La rivolta delle periferie
Capitolo 5
La Nuit noire
La notte parigina del 17 ottobre 1961 è conosciuta come la “Nuit Noire” (la notte nera). In opposizione al coprifuoco cui erano soggetti, 30.000 esponenti della minoranza algerina sfilano per le strade della capitale per protestare contro la cruenta guerra che dal 1954 le autorità francesi hanno scatenato per scongiurare l’indipendenza della colonia francese d’Algeria. Nella notte, la polizia ferma 11.000 manifestanti, usando i centri sportivi come luoghi di detenzione provvisori. Centinaia di dimostranti vengono ricoverati per le violenze subite e nelle settimane successive la Senna restituisce i corpi di diverse decine di persone dichiarate scomparse.
Problemi ancora attuali
I processi di sopraffazione e discriminazione sedimentati in oltre un secolo di dominio hanno tenuto a lungo la minoranza algerina nel territorio francese in una condizione di subalternità.
Negli anni del conflitto, l’opinione pubblica e il mondo intellettuale franco-algerino si dividono, generando rotture profonde. Come ha dimostrato la rivolta delle banlieue che nel 2005 ha sconvolto diverse città della Francia, ancora oggi, nella composizione delle società europee sono visibili i segni del passato coloniale e delle sue dirette conseguenze: la presenza di minoranze un tempo soggette a legislazioni discriminanti ed oggi a rischio di marginalizzazione sociale e economica.
Un problema che coinvolge anche le comunità frutto delle ondate migratorie degli ultimi decenni e che pone una questione ineludibile nella ridefinizione delle forme di cittadinanza.
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1954
1° NOVEMBRE – 19 MARZO 1962
In novembre i guerriglieri algerini del Fronte di liberazione nazionale compiono una serie di attacchi contro i centri del potere coloniale francese. Le autorità di Parigi reagiscono scatenando una repressione molto dura sulla popolazione civile e su chiunque venga sospettato di sostenere il FLN. I bombardamenti, le torture e le uccisioni sommarie perpetuate dall’esercito francese divisero l’opinione pubblica.
1961
17 OTTOBRE
La notte è conosciuta come la “Nuit Noire”. La polizia parigina reprime nel sangue una manifestazione organizzata dalla minoranza presente sul territorio francese per protestare contro la guerra in territorio algerino.
1962
3 LUGLIO
Dopo sette anni di guerra, tre milioni di civili deportati verso campi temporanei e quasi un milione di civili uccisi, l’Algeria conosce l’indipendenza a seguito di un referendum popolare.
Kit didattico: Europa. La storia fa le rime
Capitalismo: una spirale fuori controllo
Che Guevara: oltre la storia e fuori dal mito
Educare a un mondo più degno
Kit didattico: Europa. La storia fa le rime
Il kit “La storia fa le rime” conduce gli studenti attraverso un viaggio nella storia, alla scoperta delle analogie e dei segnali che il passato ci ha lasciato al fine di comprendere la complessità dei processi che avvengono nel presente.
Conoscere la storia europea, in particolare le vicende legate alla Seconda guerra mondiale e al dramma delle leggi razziali e delle deportazioni, permette di affrontare un tema “caldo” come quello dei rifugiati e delle persone in fuga dalle persecuzioni e dalla guerra, attraverso una sorta di “modello”, distante da noi nel tempo, a partire dal quale è possibile estrapolare alcuni “segni” utili a interpretare il presente.
È possibile ampliare alcuni degli argomenti approfonditi in questo percorso grazie agli altri kit didattici sulle tematiche della cittadinanza, dei diritti, delle migrazioni e della storia europea.
Capitalismo: una spirale fuori controllo
Di seguito un estratto del saggio di David Harvey “Abstract from the concrete: capitalism a spiralling out of control” tratto dal volume Western capitalism in transition. Global processes, local challenges, a cura di Alberta Andreotti, David Benassi e Yuri Kazepov. Si ringrazia l’autore e l’editore per la gentile concessione. In appendice, due approfondimenti di Rosa Fioravante e Paola Piscitelli, ricercatrici di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per le aree di Innovazione Politica e Città e cittadinanza.
Sorprendentemente, tra il 1900 e il 1999 gli Stati Uniti hanno consumato – secondo i dati della US Geological Survey – 4,500 milioni di tonnellate di cemento (USGS, 2012). Nel 2011 e 2013, la Cina ha consumato intorno ai 4,250 milioni di tonnellate di cemento (USGS, 2013). Nel giro di due anni, la Cina ha usato la stessa quantità di cemento che gli USA hanno consumato nel corso di un intero secolo. Una scala di tale portata è senza precedenti. Nonostante, la popolazione degli Stati Uniti abbiano mostrato un consumo abbondante, quello che è successo in Cina ha dello straordinario in termini di conseguenze ambientali, politiche e sociali. Come è potuto succedere? Sempre meno studiosi e ricercatori si chiedono il perché. Fin dagli anni settanta, abbiamo assistito a una graduale riorganizzazione delle priorità: ci si chiede “come” e “dove”. Il vantaggio è che, focalizzandoci su questi due quesiti, sbrogliamo più facilmente la matassa del problemi e, allo stesso tempo, ci liberiamo dal rischio di affermazioni dogmatiche.
Sappiamo descrivere nel dettaglio come avviene l’incontro tra imprenditori, avvocati, compagnie di costruzione e finanzieri, proprietari terrieri e autorità statali nel lancio di mega progetti che richiedono masse di cemento, portati avanti anche a costo di scatenare le proteste degli abitanti, dei piccoli proprietari sfrattati nelle varie zone della città e dei cittadini in generale.
Prestiamo sempre maggiore attenzione alla dimensione locale. Siamo portati a essere più sensibili alle differenze culturali e ambientali. Il “dove” conta ma può avere effetti perversi: enfatizza il carattere nazionale, un dato che rischia di mascherare il vero volto delle dinamiche che soggiacciono all’inesauribile accumulazione capitalistica e delle conseguenze sociali che produce. L’attenzione al “come e dove” può portarci a perdere totalmente di vista il perché?
Ignoriamo il potere della metateoria basata sui principi invece che servircene come pratica utile in alcuni campi di ricerca.
[…]
In sostanza, il “perché” è molto semplice. L’accumulazione per il bene dell’accumulazione, come detto da Marx, è il nucleo del capitale, tanto quanto la conversione della produzione per il bene della produzione – il che significa sia riversare il cemento ovunque fino quando ne saremo pieni fino al collo, sia dire che ne abbiamo abbastanza di tutto questo e che abbiamo bisogno di cambiare. Dovremmo per lo meno prendere in considerazione la possibilità di scendere dalla macchina capitalistica dell’accumulazione senza fine e senza limiti e pensare a nuovi modelli economici inseguendo orizzonti totalmente diversi. In generale, l’impressione è che il capitalismo non venga considerato una prospettiva accettabile. E che rappresenti una delle cose più terribili dello stato attuale delle cose. I problemi e i processi che ho qui affrontato non vengono discussi e dibattuti nel mondo in cui dovrebbero essere dibattuti e discussi all’interno di quelle istituzioni che invece se ne dovrebbero occupare. Le università negli USA e altrove sono state aziendalizzate, trasformate in bastioni del neoliberismo e della conoscenza dedicata alla perpetuazione dell’accumulazione senza fine del capitale, della crescita senza limiti del capitale; anche se, incorporando innovazione, si suppone che si possano risolvere i problemi, per esempio, dell’ineguaglianza sociale e della degradazione ambientale. Tutto questo può essere rovesciato, certamente, ma al momento le possibilità politiche che ciò avvenga sono piuttosto desolanti.
Allo stesso tempo, è cambiata anche la base politica dei movimenti radicali e per il cambiamento sociale. Il malcontento di oggi, diffuso in molte parti del mondo, sorge da una composizione di classe diversa rispetto a quella che la sinistra ha tradizionalmente sostenuto. La questione della composizione di classe della battaglia politica deve essere affrontata da una diversa prospettiva. La riconfigurazione della classe ha molto a che fare con gli indirizzi dell’urbanizzazione contemporanea. Il benessere viene estratto da quello che Marx chiama “processo di realizzazione”. E tanta parte di quella estrazione di benessere si verifica nel corso della vita di tutti i giorni, tra le strade delle città. Non è per caso, quindi, che molte delle mobilitazioni che abbiamo visto in tempi recenti, come quelle avvenute in Brasile e in Turchia nel 2013, avevano più a che fare con le politiche della realizzazione che con le politiche di produzione. Lo scontento per la qualità della vita urbana scorreva tra queste lotte. Questo è ciò che connota le politica di oggi e dobbiamo farcene carico dal punto di vista della riflessione teoretica, pratica e politica.
Circulation of capital
Dobbiamo capire perché e come il dissenso e lo scontento all’interno della città sia in crescita e perché e come possa rappresentare la sorgente di un movimento politico che abbia al centro l’idea e la volontà di creare città che possano essere degne per viverci e che soddisfino le persone. Al contrario, come abbiamo potuto osservare, siamo più propensi a creare città adatte agli investimenti.
Tutto questo deve essere ribaltato. Non vogliamo solo città che non crescano, nel senso capitalistico del termine, ma città che riconoscano i bisogni sociali, riducano le disuguaglianze e migliorino la qualità dell’ambiente.
Marx riprende da Hegel un concetto interessante. Hegel distingueva una “cattiva infinità” da una “buona infinità”. Quest’ultima è qualcosa che continua a riprodursi uguale a se stessa per sempre. Un cerchio è la descrizione geometrica della “buona infinità”.
Il problema nasce quando il cerchio diventa una spirale. Le cose perdono il controllo. Il capitalismo è una turbine, una spirale fuori controllo. E quella spirale fuori controllo è la rappresentazione del fatto che l’infinità non ha strumenti di contenimento. Semplicemente si muove e cresce ancora, ancora e ancora. Il sistema numerico è una “cattiva infinità”. Per quanto può essere grande un numero, c’è sempre un numero più grande. Non potrà mai arrivare a una conclusione.
Dobbiamo tornare alla “buona infinità”. Marx lo aveva capito molto bene. E lo dice chiaramente in merito alla natura della riproduzione – inteso come riproduzione dell’ordine sociale e come si pensa alla riproduzione. Sia nel primo libro sia nel secondo del Capitale, descrive nel dettaglio l’infinità virtuosa della riproduzione semplice. Il problema sorge nella dimensione su larga scala della riproduzione. La metafora della spirale fuori controllo è molto significativa rispetto a ciò che succede localmente e globalmente. Fino a che possiamo trovare significati al governo dell’accumulazione senza fine per il bene dell’accumulazione, qualsiasi aggiustamento o tentativo di fare qualcosa di buono sarà marginale e non porterà ad alcuna differenza rispetto all’enorme problema macroeconomico.
Per questo motivo la prospettiva anti-capitalista rimane cruciale per la definizione del problema dell’urbanizzazione dei giorni nostri e della fenomenologia del capitalismo in trasformazione.
Sulle conseguenze del Capitalismo, guarda il video della conferenza di David Harvey, in dialogo con Nancy Fraser, alla University of New York, nel 2017
di Rosa Fioravante, ricercatrice dell’area Innovazione PoliticaC’era una volta la divisione nord/sud del mondo. Poi, una volta crollata quella fra est e ovest, la globalizzazione neoliberista ha prodotto dove non c’era e aggravato dove era già presente una nuova forma di diseguaglianza: quella fra centro e periferia. Così, Harvey ci ricorda persistentemente che nella critica dell’attuale modello capitalista – quello virtuale, finanziarizzato, immateriale per eccellenza – la geografia conta e non poco. Non l’uomo, come sosteneva Protagora, ma la logistica è la nuova misura del mondo. Lo sosteneva anche Bauman, il quale, attraverso la sua analisi delle élites, ammoniva che esse si caratterizzano, fra gli altri privilegi, per uno in particolare: il lusso di essere completamente slegati dal territorio, così che non faccia alcuna differenza dove queste persone abitano, lavorano, operano e in generale non hanno difficoltà a fare tutte queste cose in luoghi distantissimi fra loro. È così che si concentrano capitale e potere: drenando risorse dalle aree circostanti quella urbana e, una volta accumulatesi, una volta innescato il meccanismo di riproduzione del capitale su capitale senza legami con l’economia reale e lo sviluppo sociale, esse finiscono nelle mani di pochi che si autonomizzano da qualunque forma di legame territoriale e comunitario. Le decisioni prese da questo esiguo numero di detentori del potere, sovrani della geografia, valgono tuttavia erga omnes, ricadono su tutti coloro che non partecipano al processo decisionale e così tengono in scacco le democrazie che, con Colin Crouch, diventano Post-Democrazie. Se questo sistema non fosse immorale al punto da essere criticato persino da Papa Francesco, se non fosse malfunzionante al punto da scatenare una crisi economica mondiale non ancora sanata come quella del 2008, sarebbe comunque destinato all’esaurimento: il Capitalismo può essere forse infinito, la Terra non lo è. Così, il passaggio dal “ciclo”, che rimanda alla dimensione naturale, alla “spirale”, metafora viziosa di ossessione e compulsione, per Harvey è il punto di non ritorno dal quale ripartire per invertire la rotta di una costruzione sociale ormai inservibile agli scopi di armonia nella convivenza umana e di benessere. Ancor più rilevante è tuttavia il passaggio metodologico nel quale si sottolinea che più urgente del “dove” e del “chi” è la domanda sul “perché” queste dinamiche si inneschino e perpetuino. Infatti, è questa la domanda più Politica, se intendiamo la Politica come architettura del vivere comune: il “perché” implica un’analisi sul governo dei processi, sul come scioglierne le contraddizioni e i conflitti. La grande Politica su questo terreno può misurarsi col Capitalismo, lontanissima dalla piccola politica che spesso al contrario i processi li subisce rinunciando a qualunque vocazione trasformativa dello status quo._______________________________
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di Paola Piscitelli, ricercatrice dell’area Città e cittadinanza
C’era una volta la città, forma artificiale di convivenza umana basata sul principio che la vicinanza, la concentrazione e lo scambio portassero più vantaggi dei loro contrari. E c’era una volta il capitalismo, che per coloro i quali sostengono esista da sempre, deriva dal bisogno naturale di migliorare le proprie condizioni di vita, anche a discapito degli altri. Poi, qualcuno ha scoperto che erano strettamente allacciati. L’analisi dell’interazione tra città e capitalismo – che non si limita a riconoscere che ci siano connessioni tra i due elementi ma spiega come la prima sia prodotto del secondo – è una acquisizione relativamente recente. Relativamente, perché è dalla fine degli ’60 che la ‘nuova sociologia urbana’ e la ‘geografia radicale’ di Harvey, Lefebvre e Castells prima, le teorie della città globale di Friedmann, Peter Smith, Sassen e Taylor poi, e, più recentemente, l’’urban neoliberalism’ di Smith, Brenner, Jessop e Peck ci spiegano come capitalismo, globalizzazione e neoliberismo trovino nelle città motore e sfogo.
Insomma, sappiamo come funziona, eppure il meccanismo mutualmente riproduttivo tra città e capitalismo si reitera a oltranza, generando spazi sempre più estesi, nuovi, numerosi, ma anche sempre più simili, ovunque basati su consumo, mercificazione e speculazione. Le maggiori metropoli globali oggi situate al posto di vecchi villaggi e paesini asiatici, orientali e africani inseguono i miraggi di crescita economica prospettati dalle potenze occidentali, che pure hanno mostrato abbondantemente falle e crisi. Le forze del capitalismo sono più dirompenti e abbaglianti e davanti alla crescita, la distribuzione sproporzianata di risorse, la proliferazione di ghetti e baraccopoli, l’aumento della disparità sociale, l’impoverimento della classe medie, la questione ambientale e il cambiamento climatico sembrano passare in secondo piano.
La buona notizia è che le città, se vogliono, sanno ribellarsi, recuperando l’antico principio del valore dell’unione e del confronto. Tutti i più recenti ,movimenti, da le Primavere Arabe, Occupy Wall Street, Gezi Park alla rinascita dei beni comuni hanno trovato nelle città non soltanto il proprio detonatore, ma anche il teatro possibile di progetti di emancipazione sociale da reclamare e realizzare attivamente.
Riformare la teoria urbana oggi significa ripensare le possibilità concrete d’azione nelle e a partire dalle città. Tornare al perché, come insiste Harvey, serve a ripensare il come, non solo il come accade, ma il come si può cambiare. Così, se il capitalismo è il problema, le città possono essere (parte del)la risposta. Campo intermedio tra società e stato, consentono infatti di collegare visioni ispirate alle forme di organizzazione e risposta dal basso alle strategie di garanzia dei diritti universali, sociali e democratici provenienti dall’alto. Di trovare i modi per domare il capitalismo rendendolo più erodibile e di erodere il capitalismo rendendolo più docile, per dirla con Olin Wright. Di avere quel laboratorio necessario, possibile, utilizzabile per realizzare l’utopia.
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Che Guevara: oltre la storia e fuori dal mito
Che Guevara è stato per molti un simbolo, per alcuni un esempio. Dei grandi miti del Novecento, è forse quello che più di altri ha superato il passaggio del secolo. Ma appiattirsi sulla sua dimensione mitica non sarebbe rendere giustizia al personaggio storico e al suo slancio ideale.
Occorre guardare invece al contesto nel quale si è formato e alle idee forza, alle sfide alle quali la sua azione voleva rispondere.
Allora troveremo un’agenda di temi, di problemi, non ancora risolti e tuttora acuti.
Si tratta di ritrovare il percorso in cui curiosità diventa conoscenza e la conoscenza il lievito della scelta e dell’impegno politico.
Ernesto Guevara muove i suoi primi passi per amore dell’avventura e per sete di conoscenza. Il suo viaggio con l’amico Granado è un viaggio nel senso proprio del termine: non solo di scoperta di un contesto ma anche di formazione della sua persona. Guevara vuole sempre mescolarsi agli ultimi, alle persone comuni, alle masse dei diseredati dell’America Latina. Come medico prende contatto con la miseria. Come appassionato di archeologia non può che misurare la distanza che corre tra le grandezze raggiunte dalle civiltà precolombiane travolte dal colonialismo e la marginalità cui sono costretti gli indios a metà degli anni Cinquanta.
Ernesto Guevara
Durante il suo secondo viaggio è già cambiato. Vuole essere dove accade la storia, nelle pieghe del tormentato processo di cambiamento che sembra possibile nella regione: in Bolivia nel 1952 e in Guatemala nel 1954. Sono allora in corso in quei paesi tentativi diversi e parziali di cambiare la sorte delle masse popolari con politiche di riforme radicali: riforma agraria, riconoscimento dei diritti sindacali. Tentativi destinati a fallire e il cui fallimento segna il giovane Guevara. E’ in un contesto segnato da delusioni che Guevara conosce Fidel Castro e aderisce al suo movimento rivoluzionario.
Lungo le strade della sua “Mayúscula América”, Guevara incontra una realtà che lo rimanda costantemente a questo problema: le economie, anche quelle apparentemente floride, vivono in funzione dell’esportazione, non generano processi di sviluppo consistenti e solidi.
Risollevare queste economie implica riorientare la produzione verso il mercato interno, ovvero tenere conto dei bisogni delle popolazioni. Uscire dalla condizione di dipendenza economica in cui il continente latinoamericano si trova implica affrontare la questione del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo, tra il centro e la periferia. È il tema della decolonizzazione. È la ricerca di trovare una propria strada per lo sviluppo: quella della cooperazione e dell’integrazione regionale; quella della redistribuzione della ricchezza e dell’uso consapevole delle risorse; della definizione delle forme dell’intervento pubblico e della costruzione di una cittadinanza cosciente e partecipe del processo di emancipazione.
Si esce dalla condizione di sottosviluppo adottando uno sguardo alle dimensioni umane per lo sviluppo. Includendo le popolazioni indie degli altipiani e delle migrazioni verso le città e non dimenticando le masse popolari urbane delle periferie delle megalopoli.
Una sfida aperta, che interroga il futuro dell’America Latina e non solo dell’America Latina.
Educare a un mondo più degno
L’eredità di Expo Milano 2015
In un confronto di idee sui progetti del post Expo e, in particolare, sull’eredità della Carta di Milano, è naturale e intuitivo – almeno per me – tratteggiare le linee di un progetto, cui lavoriamo da due anni e mezzo. Il progetto di un Istituto di ricerca e formazione che si richiama alla Carta di Milano e che si basa su un’idea semplice e chiara: consolidare e approfondire l’intensa esperienza di ricerca scientifica, formazione a più livelli e discussione pubblica globale che si è sviluppata negli ultimi anni e, in particolare, nel semestre di Expo 2015 intorno ai contenuti centrali dell’Esposizione.
Si tratta di quella rete di connessioni con centri di ricerca e studio in Italia e nel mondo sviluppata da Laboratorio Expo di Fondazione Feltrinelli, alla luce della quale e grazie alla quale è stata – inter alia – possibile la redazione della Carta di Milano, con il corteo dei suoi numerosi allegati, delle sue integrazioni, delle critiche e delle controversie, con oltre un milione e mezzo di firme, con l’adesione di novantuno capi di stato e di governo. Personalmente considero, e continuo a considerare, la Carta di Milano come un serio impegno e una impegnativa promessa che Expo 2015 ha assunto e formulato, da Milano, dall’Italia al mondo.
La questione radicale e densa di implicazioni del cibo e della nutrizione è stata immersa, sin dall’inizio, nel più ampio contesto della prospettiva dello sviluppo sostenibile e delle sue dimensioni plurali. È in questo modo che il tema “nutrire il pianeta” ha chiamato in causa la ricerca sulla filiera alimentare, la ricerca antropologica sulle culture del cibo, la ricerca economica e sociale sulla sostenibilità, sulle ineguaglianze ingiustificabili e sull’equità nell’accesso e nel titolo a cibo adeguato e sicuro, ad acqua pulita, a energia sostenibile, la ricerca sulla grande trasformazione planetaria del rapporto fra città e campagna. In questi, come in altri ambiti in cui si è articolato il tema centrale di Expo, abbiamo costantemente adottato come bussola nella navigazione l’idea dello sviluppo sostenibile. Sviluppo sostenibile inteso sia come approccio analitico sia come impegno normativo. Come è facile cogliere dei numerosi contributi all’ultimo Annale della Fondazione Feltrinelli, dedicato a Laboratorio Expo. The many Faces of Sustainability (ottobre 2015).
Se l’approccio analitico implica la messa a fuoco delle connessioni e delle interrelazioni fra le diverse dimensioni o i molti volti della sostenibilità, l’impegno normativo ci orienta nel perseguimento di una varietà di obiettivi di valore, a loro volta interconnessi e indivisibili. Di qui, l’aria di famiglia con la definizione dei diciassette fini e dei numerosi obiettivi di sviluppo sostenibile nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. Sappiamo che sviluppo sostenibile connette strettamente crescita economica, inclusione sociale e protezione ambientale. E ricordo che la Carta di Milano si chiude esplicitamente con il riferimento agli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Questo è lo sfondo appropriato in cui iscrivere le attività di ricerca e di formazione a differenti livelli di un Istituto Carta di Milano, mettendo in rete in modo efficacemente cooperativo le risorse scientifiche e intellettuali delle istituzioni accademiche, delle fondazioni e dei centri di ricerca, a partire dal sistema universitario milanese e lombardo, sino a quello nazionale e internazionale. Non rinunciando a una vocazione per la costruzione di una cultura di cittadinanza attiva, responsabile e globale.
Ai tempi dello sviluppo sostenibile, tempi come sempre ricchi di opportunità e traversie, ricercare, formare ed educare persone per approssimarsi a un mondo più degno di essere abitato da chiunque, ovunque, è certamente una delle eredità di Expo 2015. Che coincide, come ho detto, con una impegnativa promessa fatta da Milano al mondo.
Con tutta l’eco della lezione del recente Illuminismo, nella città di Cesare Beccaria e Pietro Verri, l’autore delle Meditazioni sulla felicità. Né dovremmo dimenticare, di fronte ai dilemmi esaminati con il senso di realtà e alle opportunità prospettate con il senso di possibilità, la remota massima di Epicuro secondo cui “infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità”.
Salvatore Veca
Presidente Associazione Laboratorio Expo
Curatore scientifico Carta di Milano
13/05/2016
Approfondimenti
La Carta di Milano dei Bambini e il kit didattico per le scuole
La Carta di Milano esplora il tema di Expo 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” attraverso quattro prospettive interconnesse: cibo, energia, identità e dinamiche della convivenza.
È fondamentale che anche i bambini, cittadini del futuro, siano consapevoli delle sfide che si troveranno ad affrontare per poter partecipare alle decisioni collettive con maggior senso di responsabilità.
In quest’ottica, la Carta di Milano dei Bambini vuole essere uno strumento per coinvolgere i più piccoli in un cammino che inizia oggi e continuerà in un futuro che potrà essere migliore anche grazie a loro.
Per agevolare la lettura e la comprensione della Carta, i bambini saranno guidati da un ventaglio di proposte educative mirate alle diverse fasce d’età: dalle attività individuali a quelle collettive. Il kit è modulare e rappresenta una risorsa utilizzabile sia a scuola che infamiglia. I suoi contenuti sono svincolati (ma facilmente connessi) rispetto al programma scolastico e sono adatti ai momenti di scambio e di crescita tipici dell’ambito familiare.
- CLICCA QUI per scaricare La Carta di Milano dei bambini.
- CLICCA QUI per scaricare il kit didattico rivolto a insegnanti, educatori e famiglie.
Consigli di lettura
Anno XLIX – Laboratorio Expo. The Many Faces of Sustainability
Laboratortio Expo. The many faces of sustainability è il quarantanovesimo volume degli Annali: la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli propone una scelta delle ricerche che hanno costruito il percorso di Laboratorio Expo, l’hub di idee, riflessioni, indagini che ha coinvolto e chiamato a discutere economisti, sociologi, agronomi, antropologi, da tutti i continenti, propone i temi, gli spunti e le suggestioni di un processo riflessivo pensato anche oltre l’evento.
In appendice il testo della Carta di Milano, l’eredità culturale di Expo Milano 2015.
Scopri l’ebook: 20 IDEE PER IL POST-EXPO
L’ebook 20 idee per il Post Expo è il frutto del lavoro dei ventisei tavoli tematiciche il 10 ottobre 2015 hanno discusso e definito nell’Auditorium dell’Esposizione universale di Milano i lineamenti delle eredità di Expo 2015. Le tipologie di progetti in gioco sono tre: progetti che sono incentrati sui saperi e sul sapere; progetti incentrati sul saper fare; progetti incentrati sul fare.
Le idee fondamentali, articolate in priorità operative e priorità di approfondimento e ricerca, delineano un quadro di grande complessità che risponde con coerenza alla pluralità delle eredità, distinte fra loro anche se connesse e interdipendenti. Il metodo adottato il 10 ottobre è affine a quello che ha dato buona prova di sé il 7 febbraio all’Hangar Bicocca, nel grande evento che ha dato l’avvio alla redazione della Carta di Milano.
Salvatore Veca
Presidente Associazione Laboratorio Expo
Curatore scientifico Carta di Milano
CLICCA QUI per scaricare l’ebook