Miseria
Capitolo 4
«Valparaìso è molto pittoresca, sorge dalla spiaggia che si affaccia sulla baia, e crescendo si è abbarbicata ai monti che muoiono nel mare. […] Con pazienza di chirurghi curiosiamo tra le scalinate sudice e negli anfratti, parliamo con i mendicanti che abbondano; auscultiamo il fondo della città, i miasmi che ci attraggono . Le nostre narici captano la miseria con sadico fervore.»
Cile, 1952
Il viaggio “della motocicletta“
Il 4 gennaio 1954 Ernesto, con l’amico Alberto Granada, lascia Buenos Aires a bordo della moto Norton 500, detta “la Poderosa”. Il viaggio è reso memorabile dal suo resoconto steso a posteriori nei famosi “Diari della motocicletta”.
Risalendo il continente nel corso dei sette mesi seguenti, Ernesto mette alla prova ciò che sa e ciò che è, aprendolo alla contaminazione con ciò che vede e ciò che vive.
L’emergenza sociale
La sua condizione di medico e il suo spirito umanista lo portano a prendere coscienza, tramite il contatto con la miseria e con le masse di emarginati che incontra per tutto il Paese, della questione sociale come problema cardinale dell’America Latina.
Studioso di allergologia e leprologia, Ernesto visita lebbrosari che sono spesso veri e propri “lazzaretti”, dove l’isolamento per evitare il contagio è più importante della cura e del benessere dei malati; e si trova spesso a dover constatare quanto la salute di tante persone, negli strati più poveri della popolazione, sia minata da una vita di fatica condotta nella più grave indigenza. Ciò che vede e conosce lo cambia in profondità.
Il viaggio di avventura e conoscenza si trasforma in un momento di formazione importantissimo, base per ulteriori e futuri cambiamenti.
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Le immagini proposte nel percorso che segue suggeriscono quali ambienti, situazioni e paesaggi caratterizzavano l’America Latina ai tempi del viaggio di Ernesto “Che” Guevara (il cui percorso è illustrato da una cartina).
Provenienti per lo più dall’Archivo EFE e dal patrimonio della Fondazione, queste foto rappresentano dei preziosi documenti per comprendere l’evoluzione politica e ideologica del rivoluzionario argentino.
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Cominciamo dal nostro specifico di medici: il panorama generale della sanità cilena lascia molto a desiderare (dopo avrei scoperto che era di gran lunga superiore a quello degli altri paesi conosciuti in seguito). Gli ospedali gratuiti scarseggiano e c’è sempre un cartello che dice: «Perché si lamenta del servizio se lei non contribuisce al sostentamento di questo ospedale?» […] Gli ospedali sono poveri, generalmente carenti di medicinali e sale operatorie adeguate. Abbiamo visto sale mal illuminate e addirittura sporche, e non in piccoli villaggi, ma nella stessa Valparaiso. Le attrezzature sono insufficienti. I bagni molto sporchi. La coscienza sanitaria della nazione è scarsa.
Cile, 1952
[…] Andai a trovare una vecchia asmatica. […] La poveretta faceva pena, nella sua stanza si respirava quell’odore acre di sudore rappreso e piedi sporchi, mescolato alla polvere di certe poltrone che erano l’unico arredamento della casa.
Allo stato asmatico si aggiungeva un lieve scompenso cardiaco. Questo è uno di quei casi in cui il medico, cosciente della propria assoluta impotenza di fronte alla situazione, sente il desiderio di un cambiamento radicale, qualcosa che sopprima l’ingiustizia che ha imposto alla povera vecchia di fare la serva fino al mese prima per guadagnarsi da vivere, affannandosi e soffrendo, ma tenendo fronte alla vita con fierezza. […]
Lì, in quegli ultimi istanti per gente il cui orizzonte più lontano è sempre stato arrivare a domani, è dove si coglie la profonda tragedia che condensa la vita del proletariato di tutto il mondo. […] Fino a quando continuerà questo ordine delle cose basato su un’assurda suddivisione in caste, è qualcosa cui non sta a me rispondere, però è ora che i governanti dedichino meno tempo alla propaganda di qualità del loro regime e più denaro, moltissimo denaro in più, per la realizzazione di opere di utilità sociale.
Cile, 1952
L’assistenza sociale del popolo cileno è a livelli più bassi di quella argentina. Oltre ai magri salari che si pagano nel sud, c’è scarsità di lavoro e ben poche garanzie offerte dalle autorità al lavoratore (anche se di gran lunga superiori a quelle offerte nel nord del Sudamerica), e questo provoca vere ondate di migrazione cilena verso l’Argentina […].
Al nord l’operaio è meglio pagato nelle miniere di rame, salnitro, zolfo, oro, ecc., ma la vita è molto più cara, in generale c’è scarsezza di generi di prima necessità e le condizioni climatiche sono avverse. Ricordo il suggestivo scrollare di spalle con cui un capo della miniera di Chuquicamata rispose alle mie domande sull’indennizzo pagato alle famiglie dei diecimila e più minatori sepolti nel cimitero locale.
Cile, 1952
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
Economia fondamentale: superare lo squilibrio fra opulenza privata e miseria pubblica
il Che Vive! Ernesto Guevara e l’America Latina nel patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Le trasformazioni dell’America Latina
Kit didattico: Città vivibile, città del futuro
È ormai noto che la maggior parte della popolazione vive in agglomerati urbani e che entro la metà di questo secolo questa quota arriverà a oltre due terzi. La popolazione urbana è infatti in crescita costante: ogni anno aumenta di circa 60 milioni di persone.
Sebbene le città siano luogo di vita per un numero così elevato di persone, la rappresentazione delle stesse rimane indefinita. Da una parte c’è chi vede la città come un luogo di opportunità, di incontro, di diversità e di confronto, dall’altra chi la rappresenta come luogo di disuguaglianze e individualismo, di insicurezza e di inquinamento. Andando al di là delle differenti immagini che più che essere opposti di un continuum identificano aspetti che coesistono nella città contemporanea, il kit “Città vivibile, città del futuro” offre uno sguardo sulle evoluzioni dei contesti urbani. E, attraverso l’analisi del caso di Portland (Oregon), aiuta gli studenti a mettere a fuoco i fattori di vivibilità di una città quali la mobilità sostenibile, la produzione locale di cibo, l’energia rinnovabili e energia pulita, e la vitalità dei quartieri.
Economia fondamentale: superare lo squilibrio fra opulenza privata e miseria pubblica
Qui di seguito riportiamo un estratto del libro Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana scritto dal Collettivo per l’economia fondamentale. Si ringraziano gli autori e l’editore Einaudi per la gentile concessione.
Il libro sviluppa l’idea – decisamente trascurata negli approcci consolidati all’economia, alla società e alla politica — che il benessere dei cittadini d’Europa dipenda non tanto dai consumi individuali, quanto dal consumo sociale di beni e servizi essenziali, ovvero dallo stato di salute di quella che chiamiamo economia fondamentale: l’acqua, i servizi bancari di prossimità, le scuole o gli istituti di cura, e via dicendo.
Mentre i consumi individuali dipendono dal reddito di ciascuno, l’economia fondamentale è una questione strettamente politica, perché dipende dall’esistenza (e dalla qualità) di infrastrutture e di sistemi di distribuzione: apparati che non si creano e non si rinnovano in maniera automatica, neppure quando il reddito aumenta, e che in molti casi neanche i più ricchi possono procurarsi individualmente. Ecco, dunque, perché il ruolo primario e distintivo delle politiche pubbliche dev’essere quello di assicurare la disponibilità di servizi di base per tutti i cittadini.
Se lo scopo è il benessere dei cittadini – la prosperità di molti e non di pochi – allora le politiche europee, a livello regionale, nazionale e comunitario, devono essere riorientate sul consumo di beni e servizi fondamentali e su garanzie universali di accesso e di qualità. Da cinquant’anni si discute se lo Stato debba continuare a essere il protagonista di questo spazio economico.
Si tratta di un dibattito importante, perché, come mostreremo, la privatizzazione e l’esternalizzazione (outsourcing) dei servizi fondamentali sono pratiche dannose. Ma c’è anche un’altra questione, spesso trascurata, alla quale bisogna prestare attenzione: il benessere delle persone non dipende soltanto dal reddito individuale e non può essere garantito semplicemente perseguendo una crescita dei redditi, perché neanche il più alto reddito individuale può assicurare l’accesso a beni e servizi fondamentali che non siano fruibili collettivamente.
Le prime generazioni di socialisti e collettivisti liberali l’avevano compreso molto chiaramente. Secondo Richard H. Tawney, l’acqua corrente e i servizi igienici avevano trasformato le grandi città, dimostrando che la società soddisfaceva «bisogni ai quali nessun individuo comune, persino se lavora tutta la sua vita, può provvedere da solo».
Nel 1958 John Kenneth Galbraith ripropose il problema in termini di equilibrio sociale: negli Stati Uniti, mentre i redditi individuali crescevano, le scuole e i trasporti pubblici andavano peggiorando e aumentava l’inquinamento; a fronte della crescente opulenza di pochi, dilagava la povertà pubblica. Concentrarsi sulla produzione di beni essenziali — avvertiva Galbraith — avrebbe anche aumentato la stabilità del sistema economico, perché – a differenza dei beni di consumo privato — beni di pubblico accesso come le scuole, gli ospedali e le biblioteche sono meno soggetti «ai capricci del processo di creazione dei bisogni e dei relativi debiti».
Negli ultimi cinquant’anni, i Paesi ad alto reddito non hanno fatto altro che accrescere lo squilibrio fra opulenza privata e miseria pubblica, promuovendo un’idea angusta di politica economica, nella quale le priorità vengono poste dall’alto. La politica pubblica è elaborata da élite tecniche e politiche, talora sotto forma di accordi che, all’apparenza, enfatizzano la scelta e la responsabilità individuale. I cittadini, in realtà, si limitano a subire. Sin dalla Seconda guerra mondiale, attraverso la politica fiscale e monetaria, «l’economia» è stata gestita in vista della crescita del prodotto interno lordo, e il benessere è stato perseguito principalmente attraverso il consumo individuale, basato sulle retribuzioni.
Dai tardi anni Settanta, si è aggiunta la propensione a privilegiare la concorrenza e i mercati, tramite riforme strutturali che hanno reso i mercati del lavoro più flessibili e hanno introdotto privatizzazioni e outsourcing di ampia scala. I servizi fondamentali e le relative infrastrutture sono rimasti in secondo piano. Si è predicata l’idea che il supporto al reddito debba essere minimo, per non disincentivare al lavoro; che l’istruzione debba creare competenze professionali immediatamente spendibili; che i servizi sanitari debbano essere finanziati
attraverso le tasse sui redditi (invocando però il taglio delle aliquote fiscali) oppure resi accessibili soltanto a pagamento.
A partire dagli anni Ottanta, le politiche pubbliche hanno perseguito l’ideale di un’economia di mercato per il XXI secolo e, nei suoi primi decenni, hanno finito per ricreare un capitalismo predatorio in cui i livelli di disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni ricordano quelli del XIX secolo. La stagnazione dei redditi in tutta Europa ha incrinato persino il consolidato vantaggio elettorale dei partiti centristi di governo. Quest’esito economico è stato esaminato in profondità da Thomas Piketty nel libro Il capitale nel XXI secolo.
Tuttavia, la diagnosi di Piketty è molto più pregnante del rimedio suggerito — redistribuire tramite un’imposta globale sulla ricchezza — che egli stesso riconosce essere «utopistico». Qui cerchiamo di evitare prese di posizione prettamente utopistiche, riprendendo e aggiornando alcuni ragionamenti «tradizionali» sui servizi fondamentali. […] Malgrado il deprimente scenario europeo, il nostro obiettivo è mostrare che il cambiamento è praticabile, a cominciare appunto dall’economia fondamentale.
il Che Vive! Ernesto Guevara e l’America Latina nel patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Ernesto Che Guevara, la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dedica questa pubblicazione e un percorso espositivo alla vicenda umana e politica di una figura che come poche è riuscita a varcare le soglie del ventesimo secolo “senza invecchiare”. Un uomo che “sulla strada” scopre la passione politica, vede lo sfruttamento, incontra la miseria, vive la rivoluzione e fa la scelta di continuare a scoprire e a sperimentare fino alla fine, fino alla Bolivia del 1966. Un luogo che, oltre al tratto simbolico della rinuncia al potere, rappresenta la ricerca e l’incontro con gli ultimi, il rinvio a una “sete di sapere” che è l’origine stessa della vita pubblica di Guevara.
La passione è quella rivolta a conoscere la storia e la realtà concreta di un continente, immergendosi nella quotidianità di chi lo abita.
La mostra il Che Vive! Ernesto Guevara e l’America Latina nel patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli è allestita in Sala Polifunzionale dal 10 ottobre al 3 novembre | Vai alla pagina
Il catalogo è disponibile presso la libreria Feltrinelli di viale Pasubio 5 a Milano.
Le trasformazioni dell’America Latina
Per lo storico Eric Hobsbawm l’America Latina era “un laboratorio del cambiamento storico, un continente fatto apposta per scardinare le verità convenzionalmente accettate”.
L’America Latina è un altro occidente, sospeso tra la modernità di megalopoli punteggiate da grattacieli e gli arcaismi degli altopiani andini e delle giungle. Un continente sospeso tra sviluppo e sottosviluppo, tra l’Ovest e il Sud del mondo. Un continente cha si è ispirato alle culture politiche mutuate dall’Europa, ma che le ha riadattate al proprio contesto e alle proprie sfide, forgiando fenomeni e vocabolari politici non perfettamente decifrabili con i canoni interpretativi che segnano le coordinate del dibattito pubblico europeo. Un continente attraversato da trasformazioni che interrogano anche noi, dall’altra parte dell’Atlantico. Che ci parla di sperimentazioni politiche, economiche e sociali di un mondo in divenire che sembra destinato ad esercitare un peso crescente nella vita internazionale del prossimo futuro. Un mondo in cui sono emblematiche e cruciali, forse più che in altri contesti, le sfide dell’utilizzo delle risorse, della risoluzione delle diseguaglianze, del riconoscimento dei diritti.
Nonostante tutte le diversità che attraversano da un capo all’altro l’America Latina, il subcontinente sembra essere tenuto insieme da una sorta di “comunità di destino” che ammette poche eccezioni. Dopo aver vissuto il trauma delle dittature militari tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il ritorno alla democrazia è stato accompagnato per due decenni dall’adozione delle ricette economiche neoliberiste dettate dai piani di aggiustamento strutturale promossi da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Piani di aggiustamento caratterizzati dalla dismissione del settore pubblico in economia; dalle liberalizzazioni, dalle deregolamentazioni, dalle misure di austerità nel tentativo di contenere il mostro del debito, dal taglio alle spese sociali. Molti hanno definito questo periodo “il decennio perduto” per le conseguenze economiche e le ricadute sociali che quelle scelte hanno prodotto.
Sul finire degli anni Novanta, la crisi economica, il disagio sociale, la delegittimazione della classe politica hanno prodotto grida di rabbia e di sfiducia che hanno echeggiato nell’intero Cono Sud, da Caracas a Buenos Aires.
E’ in questo contesto che all’inizio del XXI secolo diversi paesi dell’America Latina sono stati teatro di un significativo cambio di paradigma politico. Nuovi movimenti e nuovi leader si sono imposti in libere consultazioni elettorali e, con modalità e radicalità differenti, hanno dato corso a un nuovo ciclo progressista. Un cambiamento che è stato definito marea rosada.
Questa marea ha avuto alla sua base dei tratti portanti comuni: il rifiuto delle politiche neoliberiste; la ricerca di uno sviluppo diverso, basato su un ruolo attivo del settore pubblico in economia e sul sostegno al welfare nel tentativo di realizzare un modello che tenesse in un rapporto simbiotico la crescita economica e l’inclusione sociale.
L’attenzione posta nell’azione di governo agli strati più marginali della popolazione nel campo dei diritti sociali ha dato risultati lusinghieri in termini di riduzione della povertà e di rafforzamento delle classi medie.
La povertà nella regione è diminuita dal 42 al 25% grazie alle politiche redistributive. Passi avanti significativi sono stati compiuti anche sulla strada dell’integrazione regionale e della cooperazione con gli altri Sud del mondo.
In questo quindicennio l’America Latina ha rappresentato un interessante laboratorio.
E’ stato questo scenario che ha fatto parlare, con qualche forzatura, il sociologo brasiliano Emir Sader, dell’Università di San Paolo, di un “modello latinoamericano”. Un modello che veniva vantato non solo come superiore dal punto di vista economico rispetto al modello neoliberale nordamericano ma che veniva valorizzato in quanto superiore anche dal punto di vista politico, sociale e morale.
Tuttavia la marea rosada, come è stata definita, sembra essere ormai rifluita in gran parte in una risacca grigia (resaca gris). Il ciclo progressista è riuscito a redistribuire la ricchezza ma non è riuscito a cambiare la realtà di economie dipendenti dall’esportazione di materie prime. La sua sfida pare essersi arenata contro gli scogli costituiti del calo del prezzo delle commodities e dall’appannamento della capacità dei governi di sinistra di costruire consenso attorno alle loro proposte nella nuova e difficile congiuntura.
Oggi la risacca disegna un continente che assomiglia più a un caleidoscopio che a una realtà definibile in termini di “modello” e i paesi del subcontinente attraversano una fase di incertezza e inquietudine circa la direzione di fondo da perseguire per determinare le loro politiche.
Spartaco Puttini
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli