Il regime militare
Capitolo 6
La “missione” dei militari
La definizione di un “nuovo corso” in Cile emerse dai bandi che i militari emisero già a partire dall’11 settembre. “Davanti a Dio e alla Storia”, i comandanti in capo delle tre armi – il generale Pinochet, l’ammiraglio José Toribio Merino e il comandante dell’Aviazione Gustavo Leigh – si auto-investirono di una “missione suprema”, salvifica e purificatrice, di ricostruzione della “normalità nazionale” attuata attraverso un radicale smantellamento del sistema politico-economico del paese e l’eliminazione di qualsiasi forma di dissenso interno.
I provvedimenti repressivi
Le tappe preliminari verso la costruzione di una “democrazia protetta” furono: chiusura del Parlamento; messa al bando dei partiti che avevano fatto parte di UP, e successivamente anche dei democristiani; soppressione della libertà di stampa; profonda riorganizzazione dell’amministrazione pubblica e di tutte le altre istituzioni politiche, sociali e culturali che avevano contribuito allo sviluppo del “cancro marxista”.
La giunta militare arrogò a sé il potere legislativo, mentre con la Dichiarazione di Principi del giugno 1974, Pinochet assunse il titolo di “Comandante Supremo della Nazione”. Sulla base di un presunto stato di “guerra interna”, l’esecutivo in divisa spazzò via qualsiasi tipo di diritto civile e politico, mentre proseguiva nell’azione repressiva sempre più sistematica e chirurgica. Il potere giudiziario, unico ramo costituzionale a non essere “decapitato”, fu complice di tali violazioni. Solo la Chiesa cattolica riuscì a far sentire la sua voce critica.
La trasformazione dell’economia
Un modello economico ultraliberista e una politica di macelleria sociale furono gli assi centrali del progetto della “rivoluzione restauratrice” pinochettista. Si procedette a una sensibile riduzione della presenza pubblica nell’industria, ma non in quella pesante e nel rame, contrazione dei salari reali, forte limitazione dei servizi sociali, apertura del mercato interno a quello internazionale mediante la liberalizzazione del commercio, soppressione dell’attività sindacale, liberalizzazione del mercato del lavoro e facilitazioni per gli investimenti stranieri. La giunta si rivolse a un gruppo di economisti, noti come “Chicago Boys”, la cui ricetta faceva leva essenzialmente sulla centralità del libero mercato e sulla ridefinizione del ruolo dello Stato in economia. Questa trasformazione di sistema comportò altissimi costi sociali per gran parte della popolazione.
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La violazione delle libertà democratiche, l’instaurazione violenta di un regime autoritario, la complicità degli Stati Uniti con l’ausilio della CIA non passarono inosservati in America Latina e nel mondo. Le immagini proposte di seguito testimoniano, attraverso le vignette satiriche di diverse pubblicazioni, come la lettura dell’evento fosse fin da subito quella di un atto ingiusto e violento.
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ISABEL ALLENDE
La casa degli spiriti
E in quel momento, come avrebbe ricordato anni dopo Nivea, in mezzo alla trepidazione e al silenzio, si udì ben nitida la voce della piccola Clara. – Pst! Padre Restrepo! Se il racconto dell’inferno fosse tutta una bugia, saremmo proprio fregati… Il dito indice del gesuita, che era rimasto a mezz’aria per indicare nuovi supplizi, rimase sospeso come un parafulmine sopra la sua testa. La gente smise di respirare e quelli che stavano con la testa a ciondoloni si ripresero. I coniugi del Valle furono i primi a reagire sentendo che li invadeva il panico e vedendo che i loro figli cominciavano ad agitarsi nervosi. Severo comprese che doveva far qualcosa prima che esplodesse la risata collettiva o si scatenasse qualche cataclisma celeste. Prese sua moglie per un braccio e Clara per il collo e uscì trascinandole a grandi falcate, seguito dagli altri figli che si precipitarono in gruppo verso la porta. Riuscirono a uscire prima che il sacerdote avesse potuto invocare un fulmine che li trasformasse in statue di sale, ma dalla soglia udirono la sua terribile voce di arcangelo offeso. – Indemoniata! Superba indemoniata!
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
Bolsonaro e il golpe del ’64: come il potere controlla e manipola la memoria
In presa diretta. La costruzione del fascismo raccontata in tempo reale (1919-1925)
Delirio razzista. L’antifascismo in tempo reale contro le leggi razziali
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
Dal 1917 in Russia, la propaganda diventa il mezzo dello Stato per parlare non solo della condizione materiale, ma anche della condizione morale. Perché il futuro migliore non è solo quello con più risorse, ma anche quello in cui si realizza la condizione di equilibrio tra benessere materiale e felicità. Una condizione, questa, che fa da sfondo a un lungo processo maturato nel corso del Novecento: la progressiva urgenza del problema del limite alle risorse come inquietante limite alla felicità.
Questo processo conosce un primo punto di svolta con la crisi energetica dei primi anni Settanta, quando inizia la sfida per pensare a un altro sviluppo e dotarsi di un’altra immagine utopistica di futuro. L’arte di regime diventa il mezzo per realizzare questi intenti e attraverso le sue opere deve far apparire l’URSS come “il paese più felice del mondo”.
Il kit didattico affronta quindi questo tema, i suoi sviluppi e la sua evoluzione dalla Rivoluzione di Ottobre fino ai tempi recenti di Putin. In particolare, i contenuti sono sviluppati per analizzare il codice visivo che fu il mezzo predominante, soprattutto nell’età staliniana, di diffusione dei messaggi politici e dei modelli di comportamento promossi dalla nuova ideologia comunista.
Bolsonaro e il golpe del ’64: come il potere controlla e manipola la memoria
Sin dagli studi di Maurice Halbwachs, la memoria è stata studiata nelle scienze sociali del ventesimo secolo come un fenomeno collettivo. La sua capacità creativa, né totalmente collettiva né solamente individuale, è una questione che ha alimentato le teorie filosofiche contemporanee della memoria.
Secondo la teoria anamnestica della giustizia del filosofo spagnolo Reyes Mate, l’obiettivo principale della memoria è affrontare l’ingiustizia delle vittime ed evitare che gli stessi errori si ripetano. La memoria è un antidoto alla barbarie perché inseparabile dalla giustizia come suprema virtù etica, e quindi implica un progetto educativo, vale a dire la formazione e la selezione di quel patrimonio di valori e di categorie che si desiderano trasmettere da una generazione all’altra per mantenere determinati vincoli di una comunità politica.
La memoria, tuttavia, è lungi dall’essere un magazzino di cose edificanti. La memoria è pericolosa, perché non risolve i problemi, ma piuttosto li complica, aprendo ferite e esponendoci all’amara constatazione che il nostro presente è costruito sopra molte ingiustizie e sconfitte. Per questo, i politici che conoscono il significato della memoria sono ben consapevoli del suo potenziale critico e sono molto diligenti nello sviluppare politiche di controllo della memoria.
Non c’è politico degno di questo nome che non persegua una politica della memoria o che non voglia addirittura creare una nuova memoria per mezzo di un nuovo calendario e di nuovi culti religiosi, come, durante la Rivoluzione francese, Robespierre aveva tentato di fare illusoriamente attraverso l’introduzione del culto dell’essere supremo.
Diceva Renan che tutti i popoli inventano il loro passato. I nazionalisti hanno successo e funzionano, proprio istituendo un passato assolutamente artificiale. Tutti gli Stati moderni si trovano a dover inventare il loro passato, come se avessero bisogno di grandi eroi e grandi feste con le quali identificarsi. Questo artificio diventa esplicito quando la memoria porta allo scoperto un passato assente, che guasta le feste del passato costruito sulle pratiche dei vincitori. Il passato assente è quello delle vittime che non poterono arrivare ad esistere e che, pertanto, non hanno altra difesa se non la memoria degli altri.
Su questo sfondo possiamo valutare a quale livello di aberrazione arrivano le recenti affermazioni del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che nel giorno di domenica 24 marzo, secondo il suo portavoce, avrebbe dato istruzioni al ministero della difesa perché le forze armate commemorassero nel modo più appropriato la data del colpo militare del 31 marzo 1964 – avvenuto, in realtà, nelle prime ore del 1˚ aprile, conosciuto in Brasile come giorno della menzogna (Dia da Mentira) –, che dette inizio a 21 anni di dittatura.
Perché il presidente di una moderna democrazia incoraggia la celebrazione di un evento che racchiude tutto il contrario della democrazia? Perché Bolsonaro non considera la presa di potere da parte dei militari come un colpo di stato. Anche se il golpe fu il principio di un periodo di eccezione, caratterizzato dalla censura, dalla cassazione dei diritti politici, dalla tortura degli avversari politici e dalla chiusura del Congresso Nazionale, al presidente Bolsonaro piace credere che l’‘intervento’ militare fu la salvezza della civiltà da una fantomatica minaccia comunista.
La giornalista brasiliana Hildegard Angel, i cui parenti sono morti a causa dei militari, commenta rattristata per la rivista The Guardian che la celebrazione dell’anniversario del ’64 in Brasile è come l’istituzione di una giornata alla memoria di Hitler in Germania.
Certamente la posizione di Bolsonaro illustra quello che gli storici chiamano negazionismo. Ma questa negazione del golpe, con l’esplicito corollario secondo cui la democrazia e la libertà esistono solamente se i militari lo vogliono (secondo la dichiarazione del 7 marzo, in occasione della cerimonia di anniversario del corpo dei fucilieri navali di Rio de Janeiro), non è una nuova rivelazione sulle opinioni di Bolsonaro, che non ha mai fatto mistero di ammirare la dittatura. Se Bolsonaro è riuscito a farsi eleggere, è anche perché la dittatura militare non è mai stata superata, al punto che la sua memoria può essere utilizzata come combustibile per alimentare l’odio, per nutrire il risentimento sociale della parte più crudele e retrograda del Brasile, quella che si identifica nell’immaginario del maschio bianco autoritario, che odia il politicamente corretto e si allarma per una presunta dominazione del mondo da parte degli omosessuali, dei neri e delle donne.
Per chi sta lontano dai palazzi della politica è difficile capire se le dichiarazioni sul golpe del ’64 sono solo esternazioni spontanee di un politico sconsiderato, che da tempo ha abituato i brasiliani a ‘uscite’ di questo genere, o se dietro ad esse c’è un preciso calcolo politico della sua corte di consiglieri e agenti di marketing. Se questo fosse il caso, il loro scopo non sarebbe altro che quello di sollevare un polverone, di provocare un’onda di indignazione che distolga l’attenzione dell’opinione pubblica dalle azioni concrete del suo governo, specialmente del ministro dell’economia Paulo Guedes, che in questi giorni è in difficili trattative con i deputati per far approvare la riforma della previdenza sociale con pesanti effetti sulla vita di milioni di lavoratori.
Le dichiarazioni scioccanti e la retorica di rendere il Brasile una patria grande e rispettata potrebbero essere nient’altro che una cortina di fumo per nascondere la pratica della vecchia politica di compravendita dei voti e distribuzione di incarichi e benefici.
Indipendentemente dalla strategia del governo, di cui il presidente appare ogni giorno di più come uno scervellato fantoccio, il progetto populista di un Brasile ‘al di sopra di tutti’, con Dio ‘al di sopra di tutto’ (secondo lo slogan della campagna presidenziale) non va compreso come il progetto di creazione di una nuova memoria storica, ma come la creazione di un mondo immaginario, indifferente alle categorie di vero e falso e basato sulla rimozione costante del senso storico.
Come è stato osservato dal giornalista brasiliano Juremir Machado da Silva in un suo strepitoso editoriale risalente all’epoca delle elezioni del 2018, bisogna comprendere che Bolsonaro non è soltanto un individuo, ma incarna un immaginario: quello di un soggetto disinformato che sostiene che la dittatura non è esistita, o che – se è esistita – era un regime senza corruzione, che purtroppo non è andato così a fondo come doveva nello sterminio dei suoi oppositori.
Bolsonaro è un soggetto proteiforme, che intercetta le varie figure dell’uomo medio del suo paese, dominato dalla massima del “jeitinho brasileiro”, consistente nello sfruttare ciò che è pubblico per trarne vantaggi privati. Bolsonaro ha dunque tante facce:
“È l’imprenditore ambizioso che rinuncia alla democrazia se si tratta di guadagnare più soldi. È il produttore che vede un’esagerazione in certe denuncie di lavoro schiavo. È l’uomo che ritiene normale, in momenti di stress, chiamare ‘puttana’ una donna. L’elettore tipo di Bolsonaro sogna una società di uomini armati per strada, senza legislazione del lavoro, senza scioperi, senza sindacati, senza libertà di stampa. […] Bolsonaro è un modo di essere nel mondo basato sulla truculenza, sulla restrizione della libertà, sull’eliminazione della complessità, sul troncamento dei processi di presa di decisione. Bolsonaro condensa un’interpretazione del mondo che non sopporta la diversità, il rispetto della differenza, la pluralità, il dissenso, il conflitto, lo scontro. Incolto, ignora la storia. Non esiste debito con gli schiavizzati e con i loro discendenti. La colpa per l’infamia della schiavitù non è di chi schiavizzò. Il presente si esime dal passato. Bolsonaro è l’ignoranza che ha perso la vergogna”
(Juremir Machado da Silva, Correio do Povo, editoriale, 8 settembre 2018)
In presa diretta. La costruzione del fascismo raccontata in tempo reale (1919-1925)
No, no, non è da illudersi: è un vero esercito militarizzato, disciplinato e pieno di ardore che si è costituito in Italia […]
Non mi meraviglierei affatto che fra non molto s’impossessino del potere,
creando una repubblica oligarchica, con Mussolini presidente e papa-re d’Italia.
Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 26 marzo 1922
Attraverso tre temi, crisi dello Stato, conservazione rivoluzionaria e generazioni in conflitto, l’eBook ricostruisce la natura e gli orizzonti del fascismo ricorrendo a testi scritti da fascisti e antifascisti, pubblicati tra il 1921, quando i fascisti si presentarono nei “blocchi nazionali” in occasione delle elezioni politiche, ed il 1925, quando il fascismo diventò a tutti gli effetti regime.
Delirio razzista. L’antifascismo in tempo reale contro le leggi razziali
Basterebbe che ogni italiano, in una di quelle domande rivolte alla propria coscienza che neppure il fascismo può impedirgli di porsi, si chiedesse di che razza è, da dove viene il colore dei suoi occhi o della sua pelle, perché l’«antica purezza del sangue» proclamata dal Ministro della Cultura popolare prenda un aspetto assurdo. Abitante di grandi porti che sono comunità viventi di tutte le genti, contadino di quelle campagne del sud da cui tanti sono partiti emigranti per il mondo per tornare africanizzati, americanizzati, europeizzati, abitante di quelle isole che sono state fecondate dalle più diverse civiltà e percorse dai pirati di tutte le coste, lavoratore di quel nord Italia che da tanti secoli è uno di quei centri in cui l’Europa si è riconosciuta nella sua multiforme varietà, tutti gli italiani portano in se stessi le tracce delle «razze» dei quattro punti cardinali.
Gianfranchi, La razza italiana o l’italiano allo specchio, «Giustizia e Libertà», 22 luglio 1938
Nel 1938 Giuseppe Di Vittorio scriveva sul giornale degli antifascisti italiani in Francia “La voce degli italiani” che «il delirio razzista» stava giungendo al «parossismo in Italia. Tutti i mezzi potentissimi di pressione morale e materiale di cui si è munito il regime, sono stati messi in azione per creare un’atmosfera di progrom». (si veda allegato “In aiuto degli ebrei italiani” del 7 settembre 1938)
Razzismo e antisemitismo hanno avuto un significato nazionale e un ruolo centrale nel rafforzamento del regime totalitario in Italia nella seconda metà degli anni Trenta.
Di fronte al lungo dibattito che ha circondato le origini e la natura del razzismo e dell’antisemitismo del fascismo italiano fin dall’immediato secondo dopoguerra, la storiografia ha stabilito la loro evoluzione autonoma rispetto a presunte pressioni dell’alleato tedesco e ha smantellato definitivamente la visione riduttiva dell’antisemitismo fascista (si veda M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi nuova ed. 2018)
«Il problema di scottante attualità è quello razziale», dichiarava Mussolini mentre parlava alla folla festante di Trieste il 18 settembre 1938 annunciando le leggi razziali, quelle che il 17 novembre 1938 si sarebbero tradotte nel decreto legge n.1728 “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, poco dopo i progrom della Kristallnacht in Germania. Al di là di quelle che possono sembrare intenzioni autocelebrative – Mussolini soffriva di un evidente complesso di inferiorità nei confronti di Hitler e dell’antisemitismo di Stato del paese alleato, ma non aveva in quel preciso momento storico necessità di ribadire l’allineamento – il duce ci teneva a evidenziare come una «chiara severa coscienza razziale» non fosse frutto di «imitazioni» o suggerimenti altrui e ne rivendicava la paternità; inoltre, il problema razziale, continuava in quel discorso di Trieste, era «in relazione con la conquista dell’impero». Il «problema ebraico», pertanto, era «un aspetto di questo fenomeno» come lui stesso affermava e l’ebraismo si tramutava in «nemico irreconducibile del fascismo».
Milano, ospedale Niguarda 1938. Lavori forzati
Al contrario di quanto affermato da Di Vittorio nell’articolo del 7 settembre 1938, l’antisemitismo e il razzismo non erano poi così lontano dal fascismo italiano. La ricerca storica e storiografica ha fatto chiarezza su questi aspetti controversi. Pubblicamente Mussolini si dichiarava estraneo, in realtà i suoi progetti erano ben diversi fin dai primi anni Trenta e si erano imposti con lo scopo di arginare e reprimere gli antifascisti che, in molti casi, erano di origini ebraiche (Si vedano G. Mosse, Razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto e R. De Felice, Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo). Tra gli italiani di origini ebraiche inizialmente regnavano confusione e smarrimento, segnali di una dolorosa difficoltà ad accettare la persecuzione e l’esilio.
Con l’aggressione coloniale dell’Etiopia nel 1935, il razzismo italiano si era fatto più netto e radicale. Il salto di qualità era avvenuto nel 1937, con l’emanazione di norme discriminatorie e per la segregazione razziale contro la popolazione etiope che sanciva l’esistenza di una razza inferiore da assoggettare. La vera natura delle scelte del fascismo e di Mussolini tra il 1937 e l’autunno del 1938 era la volontà di fare degli italiani una razza pura e di rafforzare il consenso, momentaneamente in difficoltà soprattutto in quelle componenti più giovani della società, attraverso la creazione di un nemico comune e interno: «Bisogna mettersi in mente che noi non siamo camiti, che non siamo semiti, che non siamo mongoli. E, allora, se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani e siamo venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri». (discorso di Mussolini nel 1938, si veda G. Rochat, Il colonialismo italiano,1973).
Fino al 1943, gli italiani hanno accettato le leggi razziali e razziste come qualsiasi altra legge. La lucidità delle analisi di Di Vittorio dall’esilio in Francia invitava a prendere sul serio «il furore razzista del regime» che aveva bisogno di «incanalare contro gli ebrei l’esasperato malcontento delle masse» e di preparare gli italiani all’odio e alle guerre di aggressione. «Questo fatto non può lasciare indifferente la democrazia italiana», proseguiva Di Vittorio, «la quale ha il dovere di lottare per l’eguaglianza dei diritti di tutti gli onesti cittadini italiani, senza distinzione di religione e di razza» (si veda l’articolo “Difesa degli ebrei italiani e delle organizzazioni cattoliche” del 13 settembre 1938, qui allegato).
L’attualità, poi, della lettura di Di Vittorio si trova in particolare nella sua capacità di comprendere chiaramente la miopia degli italiani sul lungo periodo e in merito a questo provvedimento. «La lotta contro gli ebrei non è che un aspetto della lotta dei grandi trust e della loro dittatura fascista contro l’intero popolo italiano» (in “In aiuto degli ebrei italiani”, 7 settembre 1938). È una lotta contro l’intero popolo italiano e una lotta «antiumana». Quanto possono rimanere davvero circoscritte ai confini di una presunta “razza inferiore” – confini stabiliti su criteri puramente artificiali, ideologici e predatori – la disumanizzazione e l’attacco ai diritti di cittadinanza?
Dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli pubblichiamo due articoli del 1938 tratti dalla “Voce degli italiani”, quotidiano degli antifascisti in Francia diretto da Giuseppe Di Vittorio di cui si pubblica un articolo che denuncia il “delirio razzista” in Italia, e un contributo apparso in luglio su “Giustizia e libertà”, a firma Gianfranchi, pseudonimo di Franco Venturi.
Scarica la fonte da La voce degli italiani
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