Nord/Sud
Capitolo 13
«[…] adesso sapevo… sapevo che nel momento in cui il grande spirito che governa ogni cosa darà un taglio netto dividendo l’umanità intera in due sole parti antagoniste, io starò con il popolo […]»
Da I diari della motocicletta di Ernesto Che Guevara
La migrazione degli indios
Quando Guevara incontra gli indios nel suo viaggio verso il Perù, forse per la prima volta ha la raffigurazione canonica di che cosa sia il “Sud del mondo”. La loro condizione economica e sociale è in una fase di transizione. La crescita della popolazione contadina intorno agli anni ’20-’30 del Novecento costringe molti a muoversi e ad abbandonare la montagna per cercare lavoro fuori o comunque lontano dalle loro comunità. Inizia un processo lento ma costante di migrazioni verso la costa, che significa abbandono della montagna e soprattutto concentrazione delle popolazioni negli spazi urbani a valle e verso Lima.
L’effetto è il lento venir meno della produttività dell’agricoltura delle zone montuose, che ora non riesce più a rifornire la costa di una quantità di cibo adeguato. A partire dalla fine degli anni ’50 sarà l’impegno del governo centrale a intervenire cercando di risolvere contemporaneamente la questione della maggior disponibilità di risorse, ma anche innalzando il livello minimo di vita degli indios.
L’economia locale
Interrogarsi sulle comunità indios, ma soprattutto sull’economia andina significa riaprire la riflessione sulle forme dell’economia locale, caratterizzate dall’intreccio tra economia naturale e economia monetaria, dalla coabitazione tra scambio monetario e baratto o scambio in natura.
Come garantire lo sviluppo? Come si sviluppano le economie locali e allo stesso tempo come si dà spazio a un intervento che significa maggior flussi di spesa?
Alla ricerca di un accordo
La questione nord/sud, dove tornano i temi legati alla colonizzazione e alla decolonizzazione, non si risolve solo nel rifiuto del sistema coloniale, ma nella ricerca di comporre i molti ritmi dell’economia: lo scambio locale, l’intensificazione della salvaguardia dei consumi, e definendo le forme dell’intervento pubblico.
Molti di questi temi sono nella cultura latino-americana della prima metà del Novecento. Come si pensa uno sviluppo economico che guardi al complesso dell’America? Come salvaguardare le culture locali senza rifiutare, anzi, accogliendo la trasformazione?
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Le immagini che seguono sono tratte da pubblicazioni nelle quali si riflette sulla situazione economica dei paesi del Sud e sulla impossibilità di sviluppo senza la libertà dai paesi colonizzatori o dagli USA.
Cuba a sessant’anni dalla rivoluzione
La Storia dovrà tener conto dei poveri d’America
Tutti i colori di Cuba nei periodici di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Radici storiche e politiche di un Boom: l’America Latina
Cuba a sessant’anni dalla rivoluzione
“Quel giorno scesi in strada come tutti, spontaneamente, in attesa che passasse il carro con il feretro del Comandante. Ero dominato da emozioni contrastanti. Certo, non tutto funzionava come avrebbe dovuto nel nostro paese. Tanti erano i problemi e, forse, anche gli errori commessi nel corso degli anni dal governo. Ero stato anche molto critico, ne discutevo e ne discuto spesso con gli altri compagni. Perché a Cuba si può parlare dei problemi e, che ci crediate o no, anche criticare. Ad ogni modo mi sentivo confuso, smarrito, sì, sotto shock. Tutti sapevamo ovviamente che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, ma, probabilmente, dentro di noi speravamo che non sarebbe accaduto mai. Mentre pensavo a tutto questo, in preda a pensieri e a sentimenti contrastanti, vidi finalmente passare la carovana che accompagnava il corpo del Comandante. Urlai tre volte «viva Fidel» e piansi. Che anno orribile quel 2009. Avevo appena perso mio padre e adesso anche Fidel”.
A Cuba non è raro imbattersi in testimonianze come questa di Evelio, 47 anni, avvocato per vocazione, tassista per arrotondare il magro stipendio. Sull’isola sono tante le cose che non vanno. Gli stipendi sono bassi, ad esempio, insufficienti per ristrutturare case spesso fatiscenti o quasi. È praticamente impossibile accedere a beni di consumo, come particolari tipologie di elettrodomestici, vestiti “firmati” ed altri prodotti la cui circolazione costituisce la spina dorsale delle società “occidentali” basate sul consumo. Viaggiare è altrettanto un lusso per il cubano medio, un qualcosa che possono permettersi quei pochissimi che magari hanno già qualche parente dall’altra parte del mare, a Miami, e sognano loro stessi di andarci un giorno.
Eppure non si soffre la fame a Cuba. Tutti possono permettersi un’istruzione e tutti hanno accesso ad un (ottimo) sistema sanitario. “Se penso a come era prima – racconta Teresa –, se penso al fatto che io stessa, donna, di famiglia povera, contadina, ho avuto la possibilità di studiare fino a diventare ingegnere chimico, se penso a come vivono nei paesi vicini, ad Haiti, a El Salvador, in Honduras, mi chiedo come facciano i giovani di oggi a parlar male del nostro governo”. Ma anche chi critica, e spesso aspramente, il castrismo, ha difficoltà a non riconoscergli di aver dato dignità ad un popolo che, prima della rivoluzione, non poteva permettersi nulla. Già, perché quest’isola di circa 110 chilometri quadrati, situata a un tiro di schioppo dalle coste statunitensi, ne ha viste e passate davvero tante nel corso della sua storia.
Senza voler andare troppo indietro nel tempo, è sufficiente ricordare che a metà degli anni Cinquanta del Novecento Cuba era la sintesi quasi perfetta della gran parte dei mali che affliggevano l’America Latina. Corruzione diffusa, profonde disuguaglianze economiche e sociali, distanza abnorme fra una minoranza di ricchi ed una maggioranza di popolazione che viveva in condizioni di vera e propria povertà. La situazione era disastrosa in particolar modo nel mondo rurale, dove concentrazione fondiaria, disoccupazione, elevati tassi di mortalità, analfabetismo (superiore al 40%) e assenza pressoché totale di servizi e di assistenza sanitaria rappresentavano la norma. Ma con le sue case da gioco, la prostituzione, gli alberghi di lusso e i locali notturni, il paese caraibico era anche un gigantesco luna park ad uso e consumo dei turisti statunitensi, nonché meta privilegiata degli investimenti della criminalità organizzata nordamericana.
(“Nuestra palabra”, 27 giugno 1956)
Cuba non era più un protettorato di fatto degli Stati Uniti dal 1934, eppure l’isola non aveva cessato di essere un paese “dipendente”, la cui economia, fondata essenzialmente sull’esportazione della canna da zucchero, era posta sotto il controllo delle multinazionali statunitensi. L’ex sergente Fulgencio Batista, che, dopo aver guidato il paese attraverso una serie di governi fantoccio sin dalla metà degli anni Quaranta, era asceso definitivamente al potere con un colpo di Stato nel 1952, ebbe un ruolo determinante in tal senso, garantendo la sostanziale continuità della posizione del potente vicino del nord come referente privilegiato di Cuba.
Fu in questo contesto caratterizzato dalla corruzione sul piano politico, assenza di un’opposizione credibile allo strapotere del dittatore, dipendenza economica dall’esterno, miseria e marginalizzazione sociale, che un gruppo di 150 giovani tentò, il 26 luglio del 1953, di assaltare la caserma Moncada situata nella città di Santiago, con l’obiettivo di fare da detonatore per lo scoppio di una rivolta popolare che, alla fine, non arrivò mai. Più della metà dei rivoltosi cadde sul campo, i sopravvissuti vennero condannati a lunghi periodi detentivi. “Il diritto di insurrezione dinanzi alla tirannia è uno di quei principi che, sia o no incluso nella Costituzione Giuridica, ha sempre piena vigenza in una società democratica […] Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà”, dichiarò il loro leader, il non ancora trentenne avvocato Fidel Castro, durante quella lunga arringa difensiva che, da lì a poco, sarebbe divenuta il manifesto politico del Movimento 26 luglio (M 26).
Amnistiati nel 1955, l’esilio in Messico fu l’occasione per i ribelli per riorganizzarsi, reclutare nuovi adepti, tra cui l’argentino Ernesto Guevara (poi noto come il “Che”), raccogliere armi e addestrarsi. Nel novembre dell’anno seguente, Fidel Castro e altri 81 esponenti del Movimento sbarcarono nella provincia di Oriente: partendo dalla Sierra Maestra si proponevano di rovesciare la dittatura.
(Copertina della rivista “Bohemia” con sbarco del Granma – 29 novembre 1968)
Il gruppo adottò la guerriglia come forma di lotta e andò crescendo grazie all’incorporazione di nuovi membri provenienti non solo dalle città, ma soprattutto da quel mondo rurale attratto dalle misure poste in essere nelle zone che venivano man mano controllate; misure che anticipavano le decisioni che si intendeva prendere a livello nazionale una volta conquistato il potere, prima fra tutte la riforma agraria. Abissale era la distanza fra i due eserciti in campo, quello di “liberazione nazionale” e quello governativo. Senza questa identificazione progressiva delle classi popolari con le istanze dei rivoluzionari non ci sarebbe stata partita. Di fondamentale importanza furono anche il ricorso da parte degli uomini di Castro alla strategia della guerriglia – successivamente sviluppata e sistematizzata dal Che Guevara nella “teoria del foco” – e, naturalmente, le diverse motivazioni in campo.
(Foto originale di Fidel Castro ed Ernesto Guevara durante la rivoluzione)
Dopo due anni di avanzamenti e altrettante battute d’arresto su un fronte e sull’altro, le sorti della guerra assunsero una direzione ben precisa a partire dalla metà del ‘58, complice il fallimento totale dell’offensiva finale lanciata dal dittatore con l’obiettivo di annientare i guerriglieri sul loro terreno. Da lì in avanti, con l’esercito regolare sempre più demoralizzato e privo di stimoli, l’avanzamento delle forze rivoluzionarie fu inarrestabile. Dopo poco più di due anni di scontri, l’8 gennaio del 1959, Fidel, preceduto da Cienfuegos e Guevara, entrava trionfalmente all’Avana.
(Numero speciale della rivista “Bohemia” in occasione del decennale della rivoluzione – 1 gennaio 1969)
L’“eticità” fu il principio che guidò le misure iniziali del governo rivoluzionario, che vide quasi subito Fidel Castro primo ministro, il fratello Raúl capo delle Forze Armate e gli altri combattenti dell’esercito ribelle a presidio dei principali ministeri. Venne fatta tabula rasa di quel grande “circo” inaccessibile alla popolazione cubana, fatto di case da gioco e di tolleranza, spiagge, alberghi e locali esclusivi, e che si era definitivamente consolidato durante la dittatura di Batista.
Ma la radicalità del gruppo dirigente emerse soprattutto in altri settori, come in quello abitativo, sanitario, scolastico e, in particolar modo, nel campo della riforma agraria. Il governo rivoluzionario era ben consapevole del fatto che le promesse fatte alla popolazione ai tempi della Sierra Maestra andavano mantenute a tutti i costi.
(Da “Bohemia”, 4 ottobre 1968)
E fu proprio su questo terreno che esplosero i contrasti con Washington, con i rivoluzionari che portarono avanti la più massiccia nazionalizzazione di interessi economici nordamericani mai realizzata prima di allora. La conseguente decisione dell’amministrazione di Dwghit Eisenhower di mettere fine all’acquisto di zucchero dall’isola non poté che dirottare Castro verso l’Unione Sovietica. Alla forte impronta nazionale e antimperialista che aveva avuto la rivoluzione sino a quel momento andava ad aggiungersi definitivamente la componente marxista-leninista.
Il fallimento della spedizione della Baia dei Porci, il piano di invasione dell’isola ereditato da John F. Kennedy dall’amministrazione precedente e finalizzato a rovesciare Castro attraverso l’impiego di circa 1.500 esuli cubani residenti in Florida addestrati dalla CIA, dimostrò a Washington, fra le varie cose, che i rivoluzionari godevano del pieno appoggio della popolazione.
(Copertina rivista “Bohemia” – 25 aprile 1969)
L’isolamento diplomatico fu l’arma successiva utilizzata dalla Casa Bianca per destabilizzare un governo che si era rivelato impossibile da rovesciare con la forza. All’espulsione dall’Organizzazione degli Stati Americani seguì, nel giro di un paio di anni, la rottura delle relazioni commerciali con l’isola caraibica da parte di tutti gli Stati latinoamericani, con la sola eccezione del Messico. L’esito della “crisi dei missili” dell’ottobre del ’62, tuttavia, rappresentò per Cuba la conferma di non essere altro che una semplice pedina nello scacchiere del conflitto fra le due superpotenze.
Ma fu proprio allora che iniziò a farsi sentire la portata di una rivoluzione che si sarebbe rivelata tale da modificare il quadro stesso delle relazioni tra Stati Uniti e America Latina e non solo.
(Da “Cuba Internacional”, 19 febbraio 1963)
Anche al fine di trovare percorsi alternativi alla propria sicurezza ed esistenza, i rivoluzionari cubani cessarono di costituire un mero modello di riferimento e iniziarono ad adoperarsi direttamente per promuovere e sostenere le guerriglie a livello continentale e in altre aree del cosiddetto “Terzo Mondo”, organizzando campi di addestramento, conferenze internazionali (nel 1966 fu convocato a Cuba il congresso della Tricontinental, di solidarietà antimperialista tra i paesi dell’Africa, Asia e America Latina, mentre l’anno successivo venne l’Organización Latinoamericana de Solidaridad), garantendo aiuti economico-militari o, ancora, partecipandovi direttamente; impegno, quest’ultimo, che avrebbe trovato nel sacrificio del Che Guevara in Bolivia la sua massima espressione.
(Numero speciale della rivista Granma dedicato alla morte del Che – 19 ottobre 1967)
Ma forse ancor più importante fu il fatto che l’“esempio cubano” iniziò a identificarsi con parole d’ordine quali antimperialismo, liberazione nazionale, rivoluzione, necessità della lotta armata. E questa cornice ideologica di riferimento oltrepassò ben presto i confini nazionali e assunse una dimensione globale, incontrando il consenso di una parte non irrilevante di quelle nuove generazioni, latinoamericane ma anche europee e asiatiche, che non guardavano più all’Unione Sovietica in termini di modello di riferimento per la necessaria trasformazione della società.
(Diario del Che in Bolivia, edizione originale Feltrinelli)
Posta dinanzi a inediti problemi di sicurezza continentale e temendo la messa in discussione della propria egemonia all’interno del tradizionale “cortile di casa”, la superpotenza nordamericana aveva replicato, dapprima, durante l’amministrazione Kennedy, con il piano di aiuti economici ai paesi latinoamericani noto come “Alleanza per il Progresso”, nella convinzione che le cause principali della diffusione dei focolai di guerriglia sul modello cubano andassero ricercate nell’arretratezza e nel sottosviluppo; e, in un secondo momento, di fronte ai risultati non proprio lusinghieri di questa, iniziando a promuovere e a sostenere colpi di Stato e spietati regimi civico-militari in vari paesi dell’area. Il fallimento dell’impresa boliviana, anche se non pose fine del tutto al sostegno dato dal governo cubano alle lotte di liberazione nazionale in giro per il mondo, lo raffreddò notevolmente, favorendo anche il definitivo riavvicinamento all’Unione Sovietica sia da un punto di vista politico che, soprattutto, economico, ricongiungimento che sarebbe culminato con l’ingresso del paese nel COMECON nel 1972.
(Copertina di “Bohemia” – 2 maggio 1969)
Sul piano interno, intanto, la rivoluzione si era andata consolidando. Il governo aveva tentato di differenziare la produzione agricola e di dare al paese una struttura industriale, obiettivi che sostanzialmente fallirono a causa di una molteplicità di fattori, fra cui la difficoltà, a causa dell’embargo, di reperire macchinari e materie prime industriali. Ben diverso fu l’esito in campi come quello sanitario, abitativo e dell’educazione, dove si registrarono progressi mai realizzati prima. Queste trasformazioni sociali, che compresero anche il graduale abbattimento della distanza fra città e campagna e l’aumento dei redditi popolari, garantirono al regime un ampio consenso; sostegno che, con ogni probabilità, contribuì ad evitare il ricorso sull’isola a quelle forme di censura e di controllo della popolazione tanto diffuse nei paesi del blocco socialista, che sarebbero, tuttavia, comparse, sotto diverse spoglie, in momenti storici successivi di particolare crisi, come durante il “período especial” (ossia, il lungo periodo di crisi economica vissuto in seguito al collasso dell’Unione Sovietica). Allo stesso modo, non mancarono, soprattutto nella fase iniziale di “assestamento” della rivoluzione, iniziative riprovevoli che, peraltro, sarebbero costate la condanna di ampi settori del progressismo internazionale, come la persecuzione degli omosessuali ed il tentativo di orientare politicamente gli intellettuali. Eppure, al netto di questo, la pressione del governo sulla società cubana non raggiunse (e non avrebbe mai raggiunto) i livelli asfissianti e totalizzanti caratteristici dei regimi autoritari del tempo.
(Da “Cuba Internacional”, ottobre 1968)
Con la fine del conflitto bipolare e nonostante il conseguente venir meno del sostegno sovietico, Cuba non cessò di rappresentare un grattacapo, per utilizzare un eufemismo, per i policy maker della Casa Bianca. Non a caso, nel corso degli anni Novanta, durante le presidenze di George H.W. Bush e di Bill Clinton, nella convinzione di poter dare la spallata finale al regime socialista, venne ulteriormente rafforzato l’embargo, la cui competenza passò al Congresso e la cui eliminazione venne condizionata al ripristino della democrazia e all’esclusione definitiva dei fratelli Castro dalla vita politica. Malgrado l’isolamento e l’ulteriore irrigidimento statunitense, Cuba riuscì comunque a trovare un’intesa con la Chiesa locale, con cui i rapporti si erano deteriorati all’indomani della rivoluzione, riconciliazione sancita, dapprima, dalla visita di Giovanni Paolo II nel 1998 e, confermata, poi, nel 2012 e nel 2015, dai viaggi rispettivamente di Ratzinger e Bergoglio.
Del resto, anche per via della grande popolarità di cui godeva il líder máximo, l’Avana continuava ad essere un punto di riferimento in America Latina per numerose sinistre “radicali” e “progressiste”. Il legame sempre più stretto fra Cuba e paesi come il Venezuela di Hugo Chávez, ad esempio, condusse ad un ulteriore inasprimento delle relazioni con gli Stati Uniti, in particolare durante la presidenza di George W. Bush, quando l’isola caraibica venne inserita nella lista nera dei paesi “sponsor del terrorismo”.
(Copertina rivista “Bohemia” 18 aprile 1969)
L’uscita di scena di Fidel e l’ascesa al potere del fratello Raúl venne colta dall’amministrazione Obama come un’occasione irripetibile per incidere sulla politica interna del paese caraibico con altri strumenti, dopo che oltre cinquant’anni di iniziative avverse e aggressive non avevano sortito alcun effetto. Eppure, nonostante i buoni propositi iniziali, i piccoli passi fatti sul fronte della normalizzazione delle relazioni bilaterali – fra cui il ripristino delle relazioni diplomatiche, la riapertura delle rispettive ambasciate, l’eliminazione di Cuba dalla lista nera degli stati “sponsor del terrorismo”, l’emanazione di nuove regole sui viaggi turistici e commerciali – si scontrarono ben presto con l’ostacolo decisivo dell’embargo. L’esultanza con la quale il nuovo presidente statunitense, Donald Trump, salutò nel novembre del 2016 la scomparsa di Fidel Castro, avvenuta all’età di 90 anni, costituì un’ulteriore conferma del ritorno ad un orientamento ostile nei confronti del nemico di sempre, approccio che si sarebbe tradotto in una serie di misure concrete che avrebbero finito per azzerare nel giro di pochi mesi buona parte dei progressi compiuti sul fronte del “disgelo”.
Finita l’era dei fratelli Castro, e con un nuovo presidente al comando del paese, l’ingegnere cinquantottenne Miguel Díaz-Canel, il popolo cubano sarà chiamato ad esprimersi il prossimo febbraio su di un progetto di riforma costituzionale approvato nel luglio del 2018 dall’Assemblea Nazionale del Potere Popolare che, qualora approvato, fra le varie cose, istituzionalizzerà l’esistenza della piccola proprietà privata – mantenendo, però, il principio della proprietà socialista dei mezzi di produzione –, già riconosciuta di fatto, peraltro, dal regime; riconoscerà il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso; instituirà la figura del presidente della Repubblica e quella del primo ministro. Soprattutto le giovani generazioni, quelle in cui è meno forte e “diretto” il legame con gli “eroi” della rivoluzione, iniziano a spingere verso qualche forma di cambiamento, attratti, come altrove nel mondo, dalle fascinazioni propagandate dai social network e convinti di poter migliorare la propria condizione se quella cubana dovesse inserirsi a pieno titolo nella società globale. Sul piano economico, al netto di un modello di tipo “vietnamita”, che ha garantito una discreta crescita e maggiore dinamicità, e di un legame sempre più stretto con la Russia – sodalizio che preoccupa non poco gli analisti della Casa Bianca – a Cuba, è inutile nasconderlo, sono tante le cose che non vanno, e non tutti i problemi sono semplicemente il prodotto dell’isolamento imposto dagli Stati Uniti. Ma non bisogna dimenticare che questa piccola isola ha attraversato la Guerra Fredda, il “mondo unipolare”, la globalizzazione, la sostanziale ridefinizione degli equilibri regionali e mondiali degli ultimi anni (con conseguente perdita del sostegno di quelle poche nazioni che, almeno in parte, si erano sostituite all’URSS), l’ostracismo della gran parte dell’opinione pubblica e dei media mondiali e finanche di quella diffusa intellettualità progressista, subendo non pochi scossoni, ma senza mai capitolare. E questo sarebbe stato impossibile senza il consenso della popolazione.
La Storia dovrà tener conto dei poveri d’America
Quello che segue è un estratto del primo dei due discorsi pronunciati da Ernesto Che Guevara nella nona sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU l’11 dicembre 1964. Il comandante argentino partecipa all’assemblea in qualità di ministro dell’Industria di Cuba – carica che ricopre dal 1961 – e approfitta dell’occasione per mettere sul tavolo la questione dei gravi squilibri che minano l’ordine internazionale che le stesse Nazioni Unite puntano a consolidare.
Senza fare sconti e senza giri di parole, Che Guevara punta il dito contro gli Stati Uniti, accusandoli di operare solo nel proprio interesse di potenza imperialista e di violare senza remore l’autodeterminazione e la libertà delle nazioni che non hanno i mezzi economici per competere allo stesso livello.
In chiusura, Guevara declama davanti alle Nazioni Unite la Seconda dichiarazione dell’Avana, che fu letta per la prima volta da Fidel Castro il 2 febbraio 1962 in un comizio pubblico nella capitale cubana, chiamando a raccolta le forze dell’America Latina per l’affermazione dei propri diritti e la liberazione da ogni forma di sfruttamento.
Discorso di Ernesto Che Guevara contro il colonialismo e per il risveglio dell’America Latina, 1964
Signor presidente, signori delegati,
[…]
Cuba viene ad esporre la sua posizione sui punti più importanti di controversia e lo farà con tutto il senso di responsabilità che comporta il far uso di questa tribuna, ma al tempo stesso rispondendo al dovere imprescindibile di parlare con piena franchezza e chiarezza.
Esprimiamo il desiderio di vedere questa Assemblea mettersi alacremente al lavoro e andare avanti; vorremmo che le Commissioni iniziassero il loro lavoro senza doversi arrestare al primo confronto. L’imperialismo vuole trasformare questa riunione in un vano agone oratorio, e non vuole che vengano risolti i gravi problemi del mondo; dobbiamo impedirlo. Questa Assemblea non dovrebbe essere ricordata in futuro soltanto per il numero XIX che la contraddistingue. Al raggiungimento di questo fine sono tesi i nostri sforzi.
[…]
Vogliamo chiarire, ancora una volta, che la nostra preoccupazione per l’America latina è ispirata dai legami che ci uniscono: la lingua che parliamo, la cultura che alimentiamo, il padrone che abbiamo avuto in comune. Che non siamo animati da nessun’altra ragione per desiderare la liberazione dell’America latina dal giogo coloniale nordamericano. Se qualcuno dei paesi latinoamericani qui presenti decidesse di ristabilire le relazioni con Cuba, noi saremmo disposti a farlo sulla base dell’uguaglianza e non in base al criterio che sia un dono fatto al nostro Governo il riconoscere Cuba come un paese libero del mondo; poiché questo riconoscimento lo abbiamo conquistato con il nostro sangue nei giorni della lotta di liberazione, lo abbiamo conquistato col sangue nella difesa delle nostre spiagge dall’invasione yankee.
Anche se respingiamo la pretesa volontà di ingerenza negli affari interni degli altri paesi che ci viene attribuita, non possiamo negare la nostra simpatia verso i popoli che lottano per la propria liberazione e dobbiamo onorare l’impegno del nostro governo e del nostro popolo di esprimere apertamente al mondo intero il nostro appoggio morale e la nostra solidarietà con i popoli che lottano in qualsiasi parte del mondo per rendere reali i diritti di piena sovranità proclamati dalla Carta delle Nazioni Unite.
Cuba, signori delegati, libera e sovrana, senza catene che la leghino a nessuno, senza investimenti stranieri nel suo territorio, senza proconsoli che orientino la sua politica, può parlare a fronte alta in questa Assemblea e dimostrare la giustezza della frase: “Territorio Libero di America” con cui è stata battezzata.
[…]
E se il nemico non è piccolo neppure la nostra forza è disprezzabile, poiché i popoli non sono isolati. Come afferma la Seconda Dichiarazione dell’Avana:
[…]
Nessun popolo dell’America latina è debole, perché fa parte di una famiglia di duecento milioni di fratelli che soffrono le stesse miserie, sono animati dagli stessi sentimenti, hanno lo stesso nemico, aspirano tutti ad uno stesso destino migliore e godono della solidarietà di tutti gli uomini e le donne del mondo.
Questa epopea che sta davanti a noi la scriveranno le masse affamate degli indios, dei contadini senza terra, degli operai sfruttati; la scriveranno le masse progressiste, gli intellettuali onesti e brillanti che sono così abbondanti nelle nostre sofferenti terre d’America latina. Lotta di masse e di idee, epopea che sarà portata avanti dai nostri popoli maltrattati e disprezzati dall’imperialismo, i nostri popoli sconosciuti fino ad oggi, che già cominciano a non farlo più dormire. Ci considerava come un gregge impotente e sottomesso e già comincia ad aver timore di questo gregge, gregge gigante di duecento milioni di latinoamericani nei quali il capitalismo monopolistico yankee vede già i suoi affossatori.
L’ora della sua rivincita, l’ora che essa stessa si è scelta, viene indicata con precisione da un estremo all’altro del continente. Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno; ora questa massa è quella che comincia ad entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d’America, per le balze delle sue terre, per i suoi piani e le sue foreste, fra la solitudine o il traffico delle città, lungo le coste dei grandi oceani e le rive dei fiumi comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti, pieni di desiderio di morire per “quello che è suo”, di conquistare i suoi diritti irrisi per quasi cinquecento anni da questo o da quello. Ora sì la storia dovrà prendere in considerazione i poveri d’America, gli sfruttati e i vilipesi, che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi, per sempre, la propria storia”.
Guarda il video del discorso di Ernesto Che Guevara all’Assemblea Generale dell’ONU l’11 dicembre 1964:
durata: 6:20 min.
Tutti i colori di Cuba nei periodici di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli possiede una rilevante collezione di periodici cubani illustrati, alcuni dei quali, come Bohemia e Verde Olivo, ancora in pubblicazione.
Del mensile Cuba (Cuba Internacional dal 1969) la Fondazione possiede alcuni esemplari delle annate 1963-1972. Edito dall’Empresa Consolidada de Artes Graficas, si distingue per le copertine a colori opera di importanti artisti cubani, alcune delle quali inneggianti alla rivoluzione o dedicate a personaggi della storia cubana
La rivista cubana Bohemia viene fondata il 10 maggio 1908 da Miguel Àngel Quevedo Pèrez all’Havana. Il settimanale prede il nome dalla famosa opera di Puccini e, su modello del francese Le Figaro, vuole essere un periodico illustrato non specializzato che si rivolge alle classi sociali benestanti: borghesi, tecnici, professionisti.
Dopo i difficili esordi, si trasforma nella rivista più popolare non solo a Cuba, ma in tutta l’America Latina, ospitando prestigiose e importanti firme di intellettuali e giornalisti di lingua spagnola. Non è solo un fondamentale strumento contro l’analfabetismo che affligge Cuba, ma le sue pagine saranno fondamentali per consolidare una coscienza politica e nazionale tra i cubani: non possiamo non menzionare l’appello lanciato dalla rivista per la costruzione di un mausoleo per l’apostolo dell’Indipendenza di Cuba, Josè Martì. Chiuso per un breve periodo durante la dittatura di Gerardo Machado (non sarà l’unica interruzione nelle pubblicazioni), Bohemia è di fatto una delle principali voci dell’insurrezione contro il governo di Fulgencio Batista. Sulle sue pagine, il 26 luglio 1958 viene pubblicato il famoso Manifesto della Sierra, che aveva come obiettivo l’unificazione dell’opposizione contro il regime. La rivista pubblicherà anche numerosi e importanti reportage sulla Sierra Maestra (ricordiamo il fotoreportage del 2 febbraio 1958 sulla vita dei barbudos) e sulla guerriglia rivoluzionaria di Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara.
Bastione delle forze rivoluzionarie dal 1 gennaio 1959, dopo l’abbandono a metà del 1960 del direttore Miguel Àngel Quevedo y de la Lastra, a cui era passata dopo la morte del padre e fondatore, la rivista viene rilevata dai lavoratori. Il giornalista Enrique de la Osa, già creatore nel 1943 della sezione “En Cuba”, che informa su temi politici e lancia importanti appelli contro la corruzione, viene nominato direttore. Di Bohemia la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli conserva nel suo Patrimonio numerose annate per un periodo compreso tra la metà degli anni sessanta e la fine degli anni settanta (1964–1979). Bohemia è stata la prima rivista a colori cubana (1914) e da un oltre secolo le sue pagine raccontano le questioni più rilevanti e i fatti più decisivi del panorama cubano e mondiale: il 7 gennaio 1962 nasce la sezione “Zafarrancho”, a cura del giornalista Mario Kuchilàn del Sol (vittima di torture durante la dittatura battistiana) dedicata a importati temi nazionali ed internazionali.
Verde Olivo venne definito «Un corpo ideologico dell’esercito» proprio da Ernesto “Che” Guevara. Nata pochi mesi dopo il trionfo della rivoluzione, il 10 aprile 1959, su iniziativa di Camilo Cienfuegos, Raul Castro e dello stesso Guevara, Verde Olivo è la rivista delle Fuerzas Armadas Revolucionarias (FAR). Fin dai primi numeri svolse un ruolo d’avanguardia tra la stampa periodica, fungendo da importante strumento per la conoscenza della storia di Cuba e per l’educazione e l’orientamento ideologico-politico delle truppe rivoluzionarie. Il periodico si segnala per interventi di Guevara all’interno della sezione “Consejos al Combatiente” e nella colonna che firmava con lo pseudonimo di “El Francotirador”, nonché di articoli riguardanti le vicende della lotta insurrezionale a Cuba poi raccolti nel volume Pasajes de la Guerra Revolucionaria.
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Proponiamo una selezione di copertine tra le più significative delle riviste cubane Cuba, Cuba Internacional, Bohemia e Verde Olivo, tratte dal Patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Radici storiche e politiche di un Boom: l’America Latina
Oggi l’America Latina, anche grazie ai progressi registrati nell’integrazione regionale, pur tra mille e stridenti contraddizioni, si candida ad essere un’area emergente chiamata a rivestire un ruolo di rilievo nelle relazioni internazionali del XXI secolo. Anche per questo risulta importante approfondirne la storia e cercare nel passato le radici di problemi e fenomeni che contribuiscono a chiarire il suo presente.
La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli vuole offrire il proprio contributo per consentire un diretto accesso alle ragioni di questo progresso attraverso le fonti che hanno fatto la storia di un continente e intende valorizzare la sezione delle monografie su questa parte di mondo.
Si tratta di circa 3.500 titoli che coprono un ventaglio tematico ampio e significativo. La rivoluzione cubana occupa ovviamente una parte significativa della collezione. Di sicuro interesse risultano le analisi e il dibattito sorti attorno alla questione dello sviluppo e del sottosviluppo dei paesi della regione, in particolare i lavori della Comisión Económica Para América Latina (CEPAL), costituita dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite nel febbraio del 1948 e tuttora operante, e le opere che si rifanno alla Teoría de la dependencia, che ha letto i problemi dell’arretratezza del subcontinente ponendo l’accento sulle dinamiche che caratterizzano i rapporti centro-periferia nell’economia mondiale e le loro ricadute in termini di sviluppo diseguale e di ruolo subalterno cui vengono costrette le aree periferiche del sistema, ridotte a semplici esportatrici di materie prime. Si possono così trovare opere che hanno rappresentato veri e propri classici del pensiero economico latinoamericano.
Altro filone tematico molto presente nella collezione è quello legato alle vicende cilene degli anni Settanta, dall’esperienza di governo del presidente Salvador Allende al cruento golpe del settembre 1973 che ha instaurato la dittatura militare. Oltre alle ricostruzioni storiche successive e agli scritti di alcuni protagonisti di quella stagione figurano anche numerosi opuscoli stesi dalle forza politiche della composita sinistra cilena dell’epoca. E’ questa una collezione che trova il suo completamento nel fondo archivistico Murillo Viaña, che dagli anni di governo di Unidad popular (1970-73) consente di estendere lo sguardo all’analisi del regime cileno, fino al referendum del 1989 che segna la transizione alla democrazia, senza escludere le reti dei cileni rifugiati all’estero.
Nel giro di una trentina di metri lineari di scaffali si può prendere visione di un panorama sfaccettato: fianco a fianco figurano i movimenti di guerriglia attivi tra gli anni Sessanta e Settanta; gli studi sul movimento operaio dei vari paesi; sul pensiero marxista latinoamericano; i movimenti sociali e la questione agraria; la rivoluzione messicana; il regime del generale Velasco Alvarado e i movimenti sindacali e sociali nel Perù; il movimento sandinista in Nicaragua; la storia del Brasile e dell’Argentina fino al periodo recente, etc…
Non potevano ovviamente mancare gli opuscoli della collana “Documenti della rivoluzione nell’America Latina”, pubblicati dalla Libreria Feltrinelli tra il 1967 e il 1970, che contengono analisi sulla situazione politica, economica e sociale di diversi paesi, discorsi di esponenti politici di primo piano, testimonianze, documenti programmatici delle forze della sinistra latinoamericana e dei principali movimenti di guerriglia, grazie ai quali venne offerta all’epoca la possibilità all’opinione pubblica italiana di avere accesso a documenti di prima mano concernenti il travaglio di un intero continente. Rappresentarono un contributo prezioso per far conoscere l’attualità dei difficoltosi e spesso traumatici processi in corso nell’America Latina ed oggi è la stessa collana a costituire oggetto di interesse storico, testimonianza del suo tempo.
Multimedia
Intervista a Patricio Guzmàn
In occasione della mostra Cile 1973. Da Allende alla dittatura nei documenti della Fondazione Feltrinelli è stata realizzata un’intervista esclusiva al regista cileno Patricio Guzmàn, pluripremiato autore di documentari quali La batalla del Chile e Salvador Allende. Intervista di Massimiliano Tarantino (Segretario Generale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Consigli di lettura
Diario di Bolivia di Ernesto Che Guevara
Dal novembre del 1966 al fatale 7 ottobre 1967, gli undici mesi di guerriglia di Ernesto Che Guevara nella sua ultima avventura in Bolivia. Il testo fu consegnato da Fidel Castro personalmente a Giangiacomo Feltrinelli che ne fece la prima traduzione mondiale (luglio 1968), contribuendo alla diffusione internazionale della testimonianza e del pensiero del Che. Lo strillo in copertina (“Gli utili di questa pubblicazione saranno devoluti interamente ai movimenti rivoluzionari dell’America Latina”) provocò reazioni accese dell’estrema destra nelle piazze e alcune interrogazioni parlamentari.
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