Immaginario
Capitolo 3
Le parole di Martí di oggi non sono da museo, sono incorporate alla nostra lotta e nel nostro emblema sono la nostra bandiera di combattimento
L’amore per l’avventura
L’infanzia e la prima giovinezza di Ernesto non sono diverse da quelle di tanti ragazzi della sua generazione e del suo ambiente, inevitabilmente intriso di cultura occidentale, dopo che secoli di colonizzazione hanno relegato le matrici indigene ai margini. Ernesto impiega il tempo libero dalla scuola in compagnia degli amici, facendo sport e, soprattutto, leggendo.
I suoi problemi di salute lo costringono infatti a molte ore di riposo, che Ernesto occupa diventando un lettore voracissimo. Le sue letture – che prova a sistematizzare tramite note e appunti – documentano un processo di formazione intellettuale vasto ed eclettico. Tra i libri in cui maggiormente ama immergersi ci sono i romanzi d’avventura e le storie di viaggio.
Da Verne, Salgari, Stevenson e dai classici della letteratura ispanica d’inizio secolo, Ernesto trae un immaginario fatto di uomini pronti a sfidare la sorte e la natura, ad avere nel mondo la propria
casa e nel vagabondare la misura della propria esistenza.
Quando alla fine del 1949 Ernesto decide di dare corso a un progetto un po’ folle e si perde a girare il Nord dell’Argentina in bicicletta in solitaria, forse ha in mente i protagonisti dei suoi romanzi.
L’ispirazione politica
Oltre ai miti letterari, anche i miti politici fanno parte del bagaglio di simboli e valori a cui accede il giovane Ernesto.
L’Argentina in cui egli cresce ha il suo eroe nazionale in José San Martin (1778-1850), che guidò le lotte per l’indipendenza dalla Spagna.
In Cile è oggetto di venerazione il presidente José Manuel Balmaceda Fernandez (1840-1891), morto suicida per essere stato isolato da una maggioranza asservita agli interessi degli investitori stranieri e dunque simbolo della resistenza alle pressioni economiche esterne.
A Cuba, negli anni ’30 e ’40 ritornano in auge – e diventano un riferimento per le forze rivoluzionarie – Antonio Maceo (1845-1896) e José Martí (1853-1895), che guidarono le forze che combattevano per l’indipendenza di Cuba.
In tutto il continente – ma specialmente in Bolivia, che ne porta il nome – è diffuso il mito di Simon Bolivar (1783-1830), che attrae per l’immagine di condottiero in lotta contro il colonialismo e l’imperialismo europeo.
Le radici indie
A questi eroi “moderni” si affiancano i numi tutelari del passato indio, spesso recuperati proprio per rappresentare le ragioni di una nazione indigena negata e rimossa, come José Gabriel Condorcanqui, meglio noto come Tupac Amaru II,a capo di una famosa rivolta contro gli spagnoli nel Perù del XVIII secolo.
Sono figure ispiratrici per il sistema di valori che incarnano e per l’abnegazione alla causa che difendono. Abnegazione che trasforma alcuni di loro in veri e propri eroi tragici.
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Le immagini che seguono, tratte dal patrimonio della Fondazione Feltrinelli, riproducono i personaggi e gli eroi con i quali si è formato l’immaginario del “Che” e di molti suoi contemporanei argentini e sudamericani.
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«Pensai a don Segundo Sombra, che passando dal paese mi si era tirato dietro, come ci si tira dietro una bacca spinosa che si impiglia nella stoffa dei calzoni. Cinque anni erano trascorsi di quella nostra vita faticosa, senza che ci separassimo. Cinque anni come quelli fanno d’un ragazzo un gaucho, quando si ha la fortuna di viverli vicino a un uomo come quello che io chiamavo il mio padrino. Lui mi aveva guidato pazientemente verso tutte le esperienze dell’uomo della pampa […].
Ne aveva visti di paesi quell’uomo! Dovunque aveva amici che lo amavano e lo rispettavano, anche se non si fermava mai a lungo nello stesso posto. Aveva un tale ascendente sui contadini che a volte bastava una sua parola per risolvere la faccenda più intrigata. […]
Che capo sarebbe stato in una rivoluzione!
Ma sopra ogni cosa, e contro ogni cosa, don Segundo amava la propria libertà. Era uno spirito anarchico e solitario, cui la continua compagnia degli altri finiva per infliggere una immutabile stanchezza.
La sua azione era il perpetuo andare, la sua conversazione il soliloquio.»
Ricardo Guiraldes, Don Segundo Sombra
«La strada per Tucuman è una delle cose più belle del nord (argentino) : per circa venti chilometri è asfaltata, e sui due lati si vede una vegetazione lussureggiante, una specie di selva tropicale alla portata del turista, con una quantità di ruscelli e un’umidità che le conferisce l’aspetto di una foresta amazzonica [ … ]. Entrando in questo parco naturale, camminando fra le liane, calpestando felci e pensando come tutto ciò si fa beffe della nostra scarsa cultura botanica, ci si aspetta a ogni istante di udire il ruggito di un leone […]
A un tratto ho udito un ruggito, poco intenso ma costante, in cui ho riconosciuto il «canto» di un camion che arranca in salita . Quel rumore ha rotto con rumore di vetri infranti il mio castello di sogni, riportandomi alla cruda realtà.
Allora mi sono reso conto che dentro di me era maturato qualche cosa che già da tempo sentivo nel trambusto cittadino : l’ odio per la civiltà . L’immagine sgraziata di uomini che corrono come matti al ritmo di quel tremendo frastuono, mi pare come l’antitesi odiosa della pace […].»
Argentina, 1950
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diri
Di chi è la terra? (Di chi possiamo essere amici?)
Maggioranza o maggioritarismo? Sui caratteri della democrazia populista
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Dal patrimonio: in occasione della chiusura della mostra, la Fondazione propone il Kit didattico ‘900 la Stagione dei Diritti \ Scarica il kit e visita il portale Scuoladicittadinanzaeuropea.it
Il Novecento è il secolo dei grandi cambiamenti e delle grandi conquiste: ad ogni livello della vita collettiva ha scardinato il sistema costituito.
Momenti di ribellione, lotte, riscatti hanno segnato il processo di emancipazione di soggetti prima tenuti ai margini della vita pubblica (lavoratori, donne, giovani, minoranze, popoli coloniali, etc.).
Questo processo non è stato lineare ma è stato segnato anche da arretramenti, dalla confisca di diritti dati per acquisiti, da contrattazioni sulla base dei rapporti di forza tra istanze e interessi contrapposti in cui si articolava la società.
Per i movimenti rivendicativi del Novecento è stata la piazza il luogo fisico in cui è avvenuta la presa di parola. Sono state le piazze a fare la storia, con i loro cortei, i loro assembramenti, i loro comizi, i loro momenti di condivisione e affermazione di parole d’ordine e istanze, come una nuova agorà decisionale in grado di ridisegnare i contorni della cittadinanza e della comunità.
In alcuni casi la piazza ha rappresentato il luogo in cui si sono affermate forze che hanno chiesto e ottenuto la marginalizzazione e l’annullamento dei diritti di interi gruppi sociali. Il Novecento insegna che la conquista dei diritti non deve essere data per scontata e che la loro stessa definizione dipende da condizioni sociali, culturali e politiche in continuo cambiamento. Proprio per questo la loro difesa e il loro ampliamentodipendono dall’impegno di tutti noi.
Di chi è la terra? (Di chi possiamo essere amici?)
Quando pensiamo alla giustizia sociale, cosa immaginiamo? Molto probabilmente una falce incrociata su un martello, una bandiera rossa, una giovane donna scapigliata e scalza che marcia con uomini seminudi, in una nuvola di polvere, un sole che sorge, forse Ecce Bombo. Nessuno di noi pensa alle parole di Ziggy Stardust in Major Tom, “From the Sky the Earth is blue and there’s nothing I can do”.
Questo accade per un motivo, non per un difetto di immaginazione. Se rileggiamo il materiale divulgativo prodotto dai soggetti che hanno costruito i Poli Industriali in aree agricole (Irene Guida, L’acciaio tra gli ulivi, 2012), operando trasformazioni che hanno visto l’erosione di suolo fertile a favore di grandi infrastrutture produttive, ci accorgiamo che le aree coltivabili erano considerate un ostacolo al benessere collettivo. Se queste trasformazioni siano state un successo o una perdita, dipende ovviamente da chi ha guadagnato e da chi ha perso. Ma come facciamo a dire se siano state giuste?
Mentre i tecnici dimostravano la necessità di grandi infrastrutture di trasporto per spostare masse di lavoratori, – con proiezioni demografiche in crescita, in parallelo con gli indicatori di produzione economica dell’indotto generato, – le agenzie di comunicazione interne alle aziende ingaggiavano scrittori, fotografi e illustratori, per descrivere le condizioni di privazione cui era sottoposta la popolazione legata alla terra, alla piccola pesca, alle imprese commerciali e artigianali, alla distribuzione locale. Queste masse contadine erano viste come primitive, legate a riti ancestrali, limitate nella capacità di interpretare il proprio tempo, insomma schiavi da liberare, con la forza prometeica dell’industria. Viste oggi, queste immagini suonano stridenti, anche solo per una cartolina turistica. Per non parlare del fumo delle ciminiere come il sol dell’avvenire.
Da Italsider: Acciaio tra gli Ulivi, Italsider 1961. Disegni di Flavio Costantini
Perché ancora una volta la nostra immaginazione non concorda con la propaganda e con simboli che hanno condizionato il periodo di espansione economica fra i più lunghi che abbiamo vissuto? Perché è cambiato un paradigma culturale.
Il pensiero geopolitico a cavallo delle due guerre mondiali si era nutrito di territorializzazione, della retorica spazio/popolazione, – ovvero a ogni popolo sovrano il proprio governo e territorio, il proprio destino e origine, ontologicamente iscritti nell’essenza dello spazio/popolazione, – di cui il paradigma contemporaneo della sicurezza è il sicuro erede (Andrea Cavalletti, La città biopolitica, 2005). Carl Schmitt e la retorica della nazione come insieme di una terra e di un popolo, l’ossessione dei confini, hanno nutrito sogni di purezza e di selezione per la contesa di uno spazio vitale. Rompere questa ossessione voleva dire dimostrare che la terra era grande per tutti, le sue risorse approssimabili a una grandezza infinita, che la tecnologia, prima servita per distruggere, poteva essere usata dopo, con la stessa efficacia, per ricostruire. Desacralizzare la relazione fra spazio e popolazione è stato come disinnescare una mina per farla brillare. La minaccia della modernità diventava una promessa. Era il tempo di John Maynard Keynes, dell’uguaglianza garantita dalla redistribuzione della ricchezza all’interno di Stati-nazione, grazie a meccanismi di ridistribuzione fra cittadini con diritti uguali. L’idea di giustizia era aristotelica, basata sulla cittadinanza e sull’uguaglianza fra cittadini, immaginati come soggetti razionali (John Rawls, Una teoria della giustizia, tr. it. 2008). L’intervento dello Stato serviva a regolare e favorire lo sviluppo di imprese, ridistribuendo il surplus; la ricostruzione post-bellica era il sogno finalmente realizzato dell’utilitarismo, dopo la crisi del ventinove e dopo due guerre mondiali, le più distruttive che l’umanità abbia mai combattuto.
Da Italsider: Acciaio tra gli Ulivi, Italsider 1961. Disegni di Flavio Costantini
Nel frattempo la crisi petrolifera ed energetica degli anni settanta ha sorpreso, e sospeso, una macchina che sembrava destinata a un incremento progressivo e lineare, con indicatori di produzione e popolazione in crescita illimitata. Il Club di Roma nel 1972, con il primo rapporto intitolato I limiti dello sviluppo e la spinta dell’economia neoliberista, – che vede nel libero mercato, non nello Stato, l’unico agente regolatore delle possibilità e dei bisogni delle popolazioni, – ci hanno messo davanti alla terra vista dalla luna. Se la popolazione e la produzione sono in crescita illimitata, le risorse biologiche, che ne sono il supporto, sono finite (Serge Latouche, La scommessa della decrescita, 2005). Questa disparità genera un conflitto, ma anche un valore economico di mercato elevato per le risorse bio-sostanziali.
Da qui parte il racconto di Paolo Groppo che si è occupato di politiche territoriali per la FAO. La superficie della terra è una grandezza finita, misura cinquantuno miliardi di ettari. Vuole dire circa 69 miliardi di campi di calcio. Per comprendere il suo discorso, proviamo a dare ragione ai terrapiattisti e agli ultras, immaginiamo questa superficie come un grandissimo campo di calcio (N.B. Si tratta di un artificio retorico di chi scrive. La terra non è piatta e non ha le proporzioni di un campo di calcio).
Di questo campo da calcio, una superficie maggiore della metà campo sarebbe coperta da acqua salata, mentre una uguale all’area di rigore sarebbe coltivabile.
La zona intorno al portiere sarebbe quella adatta all’uso agricolo esclusivo, la più fertile, umida e lavorabile. Quella più vicina al limite esterno sarebbe più arida; la restante, i tre quarti di questa area di rigore, avrebbe un valore medio. Se il gol è produrre cibo abbondante, le organizzazioni istituzionali sovranazionali hanno privilegiato l’attacco. Migliorando la produzione delle terre molto fertili, concentrate non a caso nelle aree ricche del pianeta, il mercato avrebbe ri-equilibrato, in modo automatico, la povertà degli altri territori. Nel nostro fantacalcio planetario, il numero dieci è la logistica, aiutata dall’intelligenza artificiale e dall’IOT (Internet Of Things) e dalla ricerca sul genoma. Una volta raggiunto l’ottimo di produzione, i gruppi industriali agricoli cercano nuove terre fertili da sfruttare dove è più semplice farlo, distruggendo foreste, come accade in Brasile.
La terra non è piatta e la vita di miliardi di persone dipende proprio dai tre quarti del terreno coltivabile più trascurato. Chi lavora queste terre vede il proprio lavoro perdere valore, mentre chi gode del surplus delle produzioni migliori, diventa sempre più ricco. Questo è un fenomeno globale.
La natura spettacolare del gioco degli alti profitti è tutta per l’attaccante, rende di più in termini di comunicazione, come succede con la spettacolarizzazione del cibo cui assistiamo. Anche l’ecosistema mediatico influenza la partita per le risorse del pianeta terra, proprio come succede per le fluttuazioni di mercato. In definitiva, l’agricoltura è uno degli spazi economici dove la finanza si territorializza, in modo violento.
Dunque, nonostante la terra non sia un campo da calcio, i prezzi seguono la stessa logica di quel gioco. Come mai? Perché i prezzi, il denaro, sono la rappresentazione di tutte le cose sotto forma di valore monetario. Un prezzo è la morte di ogni cosa, è una pura rappresentazione.
Thomas Piketty, attraverso l’analisi dei grandi database finanziari (Il Capitale nel XXI secolo 2013), ha mostrato che in seguito alla crisi petrolifera e ai processi di finanziarizzazione dei mercati, l’accumulazione di ricchezza che dipende dalle rendite è maggiore di quella che dipende dal lavoro. Significa che, per quanto bene e per quanto tempo si lavori, non si raggiungeranno mai i profitti generati dalle rendite. Per sostenere il desiderio e gli stili di vita di previsioni di crescita, in molti sono ricorsi al credito senza garanzie reali, con i risultati disastrosi della crisi finanziaria del 2008. Se nei paesi ricchi la classe media deve ridurre il consumo di beni voluttuari, per i contadini del Sud del mondo il problema è raggiungere e superare la soglia della sussistenza. Data la facilità degli spostamenti e per il desiderio di migliorare le proprie condizioni, intere popolazioni preferiscono emigrare, a ogni costo, verso le megalopoli. Nelle aree dell’Occidente ricco, le classi medie dei lavoratori si sentono minacciata dall’arrivo di queste popolazioni, l’accoglienza diventa una cessione dei propri diritti di cittadinanza e di reddito. Si tratta di una percezione distorta, ma ha un fondamento nell’immaginario dello sviluppo come bene cui tendere e nel senso di impotenza, che accomuna migranti e classe media occidentale, rispetto ai nuovi flussi di informazioni e capitali. Classi medie dei paesi ricchi e poveri del Sud del mondo hanno in comune l’esperienza dell’alienazione e della diseguaglianza.
Rifugiarsi nell’identità perduta, nel legame sacro con la terra di origine, nel falso limite di una territorialità che vale solo per chi è povero, – o per chi è così ricco da comprare anche la vita,– può ridurre l’alienazione e le diseguaglianze? Dovremmo invece pensare pratiche e diritti nuovi per soggetti mai rappresentati, per fare decrescere l’alienazione e la diseguaglianza. Se la vita in sé ha un valore di mercato, un prezzo e dunque un proprietario, come si fa a vivere insieme, a essere amici, a non ridurre la vita a merce di scambio? Come si fa a pensare all’accesso uguale di risorse finite, che si trovano dentro confini che appartengono a qualcuno, senza danneggiare chi legittimamente ne è il proprietario, ma senza privare di sostrato vitale intere popolazioni? Se saremo bravi a oscillare fra questi due poli, fra l’efficienza economica e il diritto di accesso, uguale per tutti, alle risorse bio-sostanziali, riusciremo a fare amicizia con il pianeta e anche fra noi. E non solo su Facebook.
Maggioranza o maggioritarismo? Sui caratteri della democrazia populista
Di seguito un estratto del libro Populismo di lotta e di governo a cura di Manuel Anselmi, Paul Blokker e Nadia Urbinati (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2018).
Tutti i movimenti populisti manifestano una forte resistenza – per non dire ostilità – ai meccanismi della rappresentanza elettorale (e al libero mandato), nel nome di una più diretta relazione tra il rappresentante e la volontà del popolo. Il loro fine è quello di togliere potere ai partiti che come corpi intermedi si appropriano di una fetta rilevante del potere di rappresentare la volontà volontà popolare e dividono artificialmente il popolo in una pluralità litigiosa di interessi.
Secondo Ernesto Laclau, l’identificazione con un leader è necessaria al populismo, non solo possibile: senza un leader non vi è populismo, se questo è inteso come forma di potere o di movimento finalizzato al potere. La ragione è, secondo tale autore, semplice e intuitiva: poiché il popolo è una costruzione ideologica assolutamente artificiale che non si basa su alcuna oggettiva condizione esterna (per esempio la classe o la nazione), senza un leader che dia il nome e il sigillo questa costruzione non può sostenersi e non ha successo.
Ecco perché dice ancora Laclau, il nome di un movimento populista è in generale il nome del suo leader: parliamo infatti di peronismo, chavismo, lepenismo, orbanismo, berlusconismo e grillismo. Pertanto, e come anche le varie esperienze populistiche ci confermano, il partito dal quale il leader populista può emergere (quando non ne costituisce un suo proprio) passa in seconda fila, mentre centrale diventa la sua figura, nella quale le varie rivendicazioni che compongono il movimento si incarnano. Questo fenomeno è evidente soprattutto quando il movimento populista diventa regime, conquistando la maggioranza e governando.
Possiamo dunque dire che il populismo, benché diverso nelle proposte e nelle immagini che dà di sé, tende alla o esaspera la personalizzazione della politica, ma non rinuncia affatto alla rappresentanza per istituire la democrazia diretta. Talvolta conia ossimori per comunicare la novità che reclama di immettere nella democrazia rappresentativa, come nel caso del Movimento 5 Stelle, che propone un “parlamentarismo diretto”. Questo ossimoro è destituito di ogni credibilità poiché quel che i populisti fanno è mutare il significato e la pratica della rappresentanza: non però per portare il popolo dentro le istituzioni, come sostengono, ma per dare a chi se ne dichiara “la voce autentica” un raggio d’azione ancora maggiore di quello che ha un normale rappresentante eletto.
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Descrizione dell’eBook
Il populismo è in ascesa (in Europa, come in America latina e negli Stati Uniti). Le nostre democrazie sono in un momento cruciale della loro storia e la forma in cui per quasi un secolo e mezzo le abbiamo conosciute ed abitate, si rivela probabilmente inadeguata a contenere ed esprimere le esigenze ed i fermenti di società in costante mutamento.
Conosci l’autrice
Sara Gentile insegna Scienza politica e Analisi del linguaggio politico all’Università degli studi di Catania. Collabora con l’Università di Cagliari per un master sulla mediazione interculturale. È professeur invité al CEVIPOF di Sciences Po di Parigi, dove svolge prevalentemente le sue ricerche. Ha una proficua collaborazione con la associazione Historia. Temi di analisi e di ricerca prevalenti: Populismi e crisi della forma democratica. Comunicazione, rituali e linguaggi dei leader politici.
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