Il turno del lavoro
Capitolo 7
La repressione degli operai
Sin dall’inizio del ‘900 il movimento dei lavoratori ha lottato per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita e per la stessa agibilità sociale e politica delle proprie organizzazioni. Nonostante la conquista di un ruolo di rilievo nello spazio pubblico nel corso del Novecento, i suoi diritti non sono mai stati del tutto al riparo da momenti di arretramento e da contese.
Basti pensare che persino in Italia, dopo l’adozione di una Costituzione che dichiarava la Repubblica “fondata sul lavoro”, nel corso degli anni Cinquanta era ancora prassi comune sorvegliare, limitare e discriminare gli attivisti sindacali nelle principali fabbriche, mentre nelle strade e nelle piazze le manifestazioni spesso incorrevano nella repressione delle forze dell’ordine. Simbolicamente rilevanti in tal senso sono gli scontri di Piazza Statuto, che si svolgono a Torino per 3 giorni a partire dal 7 luglio 1962 e che si concludono con 1200 fermati, 90 arresti e numerosi licenziamenti.
Una battaglia ancora da vincere
Piazza Statuto divenne un simbolo delle lotte operaie degli anni successivi: sicurezza, salari adeguati e diritti contro discriminazioni e ricatti fino alla conquista dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, strumento di tutela dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali. Ma la battaglia per i diritti dei lavoratori e per la loro tutela sui luoghi di lavoro non è stata mai definitivamente vinta. Cambiamenti economici, produttivi, sociali e politici con il loro corollario (tra precarietà, modifiche allo Statuto, deregolamentazione, disoccupazione e lavoro nero) ancora oggi pongono sfide alla dignità e alla sicurezza di milioni di persone.
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1962
7 LUGLIO
A seguito del mancato sciopero unitario per la revisione del contratto dei metalmeccanici delle industrie torinesi, in Piazza Statuto si assiste a scontri tra forze dell’ordine e operai che per tre giorni mantengono il controllo della piazza. Entrato nell’immaginario comune come uno dei momenti più significativi della lotta del movimento operaio prima dell’Autunno caldo, la protesta si conclude con 1200 fermati, 90 arresti e migliaia di licenziamenti.
1969
OTTOBRE – DICEMBRE
La riapertura autunnale delle fabbriche italiane arriva sotto il peso del rinnovo di decine di contratti collettivi, i quali regolano l’impiego di diversi milioni di lavoratori e lavoratrici. Sono gli anni della crescita industriale e della grande migrazione dal Meridione, che ha portato le dirigenze di fabbrica a poter disporre di manodopera a basso costo e con scarse tutele.
Per i sindacati ed i gruppi autonomi di operai, il rinnovo dei contratti diviene occasione per contestare la mancanza di leggi in ambito sindacale e lavorativo e per richiedere uguali diritti e giusti compensi per tutti. Gli scioperi, le occupazioni delle fabbriche e le manifestazioni operaie coinvolgono tutti i grandi centri del paese, saldandosi con la contestazione giovanile e facendo conoscere il periodo col nome di “Autunno caldo”.
1970
MAGGIO
Viene varato lo Statuto dei lavoratori, strumento di tutela dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali. È il frutto della mediazione fra organizzazioni datoriali e sindacali e introduce novità molto importanti per tutti i lavoratori italiani: la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali, la tutela di rappresentanze sindacali e delle ore di assemblea, la regolazione del diritto di sciopero, l’introduzione dell’Art. 18 contro il licenziamento senza giusta causa.
Conoscenza, azione, emancipazione. Le lotte operaie come apprendimento collettivo
Il “lungo autunno”: le lotte operaie degli anni settanta
La Comune di Parigi: Marx e il presente
Organizzare il lavoro
Conoscenza, azione, emancipazione. Le lotte operaie come apprendimento collettivo
Descrizione dell’ebook
Pur partendo dall’analisi di una situazione specifica – le lotte operaie italiane sul finire degli anni ’60 – questo saggio di Bruno Trentin risulta più attuale che mai. Al centro vi sono i rapporti tra sapere e potere, la mobilitazione come forma di apprendimento collettivo delle proprie condizioni e del proprio ruolo. Conoscenza che diventa ridefinizione del potere in fabbrica e nella società.
L’appello – posto circolarmente all’inizio e alla fine – è alla «necessità di un processo di creazione culturale collettiva».
Come nota Riccardo Emilio Chesta nella sua introduzione, «proprio in un momento storico dove la classe operaia è tutt’altro che in declino da un punto di numerico – al 2019 sono 1,7 miliardi i lavoratori contati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – vi è tuttavia la percezione che essa sia attraversata da un momento di riflusso culturale che ne denota al contempo un rischio di irrilevanza immediatamente politico.»
D’altro canto, se definire le caratteristiche di questa nuova classe operaia globale è operazione molto complessa, la sfida è la costruzione di un sindacato internazionale. Pur sapendo leggere le specificità delle situazioni economiche e lavorative locali, serve costruire una lotta globale di emancipazione di tutti i lavoratori.
Conosci l’autore
Bruno Trentin (Pavie, Francia, 1926 – Roma, 2007), è stato partigiano, politico e sindacalista. Ricercatore dell’Ufficio Studi della Cgil, poi dirigente della Confederazione, segretario generale della Fiom e successivamente della Flm. Nel 1978 diventa segretario della Cgil e dal 1988 al 1994, segretario generale della Confederazione. Nell’ultima parte della sua vita ha presieduto la Commissione di programma della Cgil. Dei suoi numerosi scritti ricordiamo: Da sfruttati a produttori (De Donato 1977); Il sindacato dei consigli (Editori Riuniti 1980); Il coraggio dell’utopia, con Bruno Ugolini (Rizzoli 1994); Lavoro e libertà nell’Italia che cambia (Donzelli 1994); Nord e Sud, con Luis Anderson (Ediesse 1996).
Il “lungo autunno”: le lotte operaie degli anni settanta
Descrizione dell’ebook
Sergio Bologna propone di leggere gli anni ’60 e ’70 come snodo fondamentale, non solo del movimento operaio, ma anche della storia economica e industriale di questo Paese.
L’idea è considerare il periodo che va dal 1960 a 1985 (anno del referendum sulla scala mobile) come un unico periodo di ascesa verso i moti del ’68-69 – l’inizio del “lungo autunno”, appunto – e discesa verso la nascita del “sindacato dei diritti” (per riprendere un’espressione di Bruno Trentin); quel sindacato, cioè, che si preoccuperà di tutelare il lavoro subordinato e a tempo indeterminato, trascurando tutte le altre tipologie.
Se per molti gli anni settanta sono gli “anni di piombo”, Bologna propone di guardare a quell’epoca come la stagione del coronamento di un ciclo storico: quello della trasformazione della società tramite l’emancipazione della classe operaia e il mutare dei rapporti di potere sul luogo di lavoro. Si è trattato di mettere in gioco valori morali e condizioni materiali che andavano oltre le relazioni industriali perché investivano l’intera società.
Perché l’Italia, pur tra le prime potenze economiche mondiali, sembra essere destinata, dopo la crisi del 2008, a un declino irreversibile e al peggioramento costante delle condizioni di lavoro? Da dove bisogna ripartire perché si possa andare verso una nuova riscossa? Capire oggi quegli anni è fondamentale per comprendere cosa è avvenuto dopo.
Conosci l’autore
Sergio Bologna (Trieste, 1937) si occupa principalmente di storia del movimento operaio. Dopo aver insegnato in varie Università italiane e tedesche, si dedica, espulso dall’Università, all’attività di consulenza. Nel 1964, dopo essere entrato nella cerchia dei “Quaderni Rossi”, è tra i fondatori di “Classe Operaia” e inizia una lunga collaborazione con i “Quaderni piacentini”. Nel 1967, pubblica, con Feltrinelli, la sua tesi di laurea con il titolo La chiesa confessante sotto il nazismo, 1933-1936. Negli stessi anni, dopo una breve esperienza lavorativa presso la Olivetti, ottiene un incarico all’Università di Trento. Contemporaneamente si dedica ai movimenti di protesta e diventa prolifico autore di testi per pubblicazioni quali “Potere operaio” o fondatore di riviste quali “La Classe” e “Primo Maggio”.
Tra le sue pubblicazioni, si segnalano Le multinazionali del mare, Vita da free lance, con D. Banfi, e Banche e crisi.
La Comune di Parigi: Marx e il presente
Descrizione
La Comune di Parigi è stata un evento e un modello. Un evento capace di determinare una discontinuità radicale, una possibilità che prima non esisteva. Nel caso della Comune, questa possibilità era quella di un ‘governo del popolo per il popolo’. Un modello perché capace di ispirare un secolo di pensiero rivoluzionario: “Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società”, scrive Marx chiudendo il testo.
Riconsiderare oggi l’importanza, il valore e l’attualità della Comune, significa quindi ragionare su tre piani: la sua specificità storica; la lettura che ne ha dato Marx e il suo significato nell’opera marxiana; i legami tra i valori e le sperimentazioni di cui è stata promotrice e le trasformazioni politiche dei nostri giorni.
Conosci il curatore
Loris Caruso è ricercatore a tempo determinato all’Istituto di Scienze Umane e Sociali della Scuola Normale di Pisa. Tra il 2010 e il 2016 è stato assegnista al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università Milano-Bicocca e al Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Torino. Si occupa di movimenti sociali, teoria politica e conflitti di lavoro.
Organizzare il lavoro
Nella letteratura politica e sociale di sinistra del Ventesimo secolo il taylorismo è stato comunemente rappresentato come uno strumento di sfruttamento “scientifico” del lavoro operaio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di autonomia è vista come una condizione necessaria per ottenere un rendimento produttivo più intenso e uniforme. Questa lettura del taylorismo tuttavia non tiene conto della fase storica dell’economia industriale americana di cui Taylor stesso si trovò ad essere testimone, segnata da un profondo contrasto fra un livello di progresso tecnico che consentiva ormai una produzione di massa e l’arretratezza dell’organizzazione produttiva delle fabbriche, rimasta ancorata a criteri rozzi e obsoleti con un miscuglio di approssimazione, empiria e arbitrio. Taylor era un conoscitore profondo del mondo dell’officina, che aveva osservato, scomposto e analizzato in ogni sua piega, fin dai dai tempi del tirocinio giovanile fino all’attività direttiva esercitata presso la Midvale Steel Company e la Bethlehem Steel Company. Negli anni dedicati allo studio del funzionamento degli impianti industriali, aveva riscontrato un’estrema varietà dei metodi di lavoro e un’assoluta eterogeneità dei procedimenti organizzativi.
Con i suoi studi sullo scientific management, Taylor intendeva quindi offrire una risposta ai problemi di crescita che in quel momento le imprese industriali americane si trovavano di fronte e che potevano essere compendiate nella resistenza sindacale al cambiamento e, soprattutto, nella necessità di imprimere una disciplina produttiva alla massa eterogenea dei lavoratori immigrati. Per quanto riguarda il primo punto, la risposta di Taylor era da cercare nell’aumento di produttività generato dal suo sistema, che sarebbe stato così imponente da estirpare per sempre ogni contrasto tra gli interessi dell’azienda e quelli dei lavoratori.
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tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Vale la pena ricordare a tale proposito proprio l’incipit del famoso volume The principles of scientific management, pubblicato nel 1911: “l’obiettivo principale dell’organizzazione dell’impresa deve essere quello di assicurare il massimo benessere all’imprenditore e insieme il massimo benessere a ciascun dipendente”. Nel prosieguo del testo viene tratteggiato a scopo didattico il profilo dell’ “operaio Schmidt”, un “piccolo olandese della Pennsylvania”, assai “poco pronto di mente”, ma che pure, a patto di fargli eseguire delle mansioni analiticamente scomposte e razionalizzate, poteva diventare un operaio di prim’ordine.
Eppure se si supera l’impronta chiaramente conservatrice dell’antropologia economica di Taylor, popolata da operai naturalmente portati all’indolenza, che lasciati a sé stessi tenderanno sempre a prendersela comoda e a rallentare la produzione, non si può non riconoscere la portata innovativa del suo pensiero, che ad esempio non risparmiava critiche alla classe imprenditoriale del suo tempo, accusata di metodi inadatti e arbitrari nel comando della manodopera, come la fissazione di quote di produzione e livelli salariali in modo arbitrario. Tipica espressione di questa pratica era il lavoro a cottimo largamente usato a quell’epoca e criticato aspramente da Taylor perché causa della diffusione nelle officine di un disastroso clima di sfiducia e conflitto.
Non bisogna dimenticare del resto che la proposta di organizzazione scientifica di Taylor – riassumibile nei famosi quattro principii fondamentali: individuazione dei migliori metodi di lavoro, selezione e addestramento della manodopera, sviluppo dei rapporti di stima e di collaborazione tra direzione e manodopera, stretta divisione dei compiti fra la manodopera e i diversi livelli gerarchici del management – aveva come finalità la gestione ottimale delle risorse umane e materiali dell’impresa. Attraverso il metodo scientifico infatti la direzione poteva conoscere non solo le possibilità di aumento della produttività, ma anche i limiti non superabili dello sforzo che si poteva richiedere alla manodopera, sforzo che andava inoltre ricompensato con adeguati aumenti salariali.