La destabilizzazione
Capitolo 3
Opposizioni esterne e interne
La reazione della Casa Bianca al governo Allende fu immediata. Spalleggiata dalle multinazionali presenti in Cile (in particolare dall’International Telephone And Telegraph), ridusse drasticamente l’aiuto economico, si oppose alla rinegoziazione del debito estero cileno, e spinse gli organismi finanziari internazionali a non concedere nuovi crediti. Il rame fu oggetto di una vera e propria campagna di boicottaggio e il suo prezzo fu fatto crollare artificiosamente sui mercati mondiali.
Sul piano interno, l’esecutivo dovette fare i conti con la paralisi produttiva messa in atto dai principali gruppi industriali nazionali, il blocco dei trasporti, la propaganda antigovernativa dei maggiori gruppi editoriali e le azioni di protesta delle organizzazioni di categoria del ceto medio e degli ordini professionali.
Conflitti civili
Crebbe il malcontento nel paese, abilmente strumentalizzato dai partiti di destra. Emblematica fu la “marcha de las cacerolas” della fine del 1971, che vide le donne dell’alta borghesia scendere in piazza contro il governo. Con la radicalizzazione dello scontro sociale, si accentuarono le divisioni all’interno di UP e della sinistra in generale: il MIR e gran parte dei socialisti premevano per una definitiva accelerazione del processo rivoluzionario; il partito comunista spingeva perché si proseguisse sulla “via parlamentare”.
Tuttavia, alle elezioni politiche del marzo 1973, la coalizione di governo sfiorò il 44% dei voti, mentre l’opposizione, pur conservando la maggioranza, non ottenne i due terzi dei seggi necessari a sfiduciare Allende. Il fallito tentativo di colpo di Stato del 29 giugno di quell’anno, condotto dal secondo reggimento corazzato di Santiago, rappresentò il campanello di allarme di una pericolosa radicalizzazione dei militari, sino ad allora fedeli al dettato costituzionale. Per evitare la guerra civile Allende puntò sul dialogo con i democristiani per raggiungere una nuova intesa.
L’esercito nel governo
Gli attentati terroristici dell’estrema destra si intensificarono e un nuovo sciopero dei camionisti si aggiunse a quello dei lavoratori della miniera El Teniente. Con le spalle al muro, nel mese di agosto Allende formò un nuovo governo coinvolgendo i comandanti delle tre armi delle Forze Armate. Il PDC, ormai attestato su posizioni di ostruzionismo frontale a UP, fece approvare in Parlamento una mozione in cui il presidente veniva accusato di aver violato “la Costituzione e la legge”.
La sera del 22 agosto, il generale Carlos Prats rassegnava le dimissioni da ministro della Difesa e da capo di stato maggiore, e al suo posto veniva nominato il generale Augusto Pinochet Ugarte. Il dialogo con i democristiani si interruppe e Allende avanzò l’ipotesi di indire un plebiscito per affidare all’elettorato il compito di decidere delle sorti dell’esecutivo. Ma ormai il paese si trovava sull’orlo del baratro.
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Le travagliate vicende di quel 1973 hanno occupato l’attenzione di molti e le copertine di numerose pubblicazioni cilene e non solo. Nelle immagini che seguono vediamo cosa accade fino all’agosto di quell’anno e di come la percezione fosse quella della catastrofe imminente.
Approfondisci
JORGE TIMOSSI
L’ultima battaglia del Presidente Allende
Feltrinelli, Milano 1974, pp. 7-9.
“Questo è il libro di una battaglia. Le prime testimonianze dell’inizio della resistenza armata contro il fascismo in Cile. Lo scenario del libro è una sola trincea: “la Moneda”, il palazzo presidenziale che ospitò fino all’11 settembre 1973 vari decenni di vita repubblicana. Fu questa la trincea in cui combatté il presidente Salvador Allende, e cadde con le armi in pugno, dando inizio a una nuova e cruenta pagina della storia rivoluzionaria del suo paese.”
Kit didattico: Che cos’è la patria?
Chi soddisfa la domanda di storia?
Fare comunicazione è costruire democrazia. Il caso dei media comunitari in America Latina
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Kit didattico: Che cos’è la patria?
Tra i più importanti cambiamenti messi in atto dalla Grande Guerra c’è sicuramente il concetto di Patria, dalla sua esasperazione fino al suo annullamento.
Il kit didattico si sofferma sull’analisi e la riflessione che portano queste due parole chiave ad esprimere il significato di patria. Addentrandoci nei testi scritti di Boine e Brooke, di Jessie Pope, di Owen, ma anche nel discorso a Quarto di D’Annunzio, possiamo riconoscere quali sono state le ragioni esasperanti che hanno fatto saltare le convenzioni di pace stabilite prima della guerra del ’14-’18?
Cosa pensiamo di Cesare Battisti, eroe nazionale ed irredentista giustiziato a Trento dagli austriaci, nel 1916, che ci lascia in eredità un pensiero: “la patria è quella che si sceglie e non quella in cui si nasce”? Ma la patria è anche il controllo delle risorse. Per i britannici, “padroni dei mari”, è impossibile non reagire quando nel maggio 1915 il transatlantico Lusitania affonda e la guerra chiama in causa anche gli Stati Uniti. E ancora: finita la guerra, dopo il trattato di Versailles del 1919, a quali regole la patria dovrà attenersi?
Chi soddisfa la domanda di storia?
La corsa di M. Il figlio del secolo, il libro di Antonio Scurati da poco pubblicato per Bompiani, finisce con la recensione Di Ernesto Galli Della Loggia uscita giorni fa sul Corriere della Sera. Oppure, come sembra, potrebbe proseguire e continuare a far discutere. Il botta e risposta tra lo storico e il romanziere ha le caratteristiche di una discussione dal fiato corto, che non ci permette di crescere, è una prova di forza tra posizioni (politiche, culturali, mentali,…) che vogliono misurarsi. A suo modo è un derby. E forse è il caso che rimanga confinato sui campi di gioco.
Una delle cose che probabilmente resteranno della forma che ha preso questa discussione è, come si dice a Milano, «ofelè fa el to mesté» – traduco: «pasticcere, fai il tuo mestiere». Dunque, l’esortazione sarebbe quella che Antonio Scurati smetta di occuparsi di inquadramenti di storia e che torni a scrivere narrativa pura. I bei libri di storia sono lavoro da storici.
Vale per i molti errori, talvolta veri e propri strafalcioni, di cui è pieno il libro (ma mi chiedo: possibile che non ci sia stato un controllo affidato a uno storico di professione?). Deve essere chiaro che al netto degli errori il problema da porre è: di storia e del senso della narrazione della storia hanno diritti di parola solo gli storici? E su Mussolini, sul senso di quella storia italiana, sugli effetti soprattutto nel senso comune e nella sensibilità dell’opinione pubblica, hanno diritto di parola solo gli storici?
L’esortazione di Galli della Loggia avrebbe anche un senso, solo che da molti anni è evidente quanto il processo di costruzione dell’indagine storica e, in particolare, l’apertura di alcuni scavi nel passato non la facciano per primi, né esclusivamente, gli storici. Noi storici, ammesso che ne abbiamo voglia, veniamo sollecitati a ripensare lo scavo e l’indagine intorno a fatti di storia da parte di stimoli, provocazioni e interventi che avvengono al di fuori della disciplina storica.
Tra questi, il primo posto, si potrebbe dire, sta la letteratura. Non è forse vero che Il Dottor Zhivago ci ha costretto a rileggere la Rivoluzione d’Ottobre più dell’opera di E. H. Carr? O che Il Gattopardo ci ha raccontato il Risorgimento con più efficacia di Giorgio Candeloro o di Rosario Romeo? Quanta verità storica c’era e c’è in entrambi? Difficile dirlo.
Prendo ad esempio un fatto: l’analisi e lo scavo intorno alla personalità del terrorista contemporaneo. I testi di letteratura non contengono il vero ma è la letteratura e non la storiografia a contenere quel meccanismo che ci fa entrare nei sentimenti del terrorista, li riporta alla luce e li descrive. Basta pensare a Merry Levov, la protagonista adolescente di Pastorale americana di Philip Roth; Yazdi, il figlio deficiente del cantastorie arabo Khilmi ne Il sorriso dell’agnello di David Grossman; Lee Harvey Oswald di Don DeLillo in Libra; Nafa Walid, il protagonista di Cosa sognano i lupi di Yasmina Khadra. Hanno in comune il vuoto della vita quotidiana. Nel racconto del vissuto di quel vuoto prende corpo lentamente la forza di una scelta e di una reazione che si fa violenza e che adotta la distruzione come codice di comportamento.
Oppure: come raccontare Teheran oggi? C’è qualche storico che abbia saputo descrivere il vissuto di Teheran dall’interno più di Azar Nafisi in Leggere Lolita a Teheran o di Jafar Panahi in Taxi Teheran? E quelle due diverse creazioni in che modo indicano un percorso di scavo e di indagine possibile?
E ancora. Rimaniamo in Italia. Prima e dopo Vajont, 9 ottobre 1963. Orazione civile di Paolini in che forma abbiamo parlato del Vajont? Usciamo di nuovo dall’Italia. Cos’era la consapevolezza della Francia di Vichy nell’opinione pubblica della Francia prima del film Lacombe Lucien di Louis Malle girato nel 1974? Non sono stati i processi Papon e Touvier, ma un film e, in subordine, una produzione storiografica, che ha avuto poi bisogno di uno storico statunitense (Paxton,Vichy France: Old Guard and New Order, 1940-1944, 1972) e di uno storico franco-israeliano (Zeev Sternhel Ni droite, ni gauche. L’ideologie fasciste en France, 1983), perché quella discussione pubblica assumesse la dimensione di un confronto non più eludibile. Lo stesso si potrebbe dire della narrativa di Javier Cercas in Spagna con L’impostore, ma soprattutto con Anatomia di un istante.
Lo stesso, inoltre, si potrebbe dire a proposito della discussione pubblica e del confronto (non per tifoserie), sul fascismo in Italia e sulla Resistenza.
Certo tutti possono ricordare e fare i paragoni con la monumentale biografia di Mussolini stesa da Renzo De Felice; tuttavia, perché quei temi si ponessero all’attenzione pubblica, occorreva che venisse sollevato l’interesse ed è accorso, in questo senso, Sergio Zavoli con Nascita di una dittatura; perché la discussione sul terrorismo, sulle BR, sul rapimento Moro ottenesse una dovuto approfondimento Il memoriale della Repubblica di Miguel Gotor è stato indispensabile ma senza Sergio Zavoli non avremmo fatto grandi passi avanti nella coscienza pubblica. Così non è un caso che, nonostante il Giorno della Memoria e nonostante le pietre d’inciampo, alla fine solo con una trasmissione di Alberto Angela sul 16 ottobre 1943 quella questione è diventata questione.
Infine, solo con Una guerra civile di Claudio Pavone, si è aperta in Italia, finalmente, una discussione non solo sulla Resistenza ma, soprattutto, sulla legittimità di altre fonti rispetto a quelle presenti nell’Archivio Centrale dello Stato come: i diari privati, le lettere, i racconti, la narrativa, la filmografia. In breve, si è aperta la possibilità di utilizzare e ricorrere a tutte le fonti e a tutti i linguaggi contemporanei.
Considero ancora, a trent’anni di distanza Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza (1991) di Claudio Pavone (uno dei miei maestri) un testo fondamentale, per molti aspetti insuperato. E tuttavia, credo che quel libro non possa costituire il testo definitivo, soprattutto perché si ferma al 25 aprile 1945. Di quel libro, come progetto e contenuto, non solo è importante il titolo, ma anche, e per me soprattutto, il sottotitolo. Per questo ritenevo allora e ritengo tuttora che quel libro, così decisivo, dovesse spingersi oltre quella data. Quando cessarono gli spari, quella conflittualità proseguì, segnò molte vite e si innervò oltre il 1945 fino ai nostri giorni. Questa storia ancora deve essere raccontata con la stessa acribia, con la stessa capacità di saper leggere e usare le fonti, con la stessa voglia di scavo che c’è nel libro di Pavone, contro la facile narrativa di propaganda che va molto di moda da tempo e che ancora svetta nelle classifiche dei libri più venduti in Italia.
Dunque il tema è come si affronta con pacatezza e possibilmente senza tifoserie, ma con passione questa questione Il tema non riguarda come si scrive il vero, ma come si produce racconto e scavo nel passato in grado di riaprire la discussione sui luoghi comuni nel presente.
Non riguarda solo l’Italia, anzi dall’estero ci vengono molte suggestioni di lavoro.
Ne vogliamo parlare? Possibilmente senza tifoseria?
Fare comunicazione è costruire democrazia. Il caso dei media comunitari in America Latina
Non è una novità affermare che i mezzi di comunicazione giocano un ruolo sempre più importante nelle decisioni politiche ed economiche statali e internazionali, costituiscono quel quarto potere che costruisce la realtà sociale attraverso la sua rappresentazione egemonica, legittimata e naturalizzata con il controllo della produzione e della circolazione delle informazioni. Le lotte simboliche che si giocano nel campo della comunicazione sono a tutti gli effetti battaglie politiche strettamente legate alle condizioni materiali delle società in cui si sviluppano.
Già a partire dagli anni Sessanta, i movimenti sociali si sono progressivamente imposti come attori collettivi che partecipano a tali lotte simboliche, decostruendo il senso comune, proponendo alternative al pensiero unico e aprendo il dibattito nell’opinione pubblica attorno a temi di rilevanza generale come la giustizia, i modelli di democrazia, la redistribuzione della ricchezza, lo sfruttamento ambientale, la libertà d’espressione, i diritti delle minoranze etniche, sessuali, religiose.
I media digitali legati al web si sono dimostrati un potente strumento per la convocazione e diffusione dell’azione collettiva, in particolare a partire dall’ultimo ciclo di mobilitazioni aperto nel 2011 con le cosiddette primavere arabe, Occupy Wall Street, il movimento spagnolo 15M e quello studentesco in Cile, passando per le oceaniche manifestazioni di Passe Livre in Brasile nel giugno 2013, e fino al movimento contro la violenza sulle donne NiUnaMenos esploso un anno fa nelle piazze di più di 150 città in tutto il mondo.
In un contesto di crisi di sovranità degli Stati nazionali e di impoverimento delle strutture rappresentative, democratizzare la comunicazione – definita diritto umano universale dall’UNESCO già nel lontano 1980 con il rapporto MacBride – diventa una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per accedere alla rivendicazione di altri diritti.
In America Latina l’urgenza di riappropriarsi della parola pubblica da parte di ampli strati della società civile è associata alla fine delle dittature che hanno insanguinato la regione durante gli anni Settanta; la necessità di ricostruire i legami sociali ed esercitare la libertà d’espressione ha contribuito in quel momento alla diffusione delle radio comunitarie e popolari, diretta espressione della voce dei quartieri, delle organizzazioni di base, degli strati sociali storicamente occultati e marginalizzati.
Che Guevara parla a Radio Rebelde durante la rivoluzione cubana
Assieme al ciclo di governi progressisti nella regione, negli anni Duemila si è aperta una breccia perché la comunicazione come diritto umano da proteggere e regolamentare trovasse posto nell’agenda delle istituzioni pubbliche, storicamente subordinate alla produzione mediatica privata commerciale, nelle mani di pochi gruppi imprenditoriali che hanno superato indenni gli ultimi cinquant’anni facendo accordi tanto con le giunte militari che con i governi neoliberisti che le hanno succedute.
È stata la spinta dal basso del settore mediatico socio-comunitario, che fino al 2004 si è sviluppato nell’illegalità, a promuovere la riforma giuridica dei sistemi delle comunicazioni in Venezuela (2004 e 2010), Uruguay (2007 e 2010), Argentina (2009), Bolivia (2011), Ecuador (2013) e infine México (2014). Le nuove leggi, seppur diverse tra loro, hanno in comune il riconoscimento dei media comunitari come prestatori di servizi di comunicazione audiovisuale senza fini di lucro e con caratteristiche proprie, che li distinguono sia dai media statali di servizio pubblico che dal privato commerciale, e in alcuni casi prevedono la riserva di una quota delle frequenze radiotelevisive nazionali e il sostegno economico attraverso finanziamento pubblico.
Radio Rebelde
I media comunitari, alternativi e popolari rappresentano oggi in tutta l’America Latina un movimento sociale diffuso e radicato nei territori, che mette i suoi microfoni e i suoi schermi al servizio delle lotte e delle rivendicazioni dei lavoratori, dei popoli indigeni, dei settori popolari e delle donne, ma che allo stesso tempo è promotore della campagna per un’informazione equa e democratica, che possa contendere l’egemonia culturale ai grandi proprietari mediatici contrapponendogli un modello partecipato, orizzontale, collaborativo e solidale del fare comunicazione.
Populismi Contemporanei. XIX – XXI secolo
Descrizione dell’eBook
Il populismo è in ascesa (in Europa, come in America latina e negli Stati Uniti). Le nostre democrazie sono in un momento cruciale della loro storia e la forma in cui per quasi un secolo e mezzo le abbiamo conosciute ed abitate, si rivela probabilmente inadeguata a contenere ed esprimere le esigenze ed i fermenti di società in costante mutamento.
Conosci l’autrice
Sara Gentile insegna Scienza politica e Analisi del linguaggio politico all’Università degli studi di Catania. Collabora con l’Università di Cagliari per un master sulla mediazione interculturale. È professeur invité al CEVIPOF di Sciences Po di Parigi, dove svolge prevalentemente le sue ricerche. Ha una proficua collaborazione con la associazione Historia. Temi di analisi e di ricerca prevalenti: Populismi e crisi della forma democratica. Comunicazione, rituali e linguaggi dei leader politici.
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