonia e il peso della Storia
La vittoria del partito dei gemelli Kaczynski apre a nuovi screzi con Mosca
La vittoria nelle ultime elezioni polacche di Diritto e Giustizia, il partito dei gemelli Kaczynski, piacerà a tutti gli esponenti del nuovo nazional-provincialismo europeo, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Marine Le Pen in Francia. Il risultato del voto e il possibile ritorno al potere di Jaroslaw, il gemello sopravvissuto dopo il disastro di Smolensk, sembrano dimostrare che nazionalismo, populismo ed euroscetticismo sono ormai i soli caratteri veramente comuni della grande Europa da Dover al Pireo. Eppure vi sono differenze di cui occorre tenere conto.
In Polonia, e per certi aspetti in Ungheria, esistono gruppi sociali che non hanno mai smesso di considerarsi vittime di una storia ingiusta. La Polonia non ha mai dimenticato le grandi spartizioni della seconda metà del Settecento e le sanguinose insurrezioni contro la Russia nell’Ottocento. Quando le circostanze le restituiscono la libertà, come è accaduto dopo la Grande guerra e dopo fine della Guerra fredda, ha quasi sempre ceduto alla tentazione di mirare alla riconquista del potere perduto nelle regioni (l’Ucraina, la Galizia, il Baltico) che appartenevano alla sua area d’influenza. Il caso dell’Ungheria è diverso, ma anch’essa ha un passato regale che condiziona i suoi istinti e le sue reazioni. Persino qualche leader comunista, a Budapest, ricordava privatamente le umilianti mutilazioni territoriali del Trattato di San Germano, nel 1919, quando una parte considerevole dei domini ungheresi divenne cecoslovacca, jugoslava, romena.
Nessuno di questi Stati vittime è privo di colpe e di errori. Anche Polonia e Ungheria sono state in molte circostanze aggressive e tracotanti. Anche la Polonia ha una sua parte di responsabilità nelle convulse trattative che precedettero la dichiarazione di guerra della Germania hitleriana il 1° settembre 1939. Ma i maestri delle scuole polacche, in particolare, non hanno mai smesso di ricordare agli alunni che la loro patria nel corso della storia è stata tradita, umiliata, crocifissa. Il clero cattolico ha recitato la sua parte facendo della Polonia il baluardo della fede di Roma contro quella di Bisanzio. Quando diceva che l’Europa, dopo la morte del comunismo, avrebbe respirato con i due polmoni dell’Ovest e dell’Est, Giovanni Paolo II lasciava comprendere che era giunto il momento in cui i cristiani del grande scisma si sarebbero infine riunificati sotto la guida di un prete polacco.
Questa storia, che i polacchi non smettono di raccontare a se stessi da qualche secolo, ha influito sulle loro scelte politiche. Quando hanno chiesto di aderire all’Unione Europea, non erano probabilmente maggioranza quelli che aspiravano a costruire con altri europei uno Stato federale nello spirito di Spinelli, Monet, De Gasperi, Adenauer. Chiedevano di entrare in un club dove avrebbero trovato, grazie al grande alleato americano, la possibilità di riemergere, magari saldando qualche vecchio conto, come potenza regionale. Per la Polonia, come per altri Paesi dell’Europa centro-orientale, l’alleanza americana conta molto più di Bruxelles e Strasburgo. Sostenuti da Washington, questi Paesi, con l’eccezione della Ungheria di Viktor Orbán, hanno cercato d’indurre l’Ue a fare una politica antirussa; e vi sono in parte riusciti .
Prepariamoci quindi, dopo il successo elettorale di Beata Szydlo e, soprattutto Jaroslaw Kaczynski, a nuovi screzi con Mosca. Ma non dimentichiamo che questi inconvenienti sono il risultato di un allargamento prematuro e frettoloso dell’Unione Europea. Quando si cominciò a parlare delle politiche che l’Ue avrebbe dovuto fare per favorire il ritorno alla democrazia degli Stati post sovietici, Jacques Delors, allora presidente della Commissione di Bruxelles, propose a François Mitterrand la creazione di due organizzazioni di cui la prima avrebbe aspirato a una Federazione e la seconda avrebbe formato con i vecchi membri una grande zona di libero scambio. Finché non saremo riusciti a stabilire una distinzione formale fra chi vuole l’Europa per l’Europa e chi la vuole per altri motivi, l’Ue sarà il peggiore dei condomini: quello in cui una minoranza intralcia il percorso della maggioranza.
Sergio Romano
Editorialista, Corriere della sera
*L’Articolo è stato pubblicato dal Corriere della sera il 27 ottobre 2015