Solidarność, dalla nascita del sindacato alla legge marziale
Capitolo 1
Il nostro programma è semplice: vogliamo che i lavoratori possano vivere con dignità nel proprio paese; che la miseria e la fame non pesino sulla vita di nessuna famiglia polacca; che non si sprechi più il nostro lavoro.
Le proteste operaie
Il 9 agosto 1980 le autorità dei Cantieri navali di Danzica licenziano l’attivista dell’opposizione Anna Walentynowicz. Il 14 agosto gli operai scendono in sciopero. Oltre a chiedere la sua riassunzione, rivendicano l’aumento dei salari e dei sussidi, nonché la costruzione di un monumento in memoria degli operai dei cantieri, vittime delle repressioni del dicembre 1970. La notte tra il 16 e il 17 agosto viene costituito il Comitato Internazionale di Sciopero (MKS) presieduto da Lech Wałęsa e sostenuto da intellettuali chiamati a far parte di una “commissione di esperti”, tra cui Bronisław Geremek e Tadeusz Mazowiecki.
La nascita di Solidarność
Grazie all’irremovibilità degli scioperanti e alla diffusione delle proteste nelle fabbriche di tutto il Paese, il 31 agosto il governo cede alle richieste dei manifestanti. L’accordo stipulato tra Lech Wałęsa e le autorità dello Stato sancisce la nascita del Sindacato Indipendente Autogestito Solidarność.
Nell’autunno del 1981, al 1° Convegno nazionale, i delegati di Solidarność approvano il programma del sindacato “La Repubblica di Polonia Autonoma e Indipendente” che diventa simbolo dell’idea di democrazia e autogestione.
La repressione del governo
Il 13 dicembre 1981 il generale Wojciech Jaruzelski, capo di Stato e primo segretario del PZPR (Poup: Partito Operaio Unificato Polacco), proclama lo stato di guerra. Vengono internati migliaia di esponenti dell’opposizione. È sospesa la maggior parte delle libertà civili, hanno inizio una catena di licenziamenti e una serie di processi politici.
Bogdan Lis, Zbigniew Bujak, Władysław Frasyniuk e Władysław Hardek, fra i pochi leader di Solidarność rimasti in libertà, invitano a proseguire la lotta in clandestinità.
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Di seguito viene riproposta la bacheca del primo pannello della mostra, allestita con due fotografie e due manifesti, quattro icone che rappresentano la dichiarazione dello stato di guerra – il 13 dicembre 1981 da parte del generale Wojciech Jaruzelski, capo di Stato e primo segretario del PZPR (Poup: Partito Operaio Unificato Polacco) – per contrastare Solidarność.
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Danzica 1980 – Danzica 2019: cosa nasce e cosa finisce?
Spazio di cittadinanza, idee in movimento
Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
A cent’anni dall’inizio della Rivoluzione Russa si analizzano le trasformazioni e l’impatto, anche a livello globale, che ha comportato un avvenimento storico di questa portata.
Viene ripercorsa la vicenda da un punto di vista storico attraverso le tappe di sviluppo più importanti dal 1917 a oggi. Il kit didattico approfondisce i temi che portano alla conoscenza di una “grande trasformazione” politica, sociale, culturale e economica quale fu quella portata dalla rivoluzione bolscevica che ebbe ripercussioni profonde non solo nella storia russa e europea del XX secolo, ma in quella di tutto il mondo. Il mito che essa generò fuori dalla Russia alimentò infatti aspettative e speranze di riscatto che furono alla base di molti movimenti di liberazione nazionali nel lungo e complesso processo di decolonizzazione.
Viene illustrato il ruolo che le donne svolsero nella rivoluzione e gli apporti che alcune di loro diedero non solo alla formulazione politica della questione femminile, alla lotta per l’uguaglianza e la parità dei diritti della donna, ma anche alla realizzazione di una legislazione sociale all’avanguardia per la tutela delle donne nella Russia degli anni tra il 1917 e il 1920.
Joseph Roth, invece, rappresenta uno dei primi testimoni occidentali che raccontano come veniva percepiti gli eventi di quel periodo; infine un attento lavoro di ricerca porta alla luce il tema della costruzione della memoria nella Russia di oggi in cui, a cento anni di distanza, la Rivoluzione d’ottobre rimane un’eredità difficile da gestire, raccontare e celebrare.
Danzica 1980 – Danzica 2019: cosa nasce e cosa finisce?
L’uccisione di Pawel Adamowicz, sindaco di Danzica, esponente di Solidarność, domenica sera per opera di un simpatizzante politico della destra nazionalista che oggi governa la Polonia, conferma un dato che è nelle cose ma che ancora facciamo fatica a nominare.
In molte parti d’Europa sta tornando il fascino per il totalitarismo. Con questo termine non si deve intendere solo ed elusivamente la costruzione di una società del terrore, ma soprattutto la pratica della delegittimazione delle opinioni diverse. Ovvero la sconfessione – se non addirittura la messa al bando – di opinioni politiche fondate sull’idea che la democrazia è conflitto, è confronto tra opinioni diverse, tra idee di società e di governo aperte e divergenti. L’uccisione di Pawel Adamowicz dice che oggi, come quaranta anni fa, l’opinione antitotalitaria è tornata a essere pericolosa in Polonia. Lo scrive Adam Michnik, l’ultimo esponente di quel ’68 polacco, poi leader di Solidarność, che ricorda a noi tutti quale sia il campo magnetico del totalitarismo, ma anche quale sia la sfida che la Polonia lancia a se stessa da molto tempo, almeno dal Secondo dopoguerra: essere una democrazia fondata sulla dialettica o una comunità organica senza opposizioni.
Sono le parole che riprendiamo da un suo discorso pronunciato il 10 dicembre 1984 in occasione della laurea honoris causa della New School for Social Research di New York, conferitagli dal rettore di tale università venuto appositamente in Polonia. La cerimonia si svolse a Varsavia, nell’abitazione del professor Edward Lipinski, membro fondatore del Comitato di difesa degli operai, assediata dalla milizia.
Michnik era appena stato scarcerato e non aveva diritto di parola pubblica. E’ presumibile che questa sia ancora la scena di oggi, 15 gennaio 2019, 35 anni dopo, nella Polonia non più comunista, ma ancora affascinata dal totalitarismo che sta di fronte a noi.
NOI DI “SOLIDARNOSC”
La situazione in cui versano da quarant’anni il mio paese e il mio popolo, nonché tutti i paesi gravitanti nell’ambito del potere comunista, è caratterizzata dall’ordine totalitario di stampo sovietico. Esso determina quotidianamente l’esperienza dei popoli e degli individui. Poggia sulla forza e si accompagna alla convinzione che la forza sia l’unica legittimazione logica del potere e anche il principio fondamentale dei rapporti interumani.
La protesta contro tale principio costituisce l’essenza dell’opposizione antitotalitaria. Tutte le voci — spesso diverse tra loro — provenienti dalle nostre file sono accomunate dal medesimo denominatore: il rifiuto della filosofia politica fondata sul culto della forza. Su questo punto convergono Sacharov e Solgenitsin, Milosz e il cardinale Wyszynski, Vaclav Havel e Robert Havemann. Su questo punto si sono trovati d’accordo polacchi delle più diverse convinzioni e dei più svariati ambienti, per creare Solidarność — sindacato e insieme movimento sociale antitotalitario.
Nell’autunno 1981, quando sulla Polonia si addensavano nuvole minacciose e da ogni parte risuonava il latrato delle minacce unito allo scalpiccio degli scarponi militari, Zbigniew Herbert scrisse l’ormai famosa poesia 1 7 . IX, dedicata a Józef Czapski. Eccola:
La mia patria inerme ti accoglierà invasore
e la strada per cui Hansel e Gretel trotterellavano a scuola non si spalancherà in un abisso
Fiumi troppo pigri non inclini ai diluvi
i cavalieri addormentati sui monti continueranno a dormire ti sarà quindi facile entrare ospite non invitato
Ma i figli della terra si aduneranno di notte ridicoli carbonari congiurati della libertà puliranno le loro armi da museo
giureranno sull’aquila e i due colori
E poi come sempre — bagliori ed esplosioni ragazzi gagliardi condottieri insonni
zaini pieni di sconfitte rossastri campi di gloria la confortante coscienza di essere — soli
La mia patria inerme ti accoglierà invasore e ti darà due metri di terra sotto il salice — e la pace perché chi verrà dopo di noi apprenda di nuovo la più difficile delle arti — la remissione delle colpe’.
2 In Zbigniew Herbert, Rapporto dalla Città assediata, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1993, p. 213; p. 97 per citaz. a p. 35.
Questa splendida poesia, piena di eroismo e di amara ironia, illustra l’esperienza polacca meglio di qualunque articolo di rivista o di giornale. Un’esperienza, ossia una guerra permanente per la libertà, solitamente considerata come una caratteristica congenita dei polacchi e che oggi si rivela invece la fonte della loro forza spirituale.
Quei ridicoli carbonari, quei congiurati della libertà sono stati volta a volta i partecipanti alle insurrezioni nazionali e alle rivolte libertarie, i cavalieri delle perdute guerre d’indipendenza e i combattenti dell’ultima, impari lotta contro il totalitarismo hitleriano, conclusasi drammaticamente il 17 novembre 1939 con la coltellata inferta da Stalin nella schiena dell’aspirazione polacca alla libertà.
Ma a giurare “sull’aquila e i due colori” ci siamo anche noi di “Solidarność”. Come dobbiamo sembrare ridicoli agli osservatori neutrali! “La resistenza degli inermi fa ridere, perché la debolezza è ridicola”, constata amaramente Milosz3. E aggiunge:
Il concetto di umanità sfugge alle definizioni, ma acquista concretezza quando un qualche comportamento ne diviene l’esempio. Un ragazzo arrestato perché in casa sua sono stati scoperti volantini di protesta si trova davanti una scelta: cinque anni di prigione, oppure firmare una dichiarazione di lealtà e tornare a casa. Il ragazzo non firma. Agli occhi dell’ufficiale della polizia politica che gli sottopone l’offerta, il rifiuto appare assurdo: secondo lui il mondo è strutturato in modo che le cose vengano decise dalla forza materiale, e la forza materiale sta dalla parte della polizia. In questi scontri della necessità anonima, in nome della quale agisce il funzionario, alla libertà del singolo prigioniero s’intreccia tutta la grande problematica esistenziale. L’atto di rifiuto, infatti, non si basa su niente, non scaturisce da nessun calcolo: anzi tutto parla contro di esso, eccettuata la voce interiore che vieta di cedere alla pressione della forza vittoriosa. Siamo tutti eredi della Bibbia e riconosciamo subito la situazione archetipica del “giusto”, perseguitato dalle forze del mondo che deridono la sua fedeltà a un ordine impartito dall’alto.
Agli esperti dei tortuosi meccanismi della politica, piccola o grande che sia, le parole di Milosz suonano come onesti luoghi comuni. Infatti sono i poeti, non i politici, a scoprire le verità di questa nazione. Chi non ascolta la voce della letteratura polacca, non capisce la Polonia.
Spazio di cittadinanza, idee in movimento
“Ci hanno privatizzato le piazze” disse una ricercatrice durante un incontro nella sede storica della Fondazione, in via Romagnosi.
Eravamo una dozzina attorno ai tavoli usati abitualmente per consultare carte d’archivio e libri storici e allora destinati ad accogliere un workshop sulle nuove economie collaborative.
Stavamo provando ad immaginare uno dei tasselli che avrebbero potuto animare la nuova sede di Viale Pasubio: volevamo individuare un modello di spazio di coworking evoluto, il giro di tavolo serviva a coinvolgere esperienze e idee diverse. Quello fu l’intervento più politico, l’analisi di un bisogno condiviso da molti, e da altri visto con il rammarico del tempo che passa e che ci consegna ad involuzioni tristi quanto inevitabili.
Viale Pasubio
Il tempo recente, quello spazio tra il secondo dopoguerra e gli anni 2000, ha destinato le piazze, si disse attorno al tavolo, a ragioni private. O meglio ne ha cambiato la vocazione: da luoghi di lotta, di socialità e di pensiero a corridoi di passaggio tra un cartellone pubblicitario e un altro. Soprattutto ha modificato gli animi dei suoi abitanti.
Quei cittadini, soprattutto giovani, che un tempo animavano le piazze fino a renderle un fattore perpetuo di cambiamento, oggi invece sono soli, distanti, distratti: si è persa la dimensione collettiva.
Quel bene primario che è lo stare insieme, il condividere un destino e investire energie non solo per l’affermazione del singolo ma per una dimensione più allargata di benessere e qualità di vita, che la piazza metaforicamente rappresenta, oggi è sbiadito o forse svanito.
Mancano i luoghi nei quali è consentito il confronto senza che questo passi immediatamente ad essere esibizione di sé. Mancano dinamiche di confronto ampio, duro, sincero che diano il senso della costruzione collettiva di futuro, quella speranza di poter cambiare le cose anche e soprattutto con la forza delle idee.
Mancano le forme con le quali la politica possa essere centrale in questo progresso, si possa far capire e respinga l’ascolto strumentale al riscontro elettorale, per condividere con i cittadini il piacere per un percorso di trasformazione sociale che non lasci escluso nessuno.
Ma se nel corso di questi decenni televisioni, telefonini, internet, app, chat, la rincorsa al tempo sempre più breve e alla conoscenza sempre più visiva, facile, emotiva hanno stravolto le dimensioni dello stare insieme, sono molte le reazioni spontanee dal basso che provano a ridare fiducia alla forza della collettività e una forma diversa al cambiamento.
Si va dagli esempi estremi di nuove comunità autogestite che ignorano il progresso e si escludono dal resto del mondo per proteggere le nuove generazioni, agli esempi opposti dei fenomeni di massa legati alle economie collaborative, nuove e moderne forme di baratto hi tech, fino alle forme urbane di condivisione degli spazi per dare il via a nuove imprese o occasioni di impresa.
Ma è vera condivisione? “Siete mai andati in uno dei tanti luoghi di coworking? – chiese un altro ricercatore partecipante alla tavola rotonda – Belli, funzionali, ma salta agli occhi che i partecipanti condividono uno spazio ma non le idee. Ciascuno davanti al proprio pc, si lavora, si progetta, si prova ad uscire dagli schemi del posto fisso ma in una dimensione di autonomia accentuata, di percorso di sopravvivenza che guarda al sé e non al noi.”
Quella discussione mise in evidenza la vera dimensione che avremmo potuto dare alla nuova sede della nostra Fondazione: una piazza, contemporanea, meticcia, accessibile, utile.
Uno strumento per entrare nelle trasformazioni della società che parta dalla storia, da quello che siamo stati, ne faccia conoscere le esperienze, i momenti di coraggio, di eccesso, le energie che ci hanno condotto sin qua, e che abiliti le risorse e le idee che possono essere in grado di progettare il futuro.
Uno spazio collettivo costruito sulla base del principio che essere cittadini significa conoscere e partecipare, non desistere dall’idea che si possono cambiare le cose. Uno spazio che guardi alle grandi criticità della società contemporanea in modo attivo, propositivo, sviluppando occasioni di confronto che siano in grado di dialogare ed essere comprese da tutti.
La Sala di Lettura di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Qualcosa che arrivi ad essere disarmante per innovazione e radicale per concretezza: un luogo, certo, ma di progetto.
Siamo partiti da qui per elaborare un nuovo modello di Istituzione culturale che guardi a quanto creato nei 70 anni di attività che la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha alle sue spalle ma che si confronti allo stesso tempo con il mondo contemporaneo, lo sappia intercettare e portare a Milano. Uno spazio inedito che si apra a tutto quanto non sia solo ricerca e elaborazione ma anche azione, arte, narrazione per divenire, nella complessità della sua offerta, un luogo dinamico, in movimento, come l’autentica dimensione di cittadinanza dovrebbe essere.
Dal 1949 la Fondazione raccoglie e mette a disposizione libri e documenti. Oggi è una delle raccolte più importanti in Europa, in alcuni settori al mondo, sulla storia delle idee, sulle azioni che sono seguite a quelle idee e soprattutto sui movimenti che hanno reso protagonisti i cittadini, e molto spesso i cittadini/lavoratori, nella storia contemporanea.
Dall’Illuminismo alla nascita dei movimenti operai e collettivi, dalle lotte per i diritti di tutte le minoranze nell’America degli anni ’60 alle rivoluzioni e controrivoluzioni del SudAmerica fino alle ricostruzioni della storia di Cuba, del ‘900 della Russia, di tutti i movimenti di resistenza del ‘900 europeo, il fascismo e l’antifascismo, la storia del sindacalismo europeo, la storia del pensiero politico continentale, Solidarność, la Comune di Parigi ma anche i movimentismi africani e asiatici.
Libri, carte, carteggi, lettere, manifesti, testimonianze di minoranze che hanno cambiato le cose credendo in ideali, condividendo pensieri e impegnandosi in prima persona, anche per ampliare il consenso a delle cause cui molto spesso era estremamente pericoloso aderire.
L’Utopia di Thomas More. Fonte conservata nella biblioteca di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Per gli scienziati sociali, per gli studenti e i ricercatori si tratta di straordinarie fonti per capire e ricostruire, nonché immaginare e studiare omologhe iniziative contemporanee. Per tutti gli altri, anche per noi chiamati ad immaginare la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli del futuro assieme agli studiosi, si tratta di esempi. Modelli cui guardare nel momento in cui uno spazio, come la nostra nuova sede di Viale Pasubio, intende mettersi al centro di una fase di cambiamento, non per influenzarla e guidarla ma abilitarla e promuoverla.
Lo faremo in vario modo. Ricordando, e quindi affidandoci a modalità pluridisciplinari (mostre, conferenze, incontri, documentari, format didattici, pubblicazioni) per conferire alla memoria il ruolo di guida rispetto alle criticità del contemporaneo. Intrattenendo, e quindi lasciando spazio alle forme con le quali le arti figurative, quelle performative, il cinema, il teatro hanno dato e continuano a dare spazio a momenti e personaggi della storia e dell’attualità che possono aiutare a sentirsi parte di una comunità in continua evoluzione.
Facendo rete con tutte le istituzioni pubbliche e private, le fondazioni e i centri di ricerca che a livello nazionale e internazionale possono aiutarci ad arricchire la nostra offerta, ma soprattutto promuovendo la ricerca: lo stimolo ad andare oltre ciò che è noto per generare idee, pratiche e soluzioni che ci mettano in contatto con i fenomeni che stiamo vivendo e ci aiutino a costruire un domani più equo, giusto, di tutti.
Perché lo facciamo? Dietro ad un impresa di questo genere, che ha alle spalle una storia e delle scelte come quelle compiute non solo dalla Fondazione in settant’anni di attività di ricerca ma anche da tutte le realtà che portano il nome Feltrinelli in Italia e nel mondo, ci sono spinte di qualche genere, condizionamenti e obiettivi che mirano a fare esattamente cosa?
Non è una domanda retorica: ci è stata posta infatti, in modo puntuale, durante un recente viaggio organizzato per stabilire delle alleanze di ricerca su uno dei temi che ci stanno più a cuore, la storia, l’identità, l’idea di cittadinanza europea.
Nel novembre del 2015 la Fondazione ha incontrato a Mosca i rappresentanti di una serie di università e centri di ricerca locali con l’obiettivo di promuovere un progetto internazionale che racconti gli avvenimenti della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e li metta in relazione, a 100 anni di distanza, con le trasformazioni economiche e sociali del continente europeo lungo questo secolo di storia.
Presso l’Accademia delle Scienze ci viene fatta la stessa domanda che mesi dopo ci sarà formulata presso l’Ambasciata russa in Italia: qual è la vostra tesi?
La risposta sta nella priorità che ci siamo dati e nel metodo con il quale la stiamo perseguendo: noi siamo una piattaforma di abilitazione per la ricerca e un terreno d’incontro e di confronto per operatori, istituzioni, cittadini.
Il nostro dna è scritto nei nostri libri e nei nostri archivi e nello scopo con il quale il fondatore Giangiacomo Feltrinelli ha iniziato quasi settant’anni fa a collezionarli: dare eguale dignità a tutti i protagonisti della storia, agli operai, ai rivoluzionari, ai contadini, ai sindacalisti, come agli statisti, agli ideologi, ai grandi pensatori. Le nostre finalità sono molto semplici: aprire nuove opportunità di conoscenza e creare nuove occasioni di lavoro.
Fare dell’insieme delle nostre iniziative un fattore di politica partecipata è la nostra ambizione. Forse è una tesi, sicuramente è la sfida più grande che ci troviamo davanti.
Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia
Descrizione dell’ebook
A seguito dell’esplosione della crisi economica nel 2008, come in altri passaggi storici, ha preso piede una profonda trasformazione tecnologica che ha fatto parlare di “quarta rivoluzione industriale” che, si dice, renderà sempre più superfluo il lavoro. Siamo davvero entrati in una “nuova” epoca e in cosa consiste la trasformazione in corso? Qual è la cifra del mutamento sociale in atto? È il capitalismo che sta cambiando?
Tornando sull’evoluzione storica del capitalismo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il testo di Ardeni analizza lo sviluppo non lineare del capitalismo, ponendo l’accento sulla sequenza di accelerazioni e rallentamenti che ne ha segnato il lungo percorso.