La Chiesa e le istituzioni: un ponte fra Italia e Polonia
Capitolo 11
Gli uomini del dissenso (di Solidarność) che ho incontrato mi hanno concordemente manifestato la loro fiducia nell’opera caritativa della Chiesa, precisamente per l’azione nei confronti della generalità dei loro quadri e dei loro iscritti che sono raggiunti dall’opera di soccorso della chiesa precisamente attraverso il fatto che i primi posti in lista di soccorso sono quei nuclei familiari che hanno qualcuno disoccupato (leggi Solidarność).
Il ruolo della ChiesaLa chiesa polacca diventa per un certo periodo e a tutti i livelli l’unico luogo di accoglienza e di limitata libertà per i cittadini polacchi. È nelle parrocchie che arrivano i carichi umanitari e le informazioni dall’estero. Così, molti parroci italiani che collaborano con il Comitato di Solidarietà di Solidarność si offrono come prestanome per inviare i carichi sindacali in Polonia, alcuni accompagnano i Tir, raccolgono informazioni e documentano la situazione del Paese.
L’aiuto delle istituzioni
Anche le istituzioni italiane offrono un sostegno costante alla Polonia e ai lavoratori.
Il ministro della Sanità Renato Altissimo interviene per accogliere pazienti polacchi in due ospedali romani.
Nel 1983 la città di Torino, su proposta del consigliere Giampiero Leo del Movimento Popolare, conferisce la cittadinanza onoraria a Lech Wałęsa.
A gennaio 1985 si tiene a Torino il convegno internazionale «Polonia. La società parallela», volto a mostrare la resistenza civile del Paese, a cui partecipa Gustaw Herling-Grudziński, uno dei maggiori scrittori polacchi del Novecento.
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Le immagini che seguono testimoniano il vivo interesse del papa Giovanni Paolo II alle vicende di Solidarność e quello della Chiesa italiana che ha collaborato in vari modi con i sindacati e ha tenuto vivo l’interesse del nostro paese.
Kit didattico: Opportunità per tutti
Conoscenza, azione, emancipazione. Le lotte operaie come apprendimento collettivo
Né morti, né vivi: semplicemente scomparsi
La storia in mostra. Public History e percorsi espositivi
Kit didattico: Opportunità per tutti
Il 14,5% della popolazione mondiale è povero: oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, tra queste, una su tre ha meno di 13 anni. Cosa significa essere poveri? La povertà è un problema complesso e si accompagna al tema delle disuguaglianze. Lo sapevi che il 10% della popolazione globale non ha accesso ad efficienti servizi di acqua potabile? Che nel 2011 65 milioni di ragazze non hanno avuto accesso all’istruzione primaria e secondaria?
Il kit didattico Opportunità per tutti stimola una riflessione su disuguaglianza e giustizia sociale collegati al tema della “cittadinanza” e prende in esame il programma di assistenza sociale brasiliano Bolsa Familia finalizzato a ridurre la povertà anche attraverso l’accesso a istruzione, servizi sanitari.
Conoscenza, azione, emancipazione. Le lotte operaie come apprendimento collettivo
Descrizione dell’ebook
Pur partendo dall’analisi di una situazione specifica – le lotte operaie italiane sul finire degli anni ’60 – questo saggio di Bruno Trentin risulta più attuale che mai. Al centro vi sono i rapporti tra sapere e potere, la mobilitazione come forma di apprendimento collettivo delle proprie condizioni e del proprio ruolo. Conoscenza che diventa ridefinizione del potere in fabbrica e nella società.
L’appello – posto circolarmente all’inizio e alla fine – è alla «necessità di un processo di creazione culturale collettiva».
Come nota Riccardo Emilio Chesta nella sua introduzione, «proprio in un momento storico dove la classe operaia è tutt’altro che in declino da un punto di numerico – al 2019 sono 1,7 miliardi i lavoratori contati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – vi è tuttavia la percezione che essa sia attraversata da un momento di riflusso culturale che ne denota al contempo un rischio di irrilevanza immediatamente politico.»
D’altro canto, se definire le caratteristiche di questa nuova classe operaia globale è operazione molto complessa, la sfida è la costruzione di un sindacato internazionale. Pur sapendo leggere le specificità delle situazioni economiche e lavorative locali, serve costruire una lotta globale di emancipazione di tutti i lavoratori.
Conosci l’autore
Bruno Trentin (Pavie, Francia, 1926 – Roma, 2007), è stato partigiano, politico e sindacalista. Ricercatore dell’Ufficio Studi della Cgil, poi dirigente della Confederazione, segretario generale della Fiom e successivamente della Flm. Nel 1978 diventa segretario della Cgil e dal 1988 al 1994, segretario generale della Confederazione. Nell’ultima parte della sua vita ha presieduto la Commissione di programma della Cgil. Dei suoi numerosi scritti ricordiamo: Da sfruttati a produttori (De Donato 1977); Il sindacato dei consigli (Editori Riuniti 1980); Il coraggio dell’utopia, con Bruno Ugolini (Rizzoli 1994); Lavoro e libertà nell’Italia che cambia (Donzelli 1994); Nord e Sud, con Luis Anderson (Ediesse 1996).
Né morti, né vivi: semplicemente scomparsi
A Buenos Aires la vita era quella di tutti i giorni, con il caotico traffico di sempre, le file davanti a cinema, teatri e ristoranti, mentre macchine senza targa si aggiravano silenziose, dando la caccia all’uomo per tutta la città, e la gente non capiva o poteva pretendere di non capire quello che stava accadendo.
[Enrico Calamai, ex Viceconsole italiano in Argentina, 2018]
«È un’incognita, è un desaparecido, non ha entità, non c’è. Né morto né vivo, è desaparecido» – è stato il dittatore argentino Jorge R. Videla, nel dicembre del 1976, a dare quella che forse è la definizione più nota della desaparición. Pochi mesi prima il generale aveva specificato, di fronte alle sue Forze Armate, che nel paese non sarebbero state permesse azioni disgreganti e anti-nazionali in nessun ambito: nella cultura, nei mezzi di comunicazione, nell’economia, nella politica e nei sindacati (“La Nación”, 9 luglio 1976). E, naturalmente, nel mondo della scuola, dove si sarebbe dovuto vegliare su alcune materie – storia, educazione civica, economia, geografia e religione – e su alcune pratiche, come quella di commentare in classe l’attualità. Come quella, in sostanza, di pensare. La dittatura argentina, così come gli altri regimi “gemelli” che hanno insanguinato l’America Latina tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, puntava naturalmente al futuro: il Ministerio de Educación, ad esempio, vantava al suo interno un ufficio del SIDE (il Servicio de Inteligencia del Estado) per individuare in ambito educativo le persone sospette di essere “sovversive”1. E farle così sparire: la stragrande maggioranza dei desaparecidos argentini, oggi lo sappiamo, avevano tra i 16 e i 35 anni.
Chi è un desaparecido, dunque? È una figura che riassume in sé «la pretesa più radicale» da parte di uno Stato, vale a dire il «prendere possesso delle vite delle persone a partire dalla sottrazione delle loro morti». Così viene definito il fenomeno della desaparición fozada tra le pagine curate dalla Presidencia de la Nación argentina – ora democratica – e dal medesimo Ministerio de Educación – ora democratico – con il titolo La Última Dictadura, un agile opuscolo governativo, con fini informativi ed educativi, che misurando la distanza che dovrebbe esserci tra una democrazia compiuta e una dittatura militare prova a raccontare in poche parole il segmento argentino di un fenomeno nel quale «la classe pensante dell’America Latina è stata stroncata». Queste ultime sono invece parole di Martín Almada, avvocato e attivista con l’incommensurabile merito di avere scovato l’“armadio della vergogna” latinoamericano, il 22 dicembre 1992. Nella periferia di Asunción, in Paraguay, Almada costrinse la polizia ad aprire la caserma locale trovando una documentazione di 700.000 carte che confermavano l’esistenza del Plan Cóndor, un’operazione congiunta di diversi paesi sudamericani, sotto l’egida degli Stati Uniti, volta ad annichilire l’opposizione politica alle dittature militari, ad «elimina[re] le frontiere per eliminare i dissidenti», sintetizza ancora Almada. I paesi coinvolti, oltre al Paraguay, erano Brasile, Bolivia, Uruguay, Cile e – naturalmente – la stessa Argentina.
L’avvocato Almada è una delle voci che nel documentario La memoria del Cóndor (di Emanuela Tomassetti, Italia 2018) ci guidano tra le pieghe di questa vicenda che ha visto la sparizione di decine di migliaia di persone, e lo fa a partire da un processo iniziato nel 2015 nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma. Un processo andato nel frattempo avanti, che cerca di dare giustizia a coloro che – sono parole del procuratore generale Francesco Mollace – «pensavano di affacciarsi alla democrazia e invece sono stati annichiliti». Un processo che ha avuto luogo in Italia perché tra i desaparecidos c’erano anche uomini e donne di origine italiana – di famiglie migranti –, così come tra i loro rapitori e i loro assassini, così come tra i loro salvatori.
Italiano di nascita è invece Enrico Calamai, all’epoca un giovane diplomatico che in Cile prima, e in Argentina poi, riuscì a trarre in salvo centinaia di richiedenti asilo, e che ne ha parlato nel libro Niente asilo politico. Dilpomazia, diritti umani e desaparecidos (2003), dal quale è stata tratta anche una serie tv. Tornando a riflettere su quanto accaduto, Calamai ha scritto che i militari argentini non avevano commesso «l’errore dei colleghi cileni, che avevano fatto ricorso ad una violenza estrema, messa in scena erga omnes e ripresa dalla televisione»: a Buenos Aires non c’era stato il bombardamento del palazzo presidenziale, «non si vedevano carri armati per le strade, non c’erano stadi pieni di detenuti torturati e uccisi né, tanto meno, ambasciate invase da disperati in fuga per la vita. Soprattutto, non si vedevano cadaveri e se non c’erano cadaveri non c’erano morti e se non c’erano morti non c’era violenza». Eppure la violenza permeava ogni cosa, ed «era una violenza sistematicamente relegata nel cono d’ombra di un’informazione mondiale ormai prevalentemente iconografica, in cui l’opinione pubblica dà per scontato che tutto ciò che accade sia rappresentato e che ciò che rappresentato non è, semplicemente non accada».
Il punto di partenza delle riflessioni di Calamai nel libro Desaparecidos e migranti nel Mediterraneo e nelle Americhe è il lavoro fatto con il Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos del Mediterraneo, a partire dall’assunto che la Convenzione internazionale contro la desaparición forzata, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006, «non basta a far sparire la desaparición dalla realpolitik». È vero, come ci ricorda Giacomo Donadio, attivista di CarovaneMigranti – una delle prime realtà europee a proporre una comparazione tra le varie sparizioni, del passato e del presente –, che il concetto di sparizione forzata proprio secondo la Convenzione implica una privazione di libertà, il fatto che questa avvenga a opera «di agenti di Stato o persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, l’acquiescenza o la tolleranza dello Stato», e infine che questa sia seguita «dal rifiuto da parte dell’autorità di riconoscere che la stessa abbia avuto luogo, nonché dal rifiuto di fornire informazioni» sulla sorte delle vittime, ponendole di fatto al di fuori della protezione della legge. Ma è più che legittimo, sostiene Donadio, evidenziare «lo stato di sospensione», la sofferenza e la ricerca dei familiari, le «interlocuzioni concrete tra storie diverse ma caratterizzate, allo stesso tempo, da esperienze comuni di lotta per la verità e giustizia, oltre che da un dolore comune». Ed è altrettanto vero che, forzate (desapariciones forzadas) o non (desapariciones / missing persons), che coinvolgano o meno entità sovranazionali, governative o paragovernative, o che siano conseguenze di accordi con esse, le sparizioni sono una piaga anche e soprattutto del nostro tempo. Molte stime credibili parlano di quasi trentamila desaparecidos forzados e di 150 mila morti, ricorda nello stesso volume Gianfranco Crua – anche lui attivista di CarovaneMigranti – riferendosi al solo territorio messicano nei dodici anni trascorsi dal 2006 all’inizio del 2018. Le migliaia di scomparsi di ogni anno sulla rotta mesoamericana, nel mar Mediterraneo e nei paesi di transito come la Libia, non sono un incidente di percorso, ma il frutto di strategie politiche e interessi economico-criminali convergenti, dai quali è legittimo tentare di difendersi.
Come scrive ancora Calamai, «queste morti non sono che il portato delle misure pattizie, securitarie ed omissive attuate dalla Ue, dalla NATO e dai loro Paesi membri nei contatti con gli Stati africani e del Medio Oriente, con finalità di deterrenza verso i disperati in fuga: come se i pompieri anziché salvare gli abitanti di un edificio in fiamme, barricassero porte e finestre per impedirne l’uscita». I miliardi di euro versati a Turchia, Libia e agli altri paesi del sud del Mediterraneo – prosegue Calamai –, così come gli accordi bilaterali, l’assistenza a forze armate e di polizia e la fornitura di tecnologie e di mezzi finanziari, «ricordano il tristemente noto Piano Condor», con cui «si portava a termine l’annientamento dei “sovversivi”»2.
Ed eccoci qui, a chiederci quanto questo accostamento risuoni in noi, quanto non si sia ormai delineato uno scenario globale in cui i veri sovversivi, in fondo, sono coloro che vogliono portare a termine il loro viaggio – e per questo vengono fatti sparire, uccisi, o lasciati morire. È un tema immenso, perché riguarda direttamente anche noi e chi ci governa: si tratta “semplicemente” del fallimento della comunità internazionale o di altro?
«C’è una questione che emerge pochissimo ed invece è fondamentale: quella della responsabilità di uno Stato per i crimini commessi da un altro Stato» – queste parole sono state pronunciate di recente, e non a proposito dell’Operazione Cóndor, ma dell’esposto che sarà presentato alla Corte penale internazionale per i morti in mare e i respingimenti verso la Libia: 244 pagine che mettono in evidenza, tra le altre cose, i 40.000 respingimenti fatti da UE e Italia nel solo periodo tra il 2016 e il 2018, attraverso la Guardia costiera libica, che hanno causato un numero imprecisato di morti e sparizioni.
Dario Belluccio dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) sottolinea come un articolo del progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato (non dell’individuo) della Commissione del diritto internazionale dell’ONU dice «che uno Stato è corresponsabile se è a conoscenza ed agevola un altro Stato nella commissione di crimini previsti e punibili dal diritto internazionale, quindi questa complicità è sostanzialmente equiparata alla commissione del crimine». E allora oggi viene seriamente da chiedersi quali individui e quali Stati, a partire da domani, pagheranno per tutto questo – e che cosa ne scriveranno gli storici del futuro.
1 Felipe Pigna, La historia de todos, in memory under construction / memoria en construcción. El debate sobre la Esma (a call by Marcelo Brodsky), la marca editora, Buenos Aires 2005, pp. 57-64.
2 Enrico Calamai, “La desaparición ieri e oggi”; Giacomo Donadio, “In viaggio attraverso pratiche comuni. Le storie delle Madri che rompono il silenzio”; Gianfranco Crua, “Verso quali rotte? Le loro e le nostre”, in Gianfranco Crua, Anita Silvietta Giletti, Franco Prono (a cura di), Desaparecidos e migranti nel Mediterraneo e nelle Americhe, Bonanno, Roma 2018, in particolare alle pp. 32-7; 41; 50-4.
La storia in mostra. Public History e percorsi espositivi
Il 24 settembre 2016 il presidente Barack Obama ha inaugurato a Washington D.C il National Museum of African American History and Culture, che si aggiunge agli altri musei dello Smithsonian Institution presenti nella capitale degli Stati Uniti. L’apertura al pubblico dell’installazione, sorta con l’obiettivo di rileggere la storia nazionale “attraverso un’ottica afroamericana”, raccontando la partecipazione degli afroamericani a numerosi settori della vita politica, sociale e culturale, si inseriva in un contesto di incidenti e aggressioni a sfondo razziale che, come riportato per mesi sugli organi di stampa, avevano spesso avuto per oggetto il movimento Black Lives Matter, che denuncia e combatte discriminazioni, violenze e razzismo nei confronti della comunità dei neri d’America. Il nuovo spazio espositivo, salutato come un primo importante riconoscimento pubblico, potrà contribuire al processo di piena integrazione di questa minoranza?
National Museum of African American History and Culture
Nel maggio 2017 è stata aperta a Bruxelles – in un periodo assai difficile per l’Unione europea – l’esposizione permanente della Maison d’histoire européenne, dopo molti anni di lavoro e un ingente finanziamento. Il nuovo museo riuscirà a concorrere alla costruzione di una storia comune del continente, in cui tutti possano riconoscersi?
Nell’ottobre 2014 è stato aperto a Varsavia Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi, che intende presentare al visitatore un percorso espositivo in cui la storia degli ebrei in Polonia è integrata con la storia nazionale, in un momento in cui gli studiosi della Shoah, che hanno messo in rilievo la partecipazione dei polacchi al genocidio ebraico, sono messi sotto attacco e minacciati.
Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi
Sono questi tre esempi, fra i tanti possibili, della dimensione e del ruolo pubblico di musei che trattano e espongono temi di storia al centro di conflitti, che si pongono l’obiettivo di sensibilizzare un pubblico più ampio, nonché di proporre una rappresentazione del passato che possa essere in grado di modificare e apportare cambiamenti nell’opinione pubblica e nelle nuove generazioni.
Già dall’inizio del XIX secolo le esposizioni sono state l’occasione per gli storici di lavorare con gli “oggetti” e dare un contributo alla valorizzazione del patrimonio culturale. La Public History fin dalla sua nascita, negli anni ’70, è andata interessandosi di mostre e musei come uno degli oggetti precipui delle sue pratiche; e oggi si può certamente constatare – anche a partire dagli esempi sopra menzionati – che l’attenzione per questo tipo di narrazioni nello spazio pubblico è senza dubbio in crescita.
Diversi sono i motivi. Innanzitutto la pluralità dei linguaggi comunicativi che un’esposizione (permanente o temporanea che sia) mette in atto: vi si trovano solitamente oggetti e documenti scritti (in copia o originale), rappresentazioni artistiche, riproduzioni e ricostruzioni e – per l’epoca più recente – fotografie, materiale audio/video, spesso “messi in mostra” attraverso l’uso sapiente di strumenti multimediali e effetti speciali che riescono a valorizzare le fonti storiche.
Proprio grazie alla pluralità dei linguaggi ed alla possibilità di un confronto diretto con i documenti storici – quale che sia il loro medium – le mostre possono attrarre nuove audiences, nuovi pubblici più restii ad essere intercettati, con una finalità didattica e educativa a una scala più larga rispetto ai libri specialistici.
«Che cosa può fare la Public History per i musei? E che cosa i musei possono fare per la Public History?», si è chiesta di recente Ilaria Porciani («Memoria e Ricerca», 1/2017). Indagare il loro rapporto e le interconnessioni tra queste diverse tipologie di trasmissione del sapere storico aiuta non solo a meglio comprendere il ruolo dello storico che opera nello spazio pubblico – una delle molte declinazioni e definizioni del Public Historian, ma anche di quali competenze ha bisogno per svolgere la propria attività in questo ambito.
In anni più recenti la forma museo ha subito profonde trasformazioni grazie alle nuove tecnologie e agli strumenti multimediali che hanno moltiplicato e ampliato la possibilità di utilizzo dei materiali, li hanno resi più fruibili e indotto anche a ripensare lo spazio museale in quanto tale, a partire dall’esperienza dei musei diffusi e alle esposizioni online, visitabili dal proprio computer. La forte espansione del settore a cui oggi si assiste, può dare nuovi sbocchi occupazionali ai giovani interessati alla storia, fuori dal percorso dell’insegnamento a scuola o della ricerca e della didattica all’università.
Una forte attenzione per le fonti storiche, una buona dose di creatività e una attitudine al dialogo, sono certamente elementi essenziali per chi voglia avvicinarsi a queste esperienza professionale, poiché, come ci ricorda Jay Winter a partire dalla sua collaborazione al progetto sullo Historial de la Grande Guerre, a Péronne in Francia, «creare un museo, o una mostra, o una serie televisiva, non può essere mai un one-man show». All’interno di un progetto espositivo o museale, quindi, il Public Historian dotato di una formazione multidisciplinare, deve potere e sapere dialogare in modo fruttuoso con gli altri professionisti, portatori di altre competenze (museologi, architetti, allestitori, video e filmmaker, grafici e così via) senza la pretesa di sostituirsi ad essi.
È attraverso un confronto dinamico che si arriva alla rappresentazione di un percorso espositivo – che è sempre frutto di un lavoro collettivo – in grado di tornare a interrogare eventi del passato alla luce delle domande del presente, con l’obiettivo di riavvicinare la cittadinanza allo studio e all’utilità della storia.