Trasporti umanitari
Capitolo 12
Brzeszcze 25/5/83
Cari miei,
vi scrivo questa lettera perché voglio raccontarvi una notizia molto triste per me. Allora mio marito è stato spostato in un altro carcere a Strzelin. Non si sa perché lo hanno fatto. Com’è terribile questo! Vogliono rovinare lui e noi? Mi mancano le forze per sopportare tutto questo. […]
Gli unici contatti
Durante lo stato di guerra i trasporti umanitari rappresentano l’unico contatto possibile con la Polonia e inizialmente l’unico modo per entrarvi. Tutte le spedizioni sono destinate alle Commissioni caritative dell’Episcopato, che provvedono alla distribuzione, e sono promosse da varie organizzazioni.
Tra i donatori si annoverano istituzioni, sindacati, la Caritas, parrocchie e associazioni, industrie grandi e piccole. Il Comitato di Solidarietà con Solidarność di Torino coordina a livello nazionale la raccolta e l’invio degli aiuti dei sindacati italiani.
Le donazioni italiane
Negli anni 1982-1985 da Torino vengono effettuate 53 spedizioni di cui 21 per via area e 32 con i Tir, cui vanno aggiunti i carichi in partenza dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna e da altre regioni.
I comitati procurano gli indirizzi delle famiglie dei reclusi, traducono le lettere di accompagnamento e ringraziamento che, seppur sottoposte a censura, forniscono informazioni sui detenuti.
Con una legge apposita, a luglio del 1982, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini stabilisce che, per i successivi quattro mesi, tutti i pacchi destinati alla Polonia saranno esentati dalle spese postali. Gli invii si interrompono nel 1987 sia a causa dei controlli sempre più rigidi alle frontiere, sia perché ci sia avvia gradualmente verso la legalizzazione di Solidarność.
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Nelle immagini che seguono si può vedere la fitta corrispondenza con la quale si svolgeva lo scambio di aiuti umanitari con la Polonia e l’intensa attività per metterlo in atto.
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«Brzeszcze 25/5/83
Cari miei,
vi scrivo questa lettera perché voglio raccontarvi una notizia molto triste per me. Allora mio marito è stato spostato in un altro carcere a Strzelin. Non si sa perché lo hanno fatto. Com’è terribile questo! Vogliono rovinare lui e noi? Mi mancano le forze per sopportare tutto questo. […]
Dio perché dobbiamo soffrire così! Vorrei tanto ringraziarvi per il pacco che ho ricevuto. Il pacco mi serve moltissimo perché andrò da mio marito e avrò le cose da portare. Nel pacco c’erano 2 canottiere bianche con le maniche corte che andranno benissimo per lui. Ancora una volta ringrazio cordialmente di tutto. Che Dio vi benedica di tutto questo.»
Dalla lettera della signora L.K.
«Szczecin AD 1984 26 giugno
In Polonia la situazione politica ed economica è molto brutta. Nei negozi mancano gli elementari generi alimentari e di vestiario. È molto difficile comprare il caffè, il tè, cacao, cioccolato, la carne e i grassi.
Non si trova la biancheria da uomo, donna, bambino, calze, collant, asciugamani, camicie, maglie e maglioni, tende, stoffe per vestiti. […]
Lei carissima Sorella ci chiede di che cosa abbiamo bisogno? In Polonia manca proprio tutto e serve tutto, perciò ogni aiuto è prezioso.»
Dalla lettera di K.F. e B.F. a Suor Emilia
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Catalogo \ ‘900 la Stagione dei Diritti. Quando la piazza faceva la storia
Public historians: la storia è un mestiere del futuro?
L’eredità delle fonti
Kit didattico: La storia della rivoluzione di ottobre (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
A cent’anni dall’inizio della Rivoluzione Russa si analizzano le trasformazioni e l’impatto, anche a livello globale, che ha comportato un avvenimento storico di questa portata.
Viene ripercorsa la vicenda da un punto di vista storico attraverso le tappe di sviluppo più importanti dal 1917 a oggi. Il kit didattico approfondisce i temi che portano alla conoscenza di una “grande trasformazione” politica, sociale, culturale e economica quale fu quella portata dalla rivoluzione bolscevica che ebbe ripercussioni profonde non solo nella storia russa e europea del XX secolo, ma in quella di tutto il mondo. Il mito che essa generò fuori dalla Russia alimentò infatti aspettative e speranze di riscatto che furono alla base di molti movimenti di liberazione nazionali nel lungo e complesso processo di decolonizzazione.
Viene illustrato il ruolo che le donne svolsero nella rivoluzione e gli apporti che alcune di loro diedero non solo alla formulazione politica della questione femminile, alla lotta per l’uguaglianza e la parità dei diritti della donna, ma anche alla realizzazione di una legislazione sociale all’avanguardia per la tutela delle donne nella Russia degli anni tra il 1917 e il 1920.
Joseph Roth, invece, rappresenta uno dei primi testimoni occidentali che raccontano come veniva percepiti gli eventi di quel periodo; infine un attento lavoro di ricerca porta alla luce il tema della costruzione della memoria nella Russia di oggi in cui, a cento anni di distanza, la Rivoluzione d’ottobre rimane un’eredità difficile da gestire, raccontare e celebrare.
Catalogo \ ‘900 la Stagione dei Diritti. Quando la piazza faceva la storia
Come irrompono sulla scena i soggetti ai margini della vita pubblica e quali istanze di riconoscimento sollevano?
La mostra ‘900 la Stagione dei Diritti. Quando la piazza faceva la storia, a partire dal patrimonio documentale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, invita a riflettere sul secolo appena trascorso e sulle lotte per i diritti che ne hanno segnato il percorso. Queste battaglie ci parlano di gruppi sociali che hanno conquistato migliori condizioni di vita grazie all’attivazione dei singoli e alle mobilitazioni collettive.
Il volume ripercorre questa lunga strada attraverso due sezioni: la prima riporta l’esposizione e i suoi documenti.
La seconda raccoglie saggi di autori diversi, per formazione e provenienza, chiamati a riflettere sulla storia dei diritti, nelle loro differenti accezioni e nella consapevolezza che la loro difesa e il loro ampliamento dipendono dall’impegno di tutti.
Public historians: la storia è un mestiere del futuro?
Dal 5 al 9 giugno scorsi a Ravenna si sono dati appuntamento più di 500 professionisti della storia provenienti da tutto il mondo. Nei più di 90 panel programmati in 5 giorni di attività, si sono avvicendati non solo studiosi ed accademici, ma anche curatori di musei, responsabili di siti archeologici, archivisti, operatori a vario titolo coinvolti nella gestione e valorizzazione dei beni culturali di interesse storico; e professionisti della divulgazione e della comunicazione che producono e promuovono cultura storica.
L’obiettivo: confrontare esperienze, metodologie e prospettive della Public History, disciplina che ambisce a fissare uno statuto scientifico di inquadramento per le pratiche culturali che, in varie forme, immettono sapere storico nello spazio pubblico: dalle esposizioni ai romanzi, dalle riviste illustrate ai documentari, dalle rievocazioni in costume ai videogiochi.
Tutte queste forme di “storia pubblica” oggi sono investite da una doppia rivoluzione che ne sta cambiando profondamente la fisionomia. Da un lato la globalizzazione ha mescolato le carte, aprendo a nuovi pubblici che pongono al passato nuove domande e mettendo in crisi il tradizionale racconto su base nazionale (o internazionale e comparativa); dall’altro l’avvento dell’interazione e della condivisione digitale ha creato nuovi linguaggi, nuovi canali e nuove forme di disseminazione della storia.
Incalzato da questi processi evolutivi, anche il mestiere di storico – come tante altre professioni “tradizionali” – si è trovato di fronte alla necessità di innovare radicalmente metodologie di ricerca e linguaggi, superando le rigidità di una figura forgiata a metro e a misura dell’accademia, che spesso rinuncia a priori a rivolgersi a un pubblico più ampio di quello degli specialisti. D’altro canto, già da tempo la strada della ricerca e della didattica non è più in grado di assorbire la messe di laureati e specializzati in discipline storiche, che sono dunque posti nella condizione di spendere le proprie competenze al servizio della disseminazione del sapere storico.
A Ravenna, nell’ambito di un panel intitolato Does History Sell? moderato da Catherine Brice – docente presso Université Paris-Est Creteil e promotrice del primo master in Public History in Francia – e dedicato precisamente alle opportunità di lavoro che si muovono attorno alla storia, si è parlato molto chiaramente di mentalità imprenditoriale, attenzione al nuovo, tensione verso il futuro quali elementi necessari per chi desidera fare della Public History la propria professione.
Sono osservazioni che danno conto dell’avvicendamento generazionale che ha visto invecchiare la categoria degli storici “strutturati” (nelle università, ma non solo: anche in archivi, biblioteche, musei e altre istituzioni più coinvolte nella dimensione pubblica della storia), mentre i primi che hanno dovuto trovare percorsi alternativi – e che oggi hanno intorno ai 40 anni – si sono trovati spesso a “inventarsi” una professione che li ha portati a maturare esperienze in vari ambiti della divulgazione, della comunicazione, della progettazione culturale. E a sfruttare le molte occasioni create dal digital turn e dall’espansione delle digital humanities.
Se questa esplosione di entusiasmo per la Public History ha un merito, esso è rappresentato dalla capacità di questa disciplina di raccordare e inquadrare tutte queste esperienze di autonoma costruzione professionale, circoscrivendo e problematizzando linguaggi, riflessioni teoriche, strumenti di lavoro. E favorendo lo sviluppo di percorsi formativi codificati, grazie ai quali le nuove generazioni di laureati non hanno più bisogno di “inventarsi” autonomamente strategie e competenze, ma possono fare tesoro dell’esperienza di chi è già inserito nei processi di innovazione e di sperimentazione dei nuovi linguaggi della storia.
Se è vero, come ha sostenuto Serge Noiret (European University Institute) – da tempo attivo sul tema e tra i promotori dell’iniziativa di Ravenna – nella sua prolusione inaugurale, che il public historian è lo storico del futuro, la strada da perseguire è quella di un costante aggiornamento professionale, non soltanto per recepire i risultati più nuovi della ricerca scientifica, ma soprattutto per tenere il ritmo dell’evoluzione delle forme di narrazione e di disseminazione capaci di incidere davvero sulla conoscenza diffusa della storia.
L’eredità delle fonti
Tra le eredità più impegnative che ci ha lasciato il Novecento, non sempre viene ricordata la sterminata abbondanza di fonti: carte, libri, fotografie, documenti sonori e audiovisivi, nonché, verso la fine del secolo, supporti digitali, che hanno conosciuto un incremento esponenziale nel nuovo millennio e generato un dibattito sempre vivo sul tema della conservazione e trasmissione della memoria.
Nessun secolo aveva fino ad allora conosciuto una tale proliferazione di testimonianze come quello appena trascorso; un patrimonio che molti enti pubblici e privati, dagli stati nazionali alle più piccole biblioteche, dalle comunità alle persone fisiche, hanno trasmesso e stanno trasmettendo alle generazioni future.
Con l’esplosione di Internet e la diffusione dei social media, molti hanno intonato il de profundis per tutte le forme di intermediazione legate alla produzione di contenuti, non ultime archivi e biblioteche, preconizzando la progressiva scomparsa delle professionalità deputate alla salvaguardia, catalogazione e gestione dei patrimoni archivistici e bibliografici, favorita, in un circolo vizioso, dalla contestuale violenta contrazione delle risorse destinate agli istituti di conservazione.
Le sfide innescate da un mutamento così repentino sono molteplici e articolate, ed esigono risposte meditate ma rapide.
Risulta evidente, in primo luogo, che ci troviamo in un sistema misto analogico-digitale, e che molti istituti di conservazione, pubblici e privati, si trovano a gestire patrimoni immensi che rischiano di trasformarsi da opportunità a zavorra insostenibile per la maggior parte di essi. Il primo passo, e la prima sfida, consiste dunque nell’attivazione di una filiera che rompa l’isolamento della funzione di conservazione e la metta in relazione con la ricerca, la didattica, la produzione editoriale, riportando al centro dell’attenzione la funzione essenziale che le fonti possono esercitare per capire il nostro presente e immaginare il futuro.
In secondo luogo, e conseguentemente, è necessario affrontare il tema della digitalizzazione del patrimonio con la necessaria serenità, senza percepirla come una minaccia che conduca necessariamente alla disintermediazione forzata dell’operatore culturale. A monte e a valle di ogni processo di digitalizzazione del patrimonio si pongono prioritariamente una riflessione sui formati e quindi sul problema centrale della migrazione dei dati, l’individuazione degli obiettivi, la creazione di strumenti che trasmettano il senso e favoriscano l’usabilità dei supporti prodotti, ma anche, a tendere, la consapevolezza, come è stato autorevolmente scritto, che ogni archivio è un organismo vivo e aperto alla collaborazione e alla condivisione, un luogo non più verticale ma orizzontale.
In questa prospettiva la figura del conservatore viene investita da una sfida ancora più grande, che consiste nella ridefinizione del proprio ruolo di mediatore: in un delicato equilibrio tra imparzialità e necessaria organizzazione dei supporti, siano essi analogici o digitali, l’obiettivo è mettere a disposizione le fonti primarie e secondarie, carte e libri, nella loro integrità e completezza, evitando superfetazioni ideologiche o censure preventive.
Rendere palese questa modalità di condivisione del patrimonio è la migliore risposta alla opportunità di educare le nuove generazioni, sommerse dal mare indistinto del web dove spesso l’interpretazione arbitraria o fantasiosa determina il travisamento della fonte, per non dire la sua scomparsa, in funzione di una fruizione propedeutica alla creazione di cittadini consapevoli, in grado di esercitare in autonomia la critica delle fonti, vedo antidoto alle versioni di comodo e al pregiudizio, e di decidere quindi del loro futuro in piena libertà.
Vittore Armanni
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli