Il sostegno ai detenuti politici
Capitolo 10
In Polonia si annunciano i processi ai cinque membri dell’ex Kor e ai sette dirigenti del sindacato Solidarność. I fatti loro contestati sono anteriori all’instaurazione dello stato di guerra e si riferiscono all’attività allora legale del sindacato e dei suoi dieci milioni di aderenti.
Subito dopo il 13 dicembre 1981 vengono internati 4.000 sindacalisti di Solidarność. In tutta Europa si svolgono manifestazioni di protesta e appelli a favore degli arrestati.Grazie ai viaggi degli attivisti dei comitati del Piemonte e del Veneto, giungono in Italia informazioni sulle condizioni loro e delle famiglie.
Il 23 dicembre 1982 sono liberati quasi tutti i prigionieri politici. Cinque membri dell’ex KOR (Comitato di difesa degli operai) e sette dirigenti di Solidarność vengono arrestati subito dopo il rilascio con le accuse di tentativo di abbattimento con l’uso della forza del sistema socialista vigente. La notizia suscita molto clamore e spinge le organizzazioni sindacali alla mobilitazione attraverso manifestazioni, invio di lettere di protesta, appelli pubblici.
Le amnistie e il termine della legge marziale
Nel luglio 1984 viene proclamata l’amnistia, che rimette in libertà i detenuti, ma, subito dopo, sono nuovamente arrestati Bogdan Lis, Adam Michnik e Władysław Frasyniuk, condannati a 2, 5 e 3 anni.
La legge marziale è revocata il 22 luglio 1983, anche se molti prigionieri rimangono in carcere fino all’amnistia generale del 1986.
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Gli arresti e gli internamenti operati dal regime socialista nei confronti dei membri di Solidarność scuotono l’opinione pubblica di molti paesi occidentali, tra cui l’Italia. Si organizzano manifestazioni di vario tipo per richiedere il rilascio e la libertà politica.
Le immagini che seguono documentano sia le vicende polacche che l’interesse internazionale.
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«Nel penitenziario a Danzica in via Kurwika 12 invece dell’atto di grazia che i prigionieri aspettavano dalle autorità per il 22 luglio hanno ricevuto un bagno di sangue.
Nelle celle entravano gruppi speciali composti da 5 funzionari armati di manganelli, scudi, maschere ed armi da fuoco. Dalle celle venivano trascinati i singoli prigionieri in corridoio, dove gli veniva ordinato di svestirsi completamente e poi picchiati.»
Dalla relazione sui fatti avvenuti nella Regione di Danzica il 23 luglio 1982, dove 15 prigionieri politici sono stati violentemente malmenati dalla polizia (Fondo Solidarność, Fond. Feltrinelli)
Kit didattico: Che cos’è la patria?
Bolsonaro e il golpe del ’64: come il potere controlla e manipola la memoria
Fare Memoria. Una scuola per i cittadini di domani
Il passato al presente. Raccontare la storia oggi
Kit didattico: Che cos’è la patria?
Tra i più importanti cambiamenti messi in atto dalla Grande Guerra c’è sicuramente il concetto di Patria, dalla sua esasperazione fino al suo annullamento.
Il kit didattico si sofferma sull’analisi e la riflessione che portano queste due parole chiave ad esprimere il significato di patria. Addentrandoci nei testi scritti di Boine e Brooke, di Jessie Pope, di Owen, ma anche nel discorso a Quarto di D’Annunzio, possiamo riconoscere quali sono state le ragioni esasperanti che hanno fatto saltare le convenzioni di pace stabilite prima della guerra del ’14-’18?
Cosa pensiamo di Cesare Battisti, eroe nazionale ed irredentista giustiziato a Trento dagli austriaci, nel 1916, che ci lascia in eredità un pensiero: “la patria è quella che si sceglie e non quella in cui si nasce”? Ma la patria è anche il controllo delle risorse. Per i britannici, “padroni dei mari”, è impossibile non reagire quando nel maggio 1915 il transatlantico Lusitania affonda e la guerra chiama in causa anche gli Stati Uniti. E ancora: finita la guerra, dopo il trattato di Versailles del 1919, a quali regole la patria dovrà attenersi?
Bolsonaro e il golpe del ’64: come il potere controlla e manipola la memoria
Sin dagli studi di Maurice Halbwachs, la memoria è stata studiata nelle scienze sociali del ventesimo secolo come un fenomeno collettivo. La sua capacità creativa, né totalmente collettiva né solamente individuale, è una questione che ha alimentato le teorie filosofiche contemporanee della memoria.
Secondo la teoria anamnestica della giustizia del filosofo spagnolo Reyes Mate, l’obiettivo principale della memoria è affrontare l’ingiustizia delle vittime ed evitare che gli stessi errori si ripetano. La memoria è un antidoto alla barbarie perché inseparabile dalla giustizia come suprema virtù etica, e quindi implica un progetto educativo, vale a dire la formazione e la selezione di quel patrimonio di valori e di categorie che si desiderano trasmettere da una generazione all’altra per mantenere determinati vincoli di una comunità politica.
La memoria, tuttavia, è lungi dall’essere un magazzino di cose edificanti. La memoria è pericolosa, perché non risolve i problemi, ma piuttosto li complica, aprendo ferite e esponendoci all’amara constatazione che il nostro presente è costruito sopra molte ingiustizie e sconfitte. Per questo, i politici che conoscono il significato della memoria sono ben consapevoli del suo potenziale critico e sono molto diligenti nello sviluppare politiche di controllo della memoria.
Non c’è politico degno di questo nome che non persegua una politica della memoria o che non voglia addirittura creare una nuova memoria per mezzo di un nuovo calendario e di nuovi culti religiosi, come, durante la Rivoluzione francese, Robespierre aveva tentato di fare illusoriamente attraverso l’introduzione del culto dell’essere supremo.
Diceva Renan che tutti i popoli inventano il loro passato. I nazionalisti hanno successo e funzionano, proprio istituendo un passato assolutamente artificiale. Tutti gli Stati moderni si trovano a dover inventare il loro passato, come se avessero bisogno di grandi eroi e grandi feste con le quali identificarsi. Questo artificio diventa esplicito quando la memoria porta allo scoperto un passato assente, che guasta le feste del passato costruito sulle pratiche dei vincitori. Il passato assente è quello delle vittime che non poterono arrivare ad esistere e che, pertanto, non hanno altra difesa se non la memoria degli altri.
Su questo sfondo possiamo valutare a quale livello di aberrazione arrivano le recenti affermazioni del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che nel giorno di domenica 24 marzo, secondo il suo portavoce, avrebbe dato istruzioni al ministero della difesa perché le forze armate commemorassero nel modo più appropriato la data del colpo militare del 31 marzo 1964 – avvenuto, in realtà, nelle prime ore del 1˚ aprile, conosciuto in Brasile come giorno della menzogna (Dia da Mentira) –, che dette inizio a 21 anni di dittatura.
Perché il presidente di una moderna democrazia incoraggia la celebrazione di un evento che racchiude tutto il contrario della democrazia? Perché Bolsonaro non considera la presa di potere da parte dei militari come un colpo di stato. Anche se il golpe fu il principio di un periodo di eccezione, caratterizzato dalla censura, dalla cassazione dei diritti politici, dalla tortura degli avversari politici e dalla chiusura del Congresso Nazionale, al presidente Bolsonaro piace credere che l’‘intervento’ militare fu la salvezza della civiltà da una fantomatica minaccia comunista.
La giornalista brasiliana Hildegard Angel, i cui parenti sono morti a causa dei militari, commenta rattristata per la rivista The Guardian che la celebrazione dell’anniversario del ’64 in Brasile è come l’istituzione di una giornata alla memoria di Hitler in Germania.
Certamente la posizione di Bolsonaro illustra quello che gli storici chiamano negazionismo. Ma questa negazione del golpe, con l’esplicito corollario secondo cui la democrazia e la libertà esistono solamente se i militari lo vogliono (secondo la dichiarazione del 7 marzo, in occasione della cerimonia di anniversario del corpo dei fucilieri navali di Rio de Janeiro), non è una nuova rivelazione sulle opinioni di Bolsonaro, che non ha mai fatto mistero di ammirare la dittatura. Se Bolsonaro è riuscito a farsi eleggere, è anche perché la dittatura militare non è mai stata superata, al punto che la sua memoria può essere utilizzata come combustibile per alimentare l’odio, per nutrire il risentimento sociale della parte più crudele e retrograda del Brasile, quella che si identifica nell’immaginario del maschio bianco autoritario, che odia il politicamente corretto e si allarma per una presunta dominazione del mondo da parte degli omosessuali, dei neri e delle donne.
Per chi sta lontano dai palazzi della politica è difficile capire se le dichiarazioni sul golpe del ’64 sono solo esternazioni spontanee di un politico sconsiderato, che da tempo ha abituato i brasiliani a ‘uscite’ di questo genere, o se dietro ad esse c’è un preciso calcolo politico della sua corte di consiglieri e agenti di marketing. Se questo fosse il caso, il loro scopo non sarebbe altro che quello di sollevare un polverone, di provocare un’onda di indignazione che distolga l’attenzione dell’opinione pubblica dalle azioni concrete del suo governo, specialmente del ministro dell’economia Paulo Guedes, che in questi giorni è in difficili trattative con i deputati per far approvare la riforma della previdenza sociale con pesanti effetti sulla vita di milioni di lavoratori.
Le dichiarazioni scioccanti e la retorica di rendere il Brasile una patria grande e rispettata potrebbero essere nient’altro che una cortina di fumo per nascondere la pratica della vecchia politica di compravendita dei voti e distribuzione di incarichi e benefici.
Indipendentemente dalla strategia del governo, di cui il presidente appare ogni giorno di più come uno scervellato fantoccio, il progetto populista di un Brasile ‘al di sopra di tutti’, con Dio ‘al di sopra di tutto’ (secondo lo slogan della campagna presidenziale) non va compreso come il progetto di creazione di una nuova memoria storica, ma come la creazione di un mondo immaginario, indifferente alle categorie di vero e falso e basato sulla rimozione costante del senso storico.
Come è stato osservato dal giornalista brasiliano Juremir Machado da Silva in un suo strepitoso editoriale risalente all’epoca delle elezioni del 2018, bisogna comprendere che Bolsonaro non è soltanto un individuo, ma incarna un immaginario: quello di un soggetto disinformato che sostiene che la dittatura non è esistita, o che – se è esistita – era un regime senza corruzione, che purtroppo non è andato così a fondo come doveva nello sterminio dei suoi oppositori.
Bolsonaro è un soggetto proteiforme, che intercetta le varie figure dell’uomo medio del suo paese, dominato dalla massima del “jeitinho brasileiro”, consistente nello sfruttare ciò che è pubblico per trarne vantaggi privati. Bolsonaro ha dunque tante facce:
“È l’imprenditore ambizioso che rinuncia alla democrazia se si tratta di guadagnare più soldi. È il produttore che vede un’esagerazione in certe denuncie di lavoro schiavo. È l’uomo che ritiene normale, in momenti di stress, chiamare ‘puttana’ una donna. L’elettore tipo di Bolsonaro sogna una società di uomini armati per strada, senza legislazione del lavoro, senza scioperi, senza sindacati, senza libertà di stampa. […] Bolsonaro è un modo di essere nel mondo basato sulla truculenza, sulla restrizione della libertà, sull’eliminazione della complessità, sul troncamento dei processi di presa di decisione. Bolsonaro condensa un’interpretazione del mondo che non sopporta la diversità, il rispetto della differenza, la pluralità, il dissenso, il conflitto, lo scontro. Incolto, ignora la storia. Non esiste debito con gli schiavizzati e con i loro discendenti. La colpa per l’infamia della schiavitù non è di chi schiavizzò. Il presente si esime dal passato. Bolsonaro è l’ignoranza che ha perso la vergogna”
(Juremir Machado da Silva, Correio do Povo, editoriale, 8 settembre 2018)
Fare Memoria. Una scuola per i cittadini di domani
Zygmunt Bauman, in un libro uscito nel gennaio 2018 a un anno dalla sua morte (L’ultima Lezione, Laterza), ha scritto che “Tenere vivo il passato, è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria, che sceglie, rielabora e ricicla. Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati”.
Dunque ricordare è sempre un atto che noi compiamo nel presente e ciò che descriviamo è sempre approssimativo. La scena esatta del passato è sempre il risultato di molte memorie diverse che si incrociano, si incontrano, si confrontano, talvolta trovando punti di convergenza, oppure di conflitto.
La memoria dunque non è ciò che nel passato è avvenuto. È, allo steso tempo molto di più, ma anche molto di meno. Soprattutto oltre a ricostruire il passato indica le intenzioni di chi ricorda, di chi vuole ricordare.
La memoria tuttavia non è solo quella del singolo, ma anche quella dei gruppi umani, delle collettività, e delle nazioni.
C’è stato un tempo – il tempo della nazione – in cui le date memorabili che hanno fatto la storia della costruzione della nazione hanno dato il senso dell’identità collettiva. La date delle paci raggiunte, degli atti pubblici che segnano le forme del potere organizzato, entrano come date istituzionali e essenziali di quel calendario.
A partire dagli anni ‘90 quella modalità ha avuto delle modifiche. È iniziato da allora un tempo in cui il calendario civile non era più solo la storia della nazione, ma anche quello della costruzione di una dimensione universalistica dell’essere cittadini, in cui le date memoriali, che fossero profondamente radicate nella storia nazionale o meno, dovevano esprimere valori.
Il calendario civile da allora ha iniziato ad assumere una diversa fisionomia, caratterizzato da un rinnovato modo di intendere la storia del gruppo nazionale: non solo le date “diplomatiche” o “politiche” (paci, unità nazionale; fondamenti legislativi, …) ma anche quelle legate agli eventi che includono valori. In questo caso centrali diventano le persone.
Pensare il cittadino di domani significa per questo tornare a riflettere sul senso della dignità, della vita da vivere, della qualità dello stare insieme. In quel caso l’evento collegato non ha valore solo descrittivo, ma anche prescrittivo.
Ciò che cambia, dunque, è il profilo del contenuto di ciò che chiamiamo “Memoria”.
Quella parola che un tempo era associata all’idea di ricorso, di tradizione, comunque di una cosa che rimane nel tempo, si è trasformata nel nostro tempo attuale in ciò che “dobbiamo ricordare”, laddove con questa espressione si intende sia ciò che non possiamo dimenticare, sia ciò che, se eventualmente avessimo lentamente rimosso, dobbiamo recuperare e mettere al centro della nostra memoria, sia infine dare un volto e dunque dignità di memoria non tanto e solo a eventi e a figure, ma a significati che le storie di persone che intendiamo proporre contribuiscono a definire.
Memoria più che un dato, per noi è un risultato, ovvero l’effetto e la conseguenza di uno sforzo e dunque di un’intenzione.
Fare memoria ora implica predisporre altri e rinnovati percorsi per definirla, darle un volto. Più spesso quel volto non è un concetto, ma è l’insieme dei molti volti, concreti, con nomi e cognomi di persone perché è conseguente alla narrazione di storie concrete, persino “minute”, in cui al centro non sta l’eroe, ma il cittadino comune. In breve “noi”. Dove dunque il tema più spesso è la storia concreta, carica di incertezze, di contraddizioni, di svolte, di imprevisti, perché niente diventa più esemplare e “istruttivo” della storia singolare che insieme a molte altre – non perdendo niente della sua singolarità, ma consapevole della sua “parzialità” – che si fa storia pubblica aiutando a dare forma a una storia condivisa.
Auschwitz
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dunque attraverso le seguenti attività di Scuola di Cittadinanza Europea, riferendosi agli studenti delle scuole secondarie di II grado, intende guidare gli studenti nel fare memoria attraverso la ricostruzione di percorsi e alla partecipazione a storie di personaggi che hanno contribuito o contribuiscono alla creazione di quella storia condivisa a cui si fa riferimento nelle righe precedenti.
17 gennaio – Scuola secondaria di II grado
Tracce, parole e segni. Un percorso di memoria storica
Dopo la lettura del libro Non restare indietro di Carlo Greppi e un commento in classe gli studenti potranno riflettere e confrontarsi sulle vicende legate alla Seconda guerra mondiale e al dramma delle leggi razziali e delle deportazioni. Le riflessioni e le domande emerse in classe saranno il punto di partenza per un incontro restitutivo presso Fondazione, dove i ragazzi dialogheranno con l’autore e uno storico della Fondazione per un approfondimento sul libro e sul tema della memoria contemporanea.
22 gennaio – Scuola secondaria di II grado
Che cos’è la patria? Gente nostra, sangue nostro
Attraverso lo studio di figure che hanno avuto un rapporto controverso tanto con l’idea di patria quanto con il concetto di confine – ad esempio Cesare Battisti ma anche Gabriele D’Annunzio o Wilfred Owen – si cercherà di comprendere cosa s’intende quando si parla di patria oggi: se si intende quella in cui si nasce o quella che si adotta. Il laboratorio proposto alle classi permette di mettere a confronto le dimensioni e i significati del concetto, soffermandosi sulle accezioni di esasperazione e del suo annullamento, spaziando tra il pre 1914 e il post 1918. Kit didattico digitale e attività laboratoriale restitutiva presso la sede della Fondazione.
25 gennaio – Scuola secondaria di II grado
I luoghi della memoria. Itinerario di storia e tolleranza
Dopo la lettura del libro Una speranza ostinata di Max Mannheimer, le riflessioni e le domande emerse in classe saranno il punto di partenza per un percorso di approfondimento sul tema della memoria contemporanea. Gli studenti parteciperanno ad una passeggiata guidata tra le Pietre d’inciampo di Milano, un monumento diffuso e partecipato, progettato e realizzato in tutta Europa dall’artista tedesco Gunter Demnig, per ricordare le singole vittime della deportazione nazista e fascista. Le classi interessati saranno guidate alla progettazione e alla produzione di una mini-guida delle pietre di inciampo di Milano che possa essere utilizzata dalle scuole interessate che verrà pubblicata sui siti di Scuola di cittadinanza europea e di Add editore.
Il passato al presente. Raccontare la storia oggi
Descrizione dell’eBook
La storia tradizionalmente l’hanno raccontata gli storici attraverso i libri.
Ma il passato ci raggiunge anche attraverso molte altre fonti, altri media e linguaggi: dalle lettere ai film, dai diari alle canzoni, dalle fotografie al web, fino ai luoghi della storia e i nostri stessi ricordi; tracce di memoria disperse nel nostro quotidiano che ci investono direttamente e in prima persona.
In questi brevi saggi Paolo Rumiz, Carlo Greppi e David Bidussa riflettono su cosa voglia dire raccontare il passato oggi, dentro e fuori le barriere cartacee del libro, rimettendo in primo piano il coinvolgimento attivo di chi finora la storia l’ha soltanto recepita passivamente, ma potrebbe forse tornare a viverla.
Conosci gli autori
Paolo Rumiz è giornalista de “La Repubblica” e “Il Piccolo” di Trieste. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti naviganti (2007), Annibale (2008), L’Italia in seconda classe. Con i disegni di Altan e una Premessa del misterioso 740 (2009), La cotogna di Istanbul (2010, nuova edizione 2015; “Audiolibri – Emons Feltrinelli”, 2011), Il bene ostinato (2011), la riedizione di Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia (2011), A piedi (2012), Trans Europa Express (2012), Morimondo (2013), Come cavalli che dormono in piedi (2014), Il Ciclope (2015) e, nella collana digitale Zoom, La Padania (2011), Maledetta Cina (2012), Il cappottone di Antonio Pitacco (2013), Ombre sulla corrente (2014).
Carlo Greppi è dottore di ricerca in Studi storici, collabora con Rai Storia – come presentatore, inviato e ospite – ed è membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”. Il suo libro L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (Donzelli 2012) ha vinto il premio “Ettore Gallo”, destinato agli storici esordienti. Per Feltrinelli ha pubblicato La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria (“Zoom”, 2015; in e-book) e Non restare indietro (“Kids”, 2016). Collabora anche con il blog culturale Doppiozero e con la Scuola Holden (Biennio in Storytelling & Performing Arts). Socio fondatore dell’associazione Deina e presidente dell’associazione Deina Torino, organizza da diversi anni viaggi della memoria e di istruzione, con i quali ha accompagnato oltre ventimila studenti provenienti da tutta Italia ad Auschwitz e in altri ex lager del Terzo Reich, alla scoperta della storia.
David Bidussa, storico sociale delle idee. È il responsabile delle attività editoriali e didattiche di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Ha pubblicato: La France de Vichy (Feltrinelli, 1997); I have a dream (BUR, 2006); Siamo italiani (Chiarelettere, 2007) Dopo l’ultimo testimone (Einaudi, 2009); Leo Valiani tra politica e storia (Feltrinelli, 2009). Ha curato Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci (Chiarelettere, 2011), La vita è bella di Lev Trockij (Chiarelettere, 2015) e Norberto Bobbio – Claudio Pavone, Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri 2015).Per Feltrinelli ha curato Il volontariato (con Gloria Pescarolo, Costanzo Ranci e Massimo Campedelli; 1994), per i “Classici” ha curato Fratelli d’Italia (2010) di Goffredo Mameli e ha scritto la postfazione a Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (2014). Ha collaborato al volume Sinistra senza sinistra (Feltrinelli, 2008) con la voce ‟Uso pubblico della storia”.
€ 3,99