Lavoratori
Capitolo 6
«Riconosco che eravamo troppo preoccupati dalla stabilizzazione economica e che non abbiamo calcolato l’effetto politico di un avvicinamento agli Stati Uniti.»
Paz Estenssoro, 1965
La Bolivia
Quando parte per il suo secondo viaggio attraverso il continente, Ernesto Guevara ha già scelto l’impegno. Il suo progetto è quello di portarsi nei luoghi in cui accade la storia, i luoghi che segnano il risveglio dell’America Latina.
È per questo che la sua prima tappa è la Bolivia. La Paz è «la Shanghai d’America. Un’amplissima gamma di avventurieri di tutte le nazionalità vegeta e si affaccia in una città policroma e meticcia che guida il paese verso il suo destino».
Il destino della Bolivia – un paese nel quale il 4,5% dei proprietari terrieri controlla il 70% delle migliori terre del paese, in cui le attività estrattive nelle miniere di stagno si basano sullo sfruttamento della popolazione india esclusa dalla cittadinanza, mentre i capitali investiti e i profitti finiscono nelle tasche delle élites europeizzate che spesso vivono oltremare – sembra cambiare nell’aprile del 1952.
La rivoluzione di Estenssoro
Il Movimento Nacionalista Revolucionario (MNR) prende il potere dopo tre giorni di insurrezione armata nella capitale e nei distretti minerari. È un partito espressione della piccola borghesia urbana nazionalista che intende spezzare la struttura sociale feudale delle campagne e modernizzare la struttura economica boliviana in coalizione con i lavoratori delle miniere. Una rivoluzione che sembra riscattare i lavoratori, vero motore dei cambiamenti in corso.
Il governo di Paz Estenssoro punta al «trasferimento della ricchezza sociale a vantaggio del popolo e a una trasformazione profonda della struttura economica» tramite la nazionalizzazione delle miniere, la riforma agraria, l’inclusione politica e sociale degli indios nella comunità nazionale.
Il fallimento
Quando Guevara arriva in Bolivia, è dunque in corso nel paese un importante tentativo di rivoluzione sociale con la partecipazione attiva di larghe masse popolari. Ma il movimento è minato dai contrasti interni, tra un’ala che punta a inibire l’autonomia e l’attività dei minatori militanti, limitando il proprio programma alla modernizzazione del paese, e coloro che vorrebbero approfondire il processo rivoluzionario. Nel giro di pochi anni, dal 1952 al 1956 e in modo più netto a partire dal 1960, il governo cambia indirizzo. Con l’assistenza economica degli Stati Uniti si assiste all’emarginazione degli elementi più radicali del MNR e all’esaurimento della rivoluzione boliviana, che non riesce a spezzare le relazioni di potere che (all’interno e all’esterno) condannano il paese andino all’arretratezza.
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Di seguito, oltre alla carta con le tappe del secondo viaggio di Ernesto, sono riprodotte alcune immagini di copertina di testi dell’epoca riguardo alle questioni del lavoro e dell’economia negli stati del Sud America.
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«Contrariamente alla gente di classe media, noi stavamo continuamente a contatto con il popolo
lavoratore. Ci interessava conoscere le sue preoccupazioni, le sue necessità, il suo modo di pensare e di
vivere. Così abbiamo potuto constatare la miseria in cui quel popolo millenario sopravvive da tanti secoli.
Denutrito, malato e viziato dalla coca, sopporta con silenzioso stoicismo a denti stretti, quasi con
rassegnazione, la miserabile vita che trascina di generazione in generazione e attraverso i secoli, senza
poter porre rimedio alle sue disgrazie. Il popolo vive in uno tale stato di arretratezza che quando i coyas
vanno in città per trattare qualsiasi richiesta davanti alle autorità, gli impiegati del governo, senza nessuna
discrezione, li disinfettano con il DDT.»
«La Bolivia è un paese che ha dato un esempio veramente importante all’America. Il governo è appoggiato dal popolo armato e quindi non ci sono possibilità che venga liquidato da un movimento armato da fuori e
può soccombere solo a causa delle sue lotte interne. L’MNR è un conglomerato.»
«Riconosco che eravamo troppo preoccupati dalla stabilizzazione economica e che non abbiamo calcolato
l’effetto politico di un avvicinamento agli Stati Uniti»
Paz Estenssoro, 1965
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diri
Lo «Sviluppo del Sottosviluppo» in America Latina
La Storia dovrà tener conto dei poveri d’America
Democrazie inquiete. Viaggio nelle trasformazioni dell’America latina
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
Lo «Sviluppo del Sottosviluppo» in America Latina
Come accogliere le trasformazioni salvaguardando le culture locali e senza rifiutare la trasformazione?
Nel tentativo di uscire da una dimensione di dipendenza economica e di impoverimento progressivo, lo sviluppo possibile dell’America Latina teorizzato dalla fine degli anni Sessanta metteva al centro i bisogni delle popolazioni locali come i servizi, l’educazione, la salvaguardia dei consumi e incentivava forme di intervento pubblico.
Guardando alla dimensione umana dello sviluppo lo scopo era quello di mettere in moto un’economia basata sulla cooperazione, per scardinare la dimensione centro/periferia tra paesi “supersviluppati” e paesi “sottosviluppati” generata dal sistema capitalistico e dal liberismo.
Questo opuscolo del CENDAC di Pistoia del 1973, conservato nel patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, racconta un “Terzo Mondo” di possibilità e di trasformazione.
Lo «Sviluppo del Sottosviluppo» in America Latina
La storia dell’America Latina, dalla conquista coloniale ai nostri giorni, è anche la storia dell’instaurazione e del consolidamento, nel corso dei secoli, delle strutture di dipendenza esterna e di dominio interno che hanno generato il fenomeno del sottosviluppo.
I legami formali di dipendenza politica delle colonie latino-americane rispetto alle metropoli europee – Spagna e Portogallo – furono spezzati nel corso del secondo decennio del XIX secolo, in un momento di indebolimento dei paesi iberici, entrambi occupati dalle armate napoleoniche. Questa formale indipendenza fu subito sostenuta, contro i tentativi di ricolonizzazione intrapresi poco dopo dalla Spagna e dal Portogallo, dalle nuove potenze in ascesa – Inghilterra e Stati Uniti – che vedevano nei nuovi paesi latino-americani un fertile terreno per la loro espansione economica e commerciale.
L’indipendenza, tuttavia, è stata solamente formale: i paesi latino-americani sventolavano ormai una bandiera nazionale, ma le loro ricchezze continuavano ad appartenere all’estero. Vi è stato un cambiamento solo nella forma di sfruttamento (paesaggio dal saccheggio coloniale diretto alla dominazione economica e commerciale) e una costituzione delle potenze dominanti (rimpiazzo dei decadenti paesi iberici da parte dei pionieri della rivoluzione industriale: Inghilterra e Stati Uniti). In effetti, un secolo dopo le vittorie ottenute nelle «guerre di indipendenza», l’economia dei paesi latino-americani continuava a seguire un modello neo-coloniale: da una parte, l’esportazione delle materie prime (oro, argento, rame, stagno, ferro e petrolio) e dei beni alimentari (caffè, cacao, tabacco, zucchero, frutti tropicali) verso i paesi industrializzati; d’altra parte l’importazione dei manufatti (in special modo dei prodotti di lusso destinati al consumo delle locali classi dominanti) provenienti da queste stesse metropoli industrializzate.
Dal punto di vista della struttura economica interna ad ogni paese, c’era coesistenza fra un piccolo settore agricolo o minerario, dedito all’esportazione e spesso controllato direttamente da imprese straniere, e un immenso settore agricolo dedito all’economia di sussistenza (cioè alla produzione di alimenti necessari a nutrire la popolazione del paese) e controllato politicamente da una oligarchia di grandi proprietari terrieri . Ogni dinamismo economico proveniva da quel settore esportatore, in genere specializzato nella produzione di un singolo prodotto alimentare o nell’estrazione di una singola ricchezza mineraria. Si trattava di vere «enclaves» straniere localizzate nel territorio nazionale, che erano integrate in un sistema di produzione ed in un circuito commerciale controllato dai paesi industrializzati, sotto due aspetti:
- lo sfruttamento di questi «enclaves» si fondava su un rapporto di capitale e di tecnologie esterne;
- di mercato consumatore per i prodotti di piantagioni tropicali o per i giacimenti minerari si trovava anche all’estero.
In queste condizioni, l’impatto di queste «enclaves» nell’economia nazionale era estremamente ridotto. L’unico contatto di queste isole straniere con il paese in cui essi si trovavano consisteva nell’utilizzazione intensiva della locale mano d’opera, sempre abbondante e pronta a lavorare per un compenso spesse volte inferiore a quello che ricevevano gli operai delle metropoli, già organizzati politicamente in sindacati o gruppi di pressione.
Dal punto di vista politico, il governo era monopolio della classe dei grandi proprietari terrieri, in questa società in cui la stasi economica andava al passo con una paralisi sociale e politica. Dato che il dinamismo economico proveniva unicamente dal settore dedito all’estero, le società latino-americane sembravano congelate nel tempo. In effetti, è solo conseguenza di due avvenimenti esterni ai paesi latino-americani – la grande crisi economica mondiale degli anni trenta e in seguito la seconda guerra mondiale – che questo schema neo-coloniale di dipendenza e questo equilibrio politico e sociale fondato sulla stati verrà messo in discussione.
Di seguito le fonti digitalizzate tratte dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, clicca sull’immagine per scaricare il documento.
La Storia dovrà tener conto dei poveri d’America
Quello che segue è un estratto del primo dei due discorsi pronunciati da Ernesto Che Guevara nella nona sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU l’11 dicembre 1964. Il comandante argentino partecipa all’assemblea in qualità di ministro dell’Industria di Cuba – carica che ricopre dal 1961 – e approfitta dell’occasione per mettere sul tavolo la questione dei gravi squilibri che minano l’ordine internazionale che le stesse Nazioni Unite puntano a consolidare.
Senza fare sconti e senza giri di parole, Che Guevara punta il dito contro gli Stati Uniti, accusandoli di operare solo nel proprio interesse di potenza imperialista e di violare senza remore l’autodeterminazione e la libertà delle nazioni che non hanno i mezzi economici per competere allo stesso livello.
In chiusura, Guevara declama davanti alle Nazioni Unite la Seconda dichiarazione dell’Avana, che fu letta per la prima volta da Fidel Castro il 2 febbraio 1962 in un comizio pubblico nella capitale cubana, chiamando a raccolta le forze dell’America Latina per l’affermazione dei propri diritti e la liberazione da ogni forma di sfruttamento.
Discorso di Ernesto Che Guevara contro il colonialismo e per il risveglio dell’America Latina, 1964
Signor presidente, signori delegati,
[…]
Cuba viene ad esporre la sua posizione sui punti più importanti di controversia e lo farà con tutto il senso di responsabilità che comporta il far uso di questa tribuna, ma al tempo stesso rispondendo al dovere imprescindibile di parlare con piena franchezza e chiarezza.
Esprimiamo il desiderio di vedere questa Assemblea mettersi alacremente al lavoro e andare avanti; vorremmo che le Commissioni iniziassero il loro lavoro senza doversi arrestare al primo confronto. L’imperialismo vuole trasformare questa riunione in un vano agone oratorio, e non vuole che vengano risolti i gravi problemi del mondo; dobbiamo impedirlo. Questa Assemblea non dovrebbe essere ricordata in futuro soltanto per il numero XIX che la contraddistingue. Al raggiungimento di questo fine sono tesi i nostri sforzi.
[…]
Vogliamo chiarire, ancora una volta, che la nostra preoccupazione per l’America latina è ispirata dai legami che ci uniscono: la lingua che parliamo, la cultura che alimentiamo, il padrone che abbiamo avuto in comune. Che non siamo animati da nessun’altra ragione per desiderare la liberazione dell’America latina dal giogo coloniale nordamericano. Se qualcuno dei paesi latinoamericani qui presenti decidesse di ristabilire le relazioni con Cuba, noi saremmo disposti a farlo sulla base dell’uguaglianza e non in base al criterio che sia un dono fatto al nostro Governo il riconoscere Cuba come un paese libero del mondo; poiché questo riconoscimento lo abbiamo conquistato con il nostro sangue nei giorni della lotta di liberazione, lo abbiamo conquistato col sangue nella difesa delle nostre spiagge dall’invasione yankee.
Anche se respingiamo la pretesa volontà di ingerenza negli affari interni degli altri paesi che ci viene attribuita, non possiamo negare la nostra simpatia verso i popoli che lottano per la propria liberazione e dobbiamo onorare l’impegno del nostro governo e del nostro popolo di esprimere apertamente al mondo intero il nostro appoggio morale e la nostra solidarietà con i popoli che lottano in qualsiasi parte del mondo per rendere reali i diritti di piena sovranità proclamati dalla Carta delle Nazioni Unite.
Cuba, signori delegati, libera e sovrana, senza catene che la leghino a nessuno, senza investimenti stranieri nel suo territorio, senza proconsoli che orientino la sua politica, può parlare a fronte alta in questa Assemblea e dimostrare la giustezza della frase: “Territorio Libero di America” con cui è stata battezzata.
[…]
E se il nemico non è piccolo neppure la nostra forza è disprezzabile, poiché i popoli non sono isolati. Come afferma la Seconda Dichiarazione dell’Avana:
[…]
Nessun popolo dell’America latina è debole, perché fa parte di una famiglia di duecento milioni di fratelli che soffrono le stesse miserie, sono animati dagli stessi sentimenti, hanno lo stesso nemico, aspirano tutti ad uno stesso destino migliore e godono della solidarietà di tutti gli uomini e le donne del mondo.
Questa epopea che sta davanti a noi la scriveranno le masse affamate degli indios, dei contadini senza terra, degli operai sfruttati; la scriveranno le masse progressiste, gli intellettuali onesti e brillanti che sono così abbondanti nelle nostre sofferenti terre d’America latina. Lotta di masse e di idee, epopea che sarà portata avanti dai nostri popoli maltrattati e disprezzati dall’imperialismo, i nostri popoli sconosciuti fino ad oggi, che già cominciano a non farlo più dormire. Ci considerava come un gregge impotente e sottomesso e già comincia ad aver timore di questo gregge, gregge gigante di duecento milioni di latinoamericani nei quali il capitalismo monopolistico yankee vede già i suoi affossatori.
L’ora della sua rivincita, l’ora che essa stessa si è scelta, viene indicata con precisione da un estremo all’altro del continente. Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno; ora questa massa è quella che comincia ad entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d’America, per le balze delle sue terre, per i suoi piani e le sue foreste, fra la solitudine o il traffico delle città, lungo le coste dei grandi oceani e le rive dei fiumi comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti, pieni di desiderio di morire per “quello che è suo”, di conquistare i suoi diritti irrisi per quasi cinquecento anni da questo o da quello. Ora sì la storia dovrà prendere in considerazione i poveri d’America, gli sfruttati e i vilipesi, che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi, per sempre, la propria storia”.
Guarda il video del discorso di Ernesto Che Guevara all’Assemblea Generale dell’ONU l’11 dicembre 1964:
durata: 6:20 min.
Democrazie inquiete. Viaggio nelle trasformazioni dell’America latina
Democrazie inquiete. Viaggio nelle trasformazioni dell’America Latina ripercorre le vicende politiche, economiche e sociali di alcuni paesi dell’America Latina nell’arco dell’ultimo quarto di secolo.
Stato di salute della democrazia, gestione di politica economica, pulsioni populiste e tentazioni autoritarie, protagonismo di movimenti sociali e politici rappresentano le chiavi interpretative dei saggi qui raccolti.
Saggi che consentono di delineare una visione d’insieme della parabola del ciclo progressista che ha caratterizzato la regione in questa prima parte del XXI secolo.
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