La repressione
Capitolo 7
La violenza di Stato
Il Cile divenne un vero e proprio Stato di polizia, mediante il ricorso costante alla violenza e ai più diversi metodi repressivi. Coercizione, torture e uccisioni si affermarono, infatti, come componenti abituali dello stile di governo.
La repressione generalizzata, da improvvisata e confusa – come nei giorni dello Stadio di Santiago, trasformato in un immenso centro detentivo a cielo aperto – si fece ben presto sistematica.
Emblematica l’operazione “Carovana della Morte”, un’eliminazione mirata di oppositori, soprattutto nel nord del paese. L’obiettivo dei militari era di annichilire qualsiasi forma di dissenso e di rimuovere ogni possibile intralcio all’instaurazione di un regime autoritario.
Un ruolo centrale fu svolto dagli organi di sicurezza nazionale e di polizia segreta: la “Dirección de Inteligencia Nacional” (DINA), la cui missione era “lo sterminio totale del marxismo”, e, dal 1977, la “Central Nacional de Informaciones (CNI). Queste non operarono come strutture separate dalla sfera politica e militare, ma svolsero compiti ben definiti rientranti tra le attività fondamentali e prioritarie dello Stato.
Morte agli oppositori
Secondo le stime ufficiali, il numero delle vittime si aggirò intorno ai 3.500, ma la detenzione in campi di concentramento o in appositi centri di tortura sparsi praticamente in tutto il Cile investì decine di migliaia di persone, sottoposte ad ogni sorta di violazione dei diritti umani.
Moltissimi furono i perseguitati politici costretti ad abbandonare il paese e si affermò anche il fenomeno dei cosiddetti desaparecidos, uomini e donne dei quali non si sarebbe saputo più nulla. La brutale e omicida azione “chirurgica” finalizzata all’annientamento del “nemico” si sarebbe protratta sin quasi alla fine della dittatura.
L’Operación Cóndor
Fu in questo contesto che si inserì l’Operación Cóndor, un’operazione clandestina promossa dai militari cileni in collaborazione con i vertici delle dittature di Brasile, Uruguay, Argentina, Bolivia e Paraguay, con l’appoggio di FBI e CIA: obiettivo, l’eliminazione dei dissidenti all’estero, in particolare delle personalità esiliate di spicco della precedente stagione politica. La motivazione principale, ovviamente segreta, fu quella di neutralizzare il comunismo in America Latina, cosa che si tradusse in un approfondimento del terrorismo di Stato.
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Le immagini proposte di seguito documentano la trasformazione del Cile in uno stato di polizia dedito a violenze di ogni tipo nei confronti degli oppositori politici.
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ISABEL ALLENDE
Ritratto in seppia
Temeva di poter perdere tutto diventando la sua amante; ma ormai si trovava già sulla soglia e la smania di toccarlo aveva avuto la meglio sulle sottiglieze della ragione. Entrò nella camera e, alla luce di una candela collocata sul tavolo, lo vide seduto, con le gambe incrociate sul letto, vestito con la tunica e i pantaloni di cotone bianco, lì ad aspettarla. Eliza non riuscì nemmeno a chiedersi quante notti lui poteva aver trascorso così, attento al rumore dei passi in corridoio, perché era stordita dalla sua stessa audacia e tremava per la timidezza e per ciò che la attendeva.
Vuoti di memoria
Partecipazione e impegno dal basso: i movimenti sociali in America Latina
Desolation Row. From Democracy to Oligarchy, 1976-2016
Il percorso della memoria. Verità e giustizia a quarant’anni dal golpe
Vuoti di memoria
Come si governa la memoria? Quali emozioni accompagnano l’atto di ricordare? Come si fanno i conti con la scena del passato?
Raccontarsela – La narrazione tra memoria e rimozione mette al centro il racconto del passato al tempo presente e gli effetti che induce in termini di emozione, rifiuto, identificazione, ascolto. La memoria spesso è una macchina che costruisce racconti in cui c’è il passato, ma anche il modo in cui è stato vissuto. Che cosa è avvenuto, ma anche il modo in cui si è fissato nel tempo. Il Giorno della Memoria mette al centro la ferita della storia. Ma accanto sta anche come si costruisce quel racconto e perché.
Dal fascicolo monografico di «Educazione sentimentale» dedicato alla Memoria rimossa del fascismo (n. 27/2017, FrancoAngeli) riprendiamo due brani che ci sembra rispondano al tema dell’incontro:
«Gli italiani hanno adottato tipi diversi di meccanismi di difesa: negazione e proiezione delle responsabilità per la Shoah, da un lato, messa in burla, sminuzzamento, in sintesi banalizzazione e sdrammatizzazione, nei confronti del fascismo… il fascista era uno che faceva il bullo (dimenticando tra l’altro che il fascismo è stato un fenomeno “autoctono”, l’abbiamo inventato noi… spagnoli, portoghesi, e poi nazisti, rumeni e ungheresi… vengono tutti dopo, cresciuti alla scuola del fascismo italiano, con le sue milizie, le formazioni paramilitari, le spedizioni punitive, l’umiliazione e in molti casi l’eliminazione fisica degli avversari).
Di qui l’indulgenza nei confronti di questa nostra storia e di questi nostri comportamenti cialtroni. E qui ci sarebbe da indagare a fondo indulgenza e autoindulgenza come tratto della cultura italiana (forse latina in generale).
A differenza della cultura tedesca che, secondo Zoja, subisce l’influenza della cultura protestante, luterana, tendenzialmente paranoica… come l’America del resto — la constatazione ha del sorprendente —, almeno quella wasp, che ha incorporato tratti paranoici, che si riconoscono ad esempio nella conduzione delle guerre (volte all’annientamento del nemico, fenomeno inedito nella tradizione militare europea!) o, ad esempio, nel trattamento degli indiani d’America.
Il lutto e il trauma si possono superare, purché vengano ripresentificati, ci ricorda Zoja. Certo ci vuole molto tempo e disponibilità. Tempo e disponibilità per compiere tutti gli atti, di natura fortemente simbolica, che i tedeschi, soprattutto per iniziativa delle istituzioni federali, hanno attuato a partire dal trauma del nazismo: programmi scolastici ad ampio raggio, musei ebraici, memoriali dell’Olocausto, fino alle struggenti “pietre d’inciampo” (le Stolpersteine) incastonate tra i cubetti di porfido sulla soglia delle abitazioni da cui gli ebrei tedeschi sono stati strappati per essere condotti ad Auschwitz…
Gli spagnoli, ad esempio, solo adesso stanno iniziando a elaborare i lutti della guerra civile e del franchismo. Mentre i cileni che, come ci ricorda Zoja, sono in larga misura di origine tedesca, hanno iniziato presto a rielaborare la dittatura di Pinochet che pure è molto meno lontana nel tempo rispetto al nazismo, al fascismo o al franchismo.
Un’affermazione forse un po’ troppo forte, ma che al momento guida la nostra ricerca, è quella secondo cui i tedeschi la propria responsabilità l’hanno accettata. Loro, con la loro rigidità, il loro ragionare in termini di bianco o nero, il sentimento diffuso di vergogna e l’amnistia, tutta politica, voluta da Konrad Adenauer nel 1949, dopo neanche il volgere di una generazione, grazie all’iniziativa di un coraggioso procuratore e di tre suoi giovani procuratori che nel 1958 avviarono un procedimento nei confronti di un aguzzino di Auschwitz, che diede avvio a ciò che sarebbe poi stato il processo di Francoforte (1963), pur a malincuore i tedeschi i conti con il nazismo hanno iniziato a farli; tanto che oggi nelle famiglie, nelle scuole, nelle piazze, l’elaborazione della colpa si può affermare che sia stata in buona parte realizzata. Per fare un esempio, a differenza di noi italiani, i tedeschi hanno pagato da tutte le parti risarcimenti alle vittime del nazismo.
Insomma, la loro colpa se la son presa su di sé. Per noi non è stato così.»
Tratto da Gruppo Polis di Ariele, Gli italiani e il fascismo. Spunti per una psicosocioanalisi della storia patria, pp. 14-15.
«Dario Forti — La domanda quindi allo psicoanalista, il fatto che vengano usati termini specifici de psicoanalisi, al netto del fatto che la psicoanalisi è entrata nel linguaggio del ‘900, ci dà una chiave di lettura su cui poter fare affidamento? Si può, a suo parere, parlare di rimozione? E se sì, di che tipo si è trattato? E perché, sappiamo che ogni difesa ha sempre una sua buona ragione…
Luigi Zoja — Non avevo mai pensato in questi termini, e mi fa notare che sono termini importanti. Allora credo che propriamente, in termini psicoanalitici, o di definizioni — tenga poi conto che non sono uno storico, ho letto abbastanza, ma sono assolutamente un dilettante — credo si possa parlare di un fenomeno che non è né rimozione né occultamento. Nel senso che c’è senz’altro una zona di rimozione e una di occultamento, ma che ciò che prevale è una zona intermedia di dimenticanza, che non è una categoria clinica — occultamento è una categoria morale, rimozione è una categoria psicoanalitica — c’è qualcosa di intermedio in cui non c’è l’inconscietà come nella rimozione e non c’è la deliberata disonestà come nell’occultamento. C’è però la dimenticanza, che è funzionale e molto comoda. Avete presente la parola riduttivo? Sarebbe riduttivo studiare tutto questo solo dal punto di vista psicoanalitico della rimozione; spero di avere insistito abbastanza nel mio libro Paranoia che sarebbe non sbagliato, ma sbagliatissimo, usare solo una categoria che addirittura è ancora più ristretta, psichiatrica, psicopatologica, come la paranoia. Quello che è interessante è combinarla con componenti politiche, storiche, sociologiche. E allora mi vengono in mente un sacco di cose: in Paranoia, un volume di quasi 500 pagine… ho appena accennato alla distinzione tra Mussolini e altri dittatori in termini psicopatologici. Però ho almeno suggerito la possibilità che l’Italia, pur con una politica assolutamente disonesta, criminale e dittatoriale, abbia fatto meno stragi perché il dittatore era più psicopatico che paranoico. Psicopatico — ma poi non lo era completamente, perché tra l’altro aveva un minimo di senso dell’onore e di coerenza… probabilmente erano più psicopatici gli altri politici o la famiglia reale, nella completa falsità — ma in generale Mussolini costruiva un’ipocrisia, faceva finta di crederci, non ci credeva e questo comportava una politica poi di fatto con forti proibizioni, ma zone di tolleranza, molto all’italiana, molto nella tradizione politica e nella tradizione cattolica — c’è il peccato, e il peccato si affronta con la confessione, non c’è il puritanesimo che è la base per la paranoia — bene qui, male di là — va be’, la Germania poi è mista, ma prevale la tradizione protestante perché è la terra di Lutero e quindi c’è un potenziale genocida, se posso dire, nell’inconscio collettivo, come c’è esattamente negli Stati Uniti, fondati sul puritanesimo, che hanno eliminato le tribù native…»
Tratto da Fascismo e inconscio collettivo degli italiani, conversazione di Dario Forti con Luigi Zoja, p. 66.
Partecipazione e impegno dal basso: i movimenti sociali in America Latina
In America Latina i movimenti popolari sorti dal basso, spesso sull’onda di rivendicazioni e vertenze circoscritte, hanno svolto un ruolo significativo nello stimolare la scelta dell’impegno e della partecipazione politica da parte di settori tradizionalmente “esclusi”. Altrettanto importante è stato il loro apporto nel modificare, tramite una spinta costante, il quadro politico durante l’arco temporale che corre tra il declino dei regimi autoritari, il ritorno alla democrazia e lo sfaldarsi degli equilibri e dei tradizionali referenti politici durante la parabola del ciclo neoliberale, per arrivare fino alla definizione di nuovi soggetti ed agende politiche durante il ciclo progressista, che ha caratterizzato gran parte del subcontinente latinoamericano nel primo quindicennio del XXI secolo.
Già nel corso degli anni Ottanta, in alcuni contesti come quello cileno, iniziarono a manifestare una loro presenza, a dispetto della repressione violenta della dittatura militare, i movimenti delle periferie urbane, dei quartieri poveri, dei barrios e dei pobladores. Specialmente a partire dai moti del 1983 i comitati popolari dei pobladores divengono uno dei veri epicentri dell’opposizione alla dittatura, organizzando in condizioni durissime ben 11 proteste nazionali tra il maggio del 1983 e l’ottobre del 1984. Le barricate che ponevano limiti anche fisici all’azione delle forze repressive dello stato, rappresentavano un modo per negare all’autorità il controllo dello spazio, offrendo protezione a una comunità che affermava la propria diversità ponendo con ciò stesso in discussione la proposta totalizzante del regime.
Volantino di una manifestazione indetta dal coordinamento de pobladores contro il regime di Pinochet.
Dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Archivio Murillo Viaña)
Quando in America Latina finì il cupo periodo delle dittature militari e in tutto il subcontinente si avviò la transizione alla democrazia il pensiero neoliberale egemonizzava il discorso economico, sociale e politico.
Anche le forze di centrosinistra, pur con maggior sensibilità verso i temi sociali, sostenevano che non vi fossero alternative alle politiche economiche promosse dalle destre politiche della regione.
Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, l’America Latina si è trovata in una situazione ambigua: politiche che favorivano una crescente concentrazione della ricchezza, l’accumularsi di diseguaglianze e finivano con il polarizzare la società non incontravano opposizioni politiche credibili.
Anzi, in un primo tempo, proprio all’ombra del generale e tacito consenso circa la mancanza di alternative, il neoliberismo e l’arruolamento dei politici della sinistra tradizionale nelle sue fila ha favorito la diffusione di sentimenti di disorientamento, disaffezione politica e di de-politicizzazione. Chi poteva rappresentare le istanze delle classi popolari se le uniche ricette che potevano essere seguite avevano come conseguenza la crescita delle diseguaglianze e l’esclusione? Il ripiegamento sulla dimensione individuale e sulla concezione individualista della vita è stato, non solo in America Latina, un tratto distintivo e marcato delle società neoliberali.
Povertà e indigenza in America Latina (1980-2011)
Grafico che illustra la percentuale e il numero in valore assoluto di poveri e indigenti in America Latina dal 1980 al 2011. Il grafico evidenzia il picco di poveri e indigenti che si registra in connessione con l’adozione delle politiche neoliberali nel corso degli anni Novanta e all’inizio del Duemila. Fonte CEPAL, i dati del 2011 sono stimati.
In un contesto del genere, i tentativi di resistenza e di organizzazione di una risposta popolare dal basso alla politica tradizionale, non trovando canali di trasmissione istituzionali, hanno occupato il campo dei movimenti sociali. Questi hanno sviluppato vertenze difensive, per far quadrato contro l’alienazione di risorse pubbliche, contro la gestione privata dei servizi di base, sviluppando un forte spirito comunitario e favorendo lo stabilirsi di reti di contatti e legami sociali tra i membri di un territorio.
Movimenti organizzati sono così sorti nel mondo contadino per la riforma agraria e l’occupazione di terre non coltivate, come nel caso dei Sem terra brasiliani.
Oppure sono sorti nei barrios alle periferie delle megalopoli per la gestione collettiva delle risorse e degli spazi. In ogni caso, a seguito dell’approfondirsi delle contraddizioni del modello di sviluppo adottato, interi settori sociali hanno gradualmente maturato la consapevolezza di essere marginalizzati o a rischio di marginalizzazione. La coscienza della propria fragilità ha favorito la diffusione dei discorsi elaborati negli ambiti di lotta popolare, che hanno contagiato non solo settori del mondo del lavoro salariato, ma si sono allargati agli impiegati di classe media, ai professionisti e agli autonomi, in un contesto caratterizzato da crisi, sfiducia e perdita di punti di riferimento.
Questo processo, questa potente e costante pressione dal basso, ha consentito la lenta accumulazione di forze per il dispiegamento, in un secondo tempo, di proposte politiche alternative e nuove coalizioni.
In Bolivia, all’inizio degli anni Novanta, alla periferia di Cochabamba oltre 100 comitati locali dell’acqua presero l’iniziativa di gestire le risorse idriche in modo autorganizzato, nell’assenza dell’azione pubblica. Il successivo tentativo di privatizzare l’acqua incontrò un’accanita e vittoriosa resistenza in quella che è stata definita “guerra dell’acqua”, proprio grazie al precedente investimento che le collettività avevano effettuato dal basso sull’acqua come risorsa strategica e bene comune.
Nel paese andino questo episodio è stato determinante per favorire una svolta politica. Tra gli altri elementi che hanno consentito il lievitare delle mobilitazioni che hanno prodotto un cambiamento radicale dal punto di vista politico e sociale, vi è stato il risveglio delle comunità indigene, da sempre schiacciate alla base della piramide sociale e tenute ai margini delle rispettive comunità nazionali. Le comunità indigene hanno riscoperto le loro radici, la loro cultura, la loro cosmologia in materia di rapporto con le risorse naturali e di relazioni sociali. Forti dei loro legami comunitari e della loro riscoperta identità, hanno dato un nuovo impulso al movimento contadino e hanno rappresentato il motore del cambiamento incarnato dal Movimento al Socialismo (MAS) del presidente Evo Morales, il primo indigeno a diventare capo dello stato boliviano.
Il risveglio delle comunità indigene è stato il risveglio degli ultimi tra gli ultimi. Un fenomeno che, seppur con minor forza, si è registrato anche in altre realtà del Sudamerica, come in Ecuador con la CONAIE, la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, fondata nel 1986.
Chato Peredo, fratello del leader dell’Esercito di Liberazione Nazionale, Inti Peredo, lui stesso membro della guerriglia accesa da Guevara in Bolivia, è oggi un esponente del MAS. Ecco come presenta questo processo di emancipazione che ribalta i tradizionali equilibri della società sudamericana, portando ciò che era in basso alla sommità.
Guarda l’intervista a Osvaldo “Chato” Peredo:
I movimenti sociali si sono posti su un terreno antagonistico rispetto alla sfera privata del mercato, senza per questo appiattirsi sulla gestione di un pubblico dipendente dall’iniziativa di un’autorità statale lontana e considerata non affidabile. Il modello di bene comune o di “privato sociale” (come ha sostenuto il sociologo peruviano Anibal Quijano) delle organizzazioni comunitarie e delle reti solidali rappresenta forse uno dei portati originali del mondo popolare latinoamericano. Un mondo che arriva a configurare, tramite la sua autonomia e iniziativa, uno spazio nella società sottratto alla logica del mercato nel quale si cerca di sperimentare nuove relazioni di scambio.
Emblematica del passaggio di fase attraversato con sfumature diverse da tutta la regione a cavallo tra XX e XXI secolo, è stata la crisi argentina del dicembre 2001, quando il default e lo scoppio dell’ira popolare costrinsero il presidente dell’epoca, De La Rua, a fuggire in elicottero. La crisi economica, con il suo impatto sociale, produsse una serie di iniziative dal basso da parte di coloro che si trovavano esclusi dai processi di produzione. In questo contesto alcune fabbriche di aziende fallite vennero recuperate e autogestite dai lavoratori, rimesse in produzione secondo criteri nuovi. Queste realtà sono spesso entrate in una rete di relazioni con le periferie e con comitati di quartiere e di disoccupati (piqueteros) per sviluppare canali di distribuzione e scambio non totalmente ascrivibili alle logiche classiche del mercato. Gli intenti manifestati da parte di queste realtà di ricucire i lacci delle relazioni sociali strappate da decenni di individualismo attraverso la sperimentazione di nuove forme di organizzazione, orizzontali e inclusive rispetto a quelle dell’esperienza tradizionale del movimento operaio, si iscrivono in quella che è stata definita economia sociale.
In questo contesto i movimenti sociali e le loro rivendicazioni sono divenuti levatrici di un nuovo ciclo politico, nel quale non si sono annullati ma al quale hanno concorso massicciamente: il ciclo progressista che ha interessato la regione nell’ultimo quindicennio con l’ascesa al governo in quasi tutti i paesi del subcontinente di formazioni politiche progressiste.
Guarda l’intervista a Raffaele Nocera:
Questi movimenti rivendicano la loro autonomia dalle forze istituzionali e tradizionali. Anzi, sono essi stessi che hanno favorito lo sviluppo per emanazione di nuovi soggetti politici, con i quali intrecciano tuttavia relazioni contraddittorie. E’ anche grazie a loro, se a un certo punto della loro storia recente, le forze progressiste e i movimenti di emancipazione sono passati da una fase di resistenza/opposizione a una fase offensiva di proposizione, sulla base di un’agenda segnata sa sensibilità multiformi, tra le quali è possibile intravedere: l’afflato all’uguaglianza; alcuni elementi dei programmi di sviluppo nazionalisti e autocentrati tentati nella regione tra gli anni ’50 e ’70; la spinta all’inclusione sociale e alla partecipazione politica tramite istituti che favoriscono un protagonismo civico dal basso; l’attenzione alle tematiche dell’ecologia, del femminismo, del protagonismo delle comunità indigene, il cui apporto originale è stato fondamentale per delineare un cambio di passo nella regione, almeno nella sua parte andina.
Dopo aver contribuito al cambiamento politico nella regione favorendo l’inizio di una nuova fase politica caratterizzata dall’ascesa dal variegato spettro delle sinistre regionali in gran parte del subcontinente (la marea rosada) il rapporto dei movimenti sociali con i governi progressisti ha anche attraversato fasi caratterizzate da diffidenze e attriti. I movimenti sociali si sono trovati spesso “minacciati” dalla cooptazione dei loro vertici, con il conseguente depotenziamento della loro capacità di incidere nella realtà. Mentre il ciclo progressista, nonostante abbia prodotto numerosi passi avanti in direzione della redistribuzione della ricchezza e dell’inclusione sociale e politica di larghe fasce della popolazione, non è riuscito nell’intento di cambiare il modello di sviluppo della regione, che è rimasta prigioniera della sua dipendenza dall’esportazione dei prodotti primari e dal prezzo sul mercato mondiale delle commodities. Quando all’orizzonte si è affacciata una congiuntura negativa, il blocco sociale su cui queste esperienze si sono appoggiate ha iniziato a franare mentre i margini di manovra dei governi progressisti si è ristretto.
Tuttavia, con il loro attivismo dal basso e con le loro diversità, i movimenti sociali latinoamericani stanno forse sottotraccia promuovendo processi che possono innescare cambiamenti significativi nel sentire comune della gente, prima ancora che nella realtà materiale propriamente intesa.
Consiglio di lettura
Democrazie inquiete. Viaggio nelle trasformazioni dell’America Latina
Democrazie inquiete. Viaggio nelle trasformazioni dell’America Latina ripercorre le vicende politiche, economiche e sociali di alcuni paesi dell’America Latina nell’arco dell’ultimo quarto di secolo.
Stato di salute della democrazia, gestione di politica economica, pulsioni populiste e tentazioni autoritarie, protagonismo di movimenti sociali e politici rappresentano le chiavi interpretative dei saggi qui raccolti.
Saggi che consentono di delineare una visione d’insieme della parabola del ciclo progressista che ha caratterizzato la regione in questa prima parte del XXI secolo.
Desolation Row. From Democracy to Oligarchy, 1976-2016
Descrizione dell’eBook
In questo saggio, Fabrizio Tonello ci mostra come dopo il 1968 siano state create o rafforzate istituzioni con l’obiettivo di limitare e contenere la democrazia, e come in questo processo lo stato nazionale sia stato deliberatamente indebolito nei suoi poteri economici, e rafforzato in quelli di sorveglianza e repressione.
Gran parte delle sue capacità di decision-making nell’ambito economico e sociale è stata trasferita a entità private o a organismi internazionali in cui gli interessi dell’oligarchia possono essere difesi con più efficacia.
Conosci l’autore
Fabrizio Tonello è professore di Scienza politica nella Scuola di Economia e Scienze politiche dell’università di Padova. Si occupa prevalentemente di politica americana, il suo ultimo volume è L’Età dell’ignoranza. È possibile una democrazia senza cultura? (Milano, 2012).
Il percorso della memoria. Verità e giustizia a quarant’anni dal golpe
A quarant’anni dal golpe, la memoria dei desaparecidos e la richiesta di verità sono ancora ferite aperte per la democrazia argentina.
Vogliamo proseguire la nostra riflessione sulla memoria e su cosa voglia dire raccontare il passato oggi. In sinergia con la valorizzazione del patrimonio archivistico di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sull’America Latina e con le attività svolte dalla linea di ricerca sull’Innovazione politica, vogliamo inaugurare una serie di interventi che permettano di seguire le trasformazioni politiche che hanno interessato il Cono Sud nel corso dell’ultimo decennio per interrogarci sulla salute e sulle prospettive delle democrazie latinoamericane. [N.d.T.]
Nella recente storia argentina due date hanno un particolare significato: il 24 marzo 1976 e il 10 dicembre 1983.
Il 24 marzo 1976 è il giorno del golpe, quando una Giunta militare prese il potere per realizzare il Proceso de Reorganización Nacional, di cui si ricorda la sistematica violazione dei diritti umani e le fallimentari riforme economiche.
Il 10 dicembre 1983 segna l’uscita di scena dei militari e il ritorno alla democrazia: nella Giornata Internazionale dei Diritti Umani assunse la presidenza il radicale Alfonsín, vincitore delle elezioni del 30 ottobre con il 52% dei consensi e che – nel tener fede alle promesse elettorali – nominò la Comisión nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep), che offrì con alcuni limiti una prima ricostruzione degli orrori della dittatura nel rapporto Nunca más (1984); ottenne poi dal Congresso l’abrogazione della legge di auto-amnistia dei militari e avviò i procedimenti giudiziari nei confronti dei membri delle tre Giunte susseguitesi nei 7 anni di dittatura che, dall’aprile al dicembre 1985, furono processati e condannati a pene comprese fra l’ergastolo (Videla e Massera) e alcuni anni di reclusione (Viola, Lambruschini e Agosti) oppure vennero assolti (Galtieri, Graffigna, Anaya e Lami Dozo).
Gran parte degli argentini a quell’epoca era convinta che Alfonsín avrebbe proseguito sulla strada della Giustizia e della Verità, ma la prospettiva di più di mille processi ai militari di rango inferiore, oltre a rendere l’idea delle dimensioni della tragedia, alimentò resistenze e tensioni nelle Forze Armate, i cui membri rivendicarono il ruolo di difensori della Patria e dimostrarono di non essere ancora usciti di scena, rivelando invece tutta la fragilità della democrazia, che Alfonsín decise di proteggere con un percorso di riconciliazione nazionale, cioè offrendo risarcimenti ai familiari dei desaparecidos e concedendo l’impunità ai militari (Ley de Punto final, 1986, Ley de Obediencia debida,1987). Venuto meno però il consenso della piazza, Alfonsín si dimise e le elezioni anticipate furono vinte dal peronista Menem, che proseguì nella politica di riconciliazione e consolidò l’impunità col concedere indulti ai militari già condannati, inclusi i membri delle tre Giunte.
A metà degli anni ’90, dunque, nessun militare coinvolto nella dittatura si trovò a dover rispondere alla Giustizia per i crimini commessi, ma di quegli anni restarono 30.000 desaparecidos, di cui 8.960 denunciati, e circa 340 centri clandestini di detenzione, documentati dalla ‘Memoria Istituzionale’ che accolse la ‘Teoria dei due demoni’, per spiegare il terrorismo di Stato come l’inevitabile risposta al terrorismo delle sinistre, suscitando sconcerto nella società che non riconosceva nelle vittime solo terroristi, ma anche gente comune. Nella Plaza de Mayo continuarono le ronde del giovedì delle Madres e delle Abuelas, gli HIJOS iniziarono a organizzare gli escraches/smascheramenti di coloro che erano scivolati indenni fra le maglie della Giustizia e si celebrarono, in patria, los juicios por la verdad, cioè processi senza sentenze di condanna volti a soddisfare il diritto alla Verità dei parenti delle vittime e, all’estero, processi per quei cittadini stranieri vittime della dittatura, conclusisi invece con sentenze di condanna (in Italia nel 2000 e nel 2007, in Spagna nel 2005).
Il percorso di amnesia per la ‘necessaria riconciliazione nazionale’ viene abbandonato solo dal 2003, con la presidenza del peronista Kirchner. Nel discorso d’insediamento ricorda di far parte di una ‘generazione decimata’ (25 maggio 2003), si dichiara ‘figlio’ delle Madres e delle Abuelas (Discorso all’ONU, 25 settembre 2003). Nell’anniversario del golpe del 2004, il primo che celebra come Presidente, dispone la rimozione dal Colegio Militar dei ritratti di Videla e Bignone.
Sul fronte della Giustizia, fra il 2003 e il 2007, Kirchner annulla il decreto che impedisce l’estradizione dei militari per i processi all’estero, ottiene l’annullamento dal Congresso delle leggi d’impunità e dalla Corte Suprema degli indulti, consentendo la riapertura dei processi contro centinaia di militari e di civili sino ad allora impuniti (con la simbolica condanna all’ergastolo di Videla nel dicembre 2010), cui si affiancano, per tutto il kirchnerismo (2003-2015), le iniziative dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti nella ricerca della Verità e nella promozione della Memoria.
Marzia Rosti
Università degli Studi di Milano
24/04/2016
Consigli di lettura
Per approfondire le tematiche affrontate da Marzia Rosti nel suo articolo, proponiamo il catalogo bibliografico sull’America Latina. CLICCA QUI per scaricare il PDF.
Uno sguardo al passato
Di seguito, invece, è possibile consultare i documenti della mostra sul Cile pubblicati da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel giugno del 2014 [Clicca qui per accedere alla pagina]. Organizzata in un percorso visivo e documentale, la gallery tocca le varie fasi della storia contemporanea cilena: l’elezione di Allende, le politiche del governo di Unidad popular, la destabilizzazione interna, il golpe, la repressione sotto il regime militare fino al referendum del 1988 che segna l’inizio della transizione alla democrazia.
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