I viaggi in Polonia: aiuti, informazioni, sostegno
Capitolo 13
Io firmavo “in buona fede” i documenti di trasporto, ma nei nostri cartoni pieni di medicine, di pasta, zucchero e vestiti venivano nascosti pubblicazioni, radio trasmittenti, materiale tipografico e altro, che serviva al movimento Solidarność passato alla clandestinità.
I trasporti
Durante il periodo della legge marziale, accompagnano i trasporti con i carichi di aiuti umanitari esponenti dei sindacati, attivisti dell’associazionismo, sacerdoti, volontari. Dopo le prime spedizioni per via aerea si opta per i carichi su Tir.
Lo scambio tra Polonia e Italia
La strategia elaborata dal Comitato di Solidarietà con Solidarność è quella di mandare i pacchi da città diverse con mittenti diversi e di alternare trasporti “puliti” con carichi proibiti: ciclostili, matrici, inchiostro, libri, denaro.
Al ritorno gli accompagnatori portano in Italia altrettanti carichi proibiti: microfilm, registrazioni, riviste clandestine, volantini, informazioni, che confluiscono in preziosi resoconti di viaggio.
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Le immagini che seguono testimoniano il fitto scambio di materiali, spesso proibiti, tra Italia e Polonia durante gli anni della clandestinità di Solidarność,
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«Clima nelle città. È molto diverso da città a città: a Poznań nessuno parla, a Varsavia si sentono invece i commenti nelle “code”, sui treni, per strada, si creano barzellette gustose sul governo, sui militari, sui provvedimenti; a Katowice – ci informò un gruppo di minatori – la gente è tesa e si comporta apertamente in modo ostile con i miliziani.
Le case dei militanti “non ricercati” sono i luoghi più sicuri. Lì si parla, si hanno molte informazioni, si scopre che la rete di opposizione clandestina è molto ampia. I giovani soprattutto […] passano molto tempo a camminare a piccoli gruppi commentando la situazione. I giudizi sentiti da loro sono i più amari: non vedono per loro una via d’uscita, una prospettiva con qualche segno positivo»
Dal rapporto del viaggio in Polonia di Fredo Olivero, dal 18 al 25 gennaio 1982
«La somma maggiore portata in un colpo solo fu trasportata da Fredo Olivero da parte della Cisl nazionale a Solidarność di Varsavia: li consegnammo personalmente al tesoriere, padre Jerzy Popiełuszko. Ci ricevette prima in parrocchia, con un disco che suonava ad alta voce, per confondere le cimici spia, poi ci invitò a pranzo. Mi colpì quella sua aria da ragazzino fragile. Quando fu ucciso mi sembrò un atto a maggior ragione tremendo: ammazzare una persona così indifesa, era come un agnello. Era l’agnello sacrificale.»
Testimonianza di Krystyna Jaworska in K. Jaworska, C. Simiand (a cura di), Solidali con Solidarność. Torino e il sindacato libero polacco, Franco Angeli, Milano 2011
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Politica identitaria, libertà economiche e futuro della democrazia
1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
La forza delle false notizie, la debolezza dei fatti
kit didattico: Come la guerra cambia l’economia?
Crisi, sviluppo, crescita, mobilitazione, investimento. Parole intercambiabili per descrivere un panorama in continuo mutamento. Dove siamo noi? L’economia degli ultimi cento anni ha cambiato la vita di tutti, spesso ha indotto trasferimenti di attività, di persone, di interi gruppi umani.
L’economia nel corso del Novecento ha attraversato un’epoca di radicali trasformazioni – tra progresso e sviluppo, crollo delle borse e boom economico – e ha contribuito in larga parte a rendere il Novecento “Il Secolo breve”.
Politica identitaria, libertà economiche e futuro della democrazia
Nel dibattito sulla fine delle ideologie e intorno al nuovo ordine mondiale che avrebbe sostituto la Guerra Fredda, c’è un “prima” e un “dopo” la tesi de “La fine della storia”. Quanto più aspramente la si critichi, tanto più seriamente è utile prenderla in considerazione dell’influenza che ha avuto, insieme ad altre come quella de “Lo scontro di civiltà” di S.P. Huntington, nel tentare di fornire un nuovo paradigma politico mondiale. La tesi, ormai nota, sosteneva che, collassato il sistema sovietico su se stesso, il capitalismo e la liberaldemocrazia di stampo occidentale fossero ormai il sistema economico e politico più evoluto al quale l’umanità potesse arrivare, tanto che tutti i popoli della Terra lo avrebbero presto adottato. Il mondo sarebbe, sintetizzando la visione, prima o dopo divenuto un luogo omogeneo nel quale tutti avrebbero finito per vivere secondo lo stesso modello, in un’epoca di fine della storia nel senso di fine dell’asse politico di divisione conflittuale.
Per sostenere la sua visione, Fukuyama ha largamente contribuito a diffondere la tesi, propria anche di economisti di massimo rilievo quali Milton Friedman, dell’inseparabilità di libertà politica ed economica. Un assunto secondo il quale capitalismo e democrazia vivono in simbiosi alimentandosi fra i due poli l’un l’altro: liberalismo politico e liberismo economico, libera aggregazione in società civile e libero mercato competitivo, libere elezioni e libera accumulazione come endiadi del sistema che avrebbe assicurato prosperità e benessere a tutti. La variabile che nella sua tesi dell’89 Fukuyama non sembrava aver ponderato sufficientemente, è stato l’impatto della globalizzazione – proprio come avvento di un modello economico omogeneo – e il conseguente aumento esponenziale delle diseguaglianze fino al punto di mettere in crisi la classe media occidentale, classe senza la quale il modello di liberaldemocrazia rappresentativa non può esistere. Questo tema sarà posto proprio da Fukuyama anni più tardi, nel suo articolo “The Future of History” (2012) nel quale si chiederà proprio “Can Liberal Democracy Survive the Decline of the Middle Class?”, osservando:
“The other factor undermining middleclass incomes in developed countries is globalization. With the lowering of transportation and communications costs and the entry into the global work force of hundreds of millions of new workers in developing countries, the kind of work done by the old middle class in the developed world can now be performed much more cheaply elsewhere. Under an economic model that prioritizes the maximization of aggregate income, it is inevitable that jobs will be outsourced. Smarter ideas and policies could have contained the damage”
Così sottolineando che, lontano dall’omogeneità prevista, un asse di divisione politica esiste ancora, almeno nel dibattito fra quali siano le “smarter policies”. In questo senso, pur non arrivando mai alle estreme conseguenze del suo ragionamento, Fukuyama è uno dei maggiori sostenitori dell’assunto sull’indivisibilità fra libertà politiche ed economiche ad accorgersi che, per via della globalizzazione neoliberista, le libertà economiche hanno finito per ridurre notevolmente il raggio d’azione delle libertà politiche, fino a costituire quella “post democrazia” di cui parlano Colin Crouch e molti altri.
La nuova impresa intellettuale costituita da “Identity: The Demand for Dignity and the Politics of Resentment”, sembra approfondire questa parabola di “ripensamenti indiretti”: non solo sul piano economico le tesi della scuola di Chicago e degli austriaci à la Von Hayek a cui Fukuyama sembrava rifarsi in un primo tempo, si sono dimostrate fallaci nel prevedere (o creare, a seconda dei punti di vista) una crisi economica significativa come quella del 2008 e le sue conseguenze, ma anche sul piano culturale il conflitto politico continua a riarticolarsi, lontanissimo da quel “consenso di fondo” minimo che sia Fukuyama sia i maggiori pensatori della fine delle ideologie hanno spesso richiamato. Non stupisce infatti che proprio col crollo delle grandi ideologie novecentesche e l’idea che esse non possano essere sostituite da nulla di consimile, gli assi di conflitto sociale si siano spostati dal piano prettamente politico a quello pre-politico: religioso, nazionale, culturale in senso ampio. Infondo questa era stata già la tesi di Huntington che di Fukuyama ha sempre costituito un “nemico-amico”. Fukuyama osserva così in questo ultimo volume che c’è una versione dell’ “identity politics” progressista (come quella dei movimenti degli anni ’60) e una regressiva e reazionaria, come quella utilizzata dall’Alt-Right e da un esponente di primo piano di quella parte come Donald Trump. Infatti, l’incontro fra le due impostazioni dell’identity politics produce una divisione sempre più significativa fra gruppi “inclusi” ed “esclusi”.
In questo senso, Fukuyama legge i recenti sviluppi – aumento dei consensi ai fautori della “democrazia illiberale”, brexit, fenomeni populisti di vario tipo ecc. – attraverso la chiave della rivolta al polo liberale del sistema contemporaneo: “Over the past few years, we’ve witnessed revolts around the world of the democratic part of this equation against the liberal one” (The Dangers of Disruption, 6 Dic 2016, The NY Times), legandola in Identity a quella della rivolta culturale e della necessità da parte di popoli e categorie di popolo di sentirsi riconosciuti e reagire a ciò che ritengono essere minaccioso per il loro riconoscimento. Accantonata dunque l’analisi socio-politica delle conseguenze della globalizzazione, che avrebbe potuto portare ad una discussione politica del celebre “it’s the economy stupid!”, egli propone invece un’angolatura totalmente differente, la quale contempera la conservazione degli elementi essenziali che lo avevano portato a dichiarare la fine della storia nel trionfo del sistema di globalizzazione neoliberista, con quella che fu la tesi huntingtoniana sullo scontro di civiltà. Ironia del destino per quest’ultimo che aveva scritto il suo volume del ’93 proprio in risposta a Fukuyama, si ha la “saldatura del cerchio” fra polo del conservatorismo e quello del liberalismo che trova in Fukuyama uno straordinario interprete di coerenza.
1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre è l’occasione per una riflessione sulla sua storia, le idee, i modelli, i linguaggi e gli immaginari che hanno condizionato le nostre odierne categorie di progresso, lavoro e felicità sociale. Il contesto storico che ha reso possibile la rivoluzione, la creazione di miti fondativi e la costruzione dell’utopia politica, il lavoro e i nuovi modelli di progresso, la propaganda e la costruzione del cittadino 1.0, sono parte di un bagaglio culturale e politico che, a distanza di oltre 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, possono essere guardati da altre prospettive per comprendere ciò che di originale e potente ha portato il ’17 nel nostro vissuto di cittadini europei. Lo scopo non è farne un bilancio distaccato, ma indagarne i codici culturali e simbolici alla luce degli scambi, delle influenze e delle divisioni tra il mondo sovietico e il resto d’Europa.
In uscita, con l’inaugurazione della mostra 1917-2017. Una storia europea chiamata Rivoluzione, il catalogo, a cura della Fondazione. Il catalogo sarà in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano con i contributi di Massimiliano Tarantino, Gian Piero Piretto, Marcello Flores, Silvio Pons, Boris F. Martynov, Federico Rossin, Vittore Armanni, Chiara Missikoff.
Il catalogo è in vendita presso le librerie Feltrinelli di Milano
La forza delle false notizie, la debolezza dei fatti
La «fake news», le «notizie false», non sono un’invenzione dei nostri tempi. Da sempre chi ha il potere o chi lo combatte, chi crea e controlla l’informazione e chi la subisce, hanno usato a volte lo strumento della «falsa notizia» per raggiungere i propri scopi, che potevano essere politici o religiosi, ideologici o criminali, economici o familiari. Nella storia ci sono stati esempi macroscopici di «notizie false» che hanno continuato a vivere per decenni o per secoli: si pensi alla «scoperta» della cospirazione ebraica internazionale descritta nei Protocolli dei Savi di Sion, forse la più colossale fake costruita poco più di cento anni fa; o si pensi all’accusa rivolta alla regina Maria Antonietta di avere commesso incesto con il figlio, che fu motivo importante della sua condanna a morte, ritenuta verosimile perché da anni i giornali popolari e radicali avevano diffuso la voce delle sue continue avventure libertine con aristocratici e plebei.
In guerra le «fake news» sono state un elemento importante della propaganda e della disinformazione: l’uccisione di centinaia di bambini belgi da parte delle truppe tedesche all’inizio della prima guerra mondiale venne diffusa per stigmatizzare l’uccisione di civili e la violenta distruzione di Lovanio e creduta perché la propaganda martellava da tempo sulla barbarie del soldato germanico. I regimi totalitari, ovviamente, furono tra i maggiori inventori e creatori di «fake news: i nazisti ritennero gli ebrei e i socialdemocratici responsabili della «coltellata alla schiena» che portò alla sconfitta tedesca nel 1918 e i sovietici considerarono nemici del popolo milioni di operai e contadini, riempiendo così, gli uni e gli altri, i campi di lavoro, di prigionia e di sterminio che contrassegnarono la politica criminale dei due regimi.
In Italia, nel dopoguerra, molti giornali a grande diffusione sono stati coinvolti nel falso rinvenimento dei diari di Mussolini, e altrettanto è accaduto in Germania per quelli attribuiti a Hitler. La disinformazione si è sempre presentata in modo articolato, ed è sulla convinzione di una diffusa disinformazione voluta dal potere che sono circolate numerose contestazioni delle verità raccontate dai media. Teorie del complotto hanno messo in discussione che Neil Armstrong, il comandante dell’Apollo 11, avesse mai posto piede sulla luna, o che davvero le Torri gemelle fossero state distrutte dagli attacchi arerei di Al Qaeda l’11 settembre, o che Hitler fosse davvero morto nel bunker di Berlino.
Cosa c’è di nuovo, allora, nelle «fake news» di cui si parla con insistenza da qualche tempo e che sono state ultimamente intrecciate con il termine di «post-verità» (post-truth è stata indicata come «parola dell’anno» del 2016 dagli Oxford Dictionaries)? C’è il mutamento che internet prima e poi il successo e il diffondersi dei social successivamente hanno determinato nel rendere tutti partecipi dell’informazione, quasi che le notizie «vere» possano essere tali solo se approvate, condivise e accettate dalla stragrande maggioranza, e che false notizie possano diventare vere se, a loro volta, condivise e accettate da un numero consistente di persone. Un aspetto centrale delle attuali «fake news» è il rifiuto-accusa delle notizie della carta stampata, ma anche la circolazione di notizie che quella stessa stampa avrebbe censurato: nella campagna elettorale americana del 2016 Donald Trump e i suoi seguaci urlavano «fake news» ad ogni notizia giornalistica che non soddisfaceva il loro punto di vista; e, al tempo stesso, facevano circolare notizie «fake» (su Obama, Hillary Clinton, il competitor di Trump Marco Rubio, ecc) che acquistavano la parvenza di veridicità proprio perché diffuse e rilanciate sui social.
Quando l’obiettività dei fatti diventa meno rilevante e significativa delle convinzioni personali o dei sentimenti e delle emozioni, nel mondo dominato da internet e dai social, la strada per le «fake news» e la «post-truth» diventa sempre più percorribile.