La nascita del Comitato di Solidarietà con Solidarność a Torino
Capitolo 7
Il generale ci ha dato i manganelli per picchiarvi. Possiamo farlo quando vogliamo. Abbiamo il diritto di uccidervi. Il popolo ce lo chiede.
Un rapporto sempre più stretto
Nell’autunno del 1981 un centinaio di ragazzi, figli degli operai della Fso Varsavia sono accolti per un mese a Torino, ospiti di famiglie di iscritti e simpatizzanti della Cisl. Il coordinamento dell’iniziativa è affidata a Don Aldo D’Ottavio, sindacalista della Fim Cisl. Accompagna il gruppo Marek Majcher di Solidarność FSO.
Per l’occasione viene fondato il Comitato Solidarność Varsavia-Cisl Torino, con sede presso la Cisl torinese. Grazie all’ottimo risultato ottenuto nasce l’Asapi, Associazione per lo sviluppo dell’amicizia italo-polacca, che intendeva organizzare un soggiorno in Valle d’Aosta nell’estate successiva. Il progetto, a causa del colpo di Stato, non si realizzerà.
Il Comitato di Solidarietà
L’accoglienza ai bambini intesse una rete di solidarietà tra famiglie italiane e polacche, che, su iniziativa della Comunità polacca di Torino e in seguito alla richiesta di sostegno internazionale di Lech Wałęsa, conduce alla fondazione su iniziativa della Comunità Polacca di Torino, nel novembre 1981, del Comitato di Solidarietà con Solidarność.
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Le immagini proposte in questo pannello, un documento dell’Asapi e due foto, riguardano l’iniziativa di gemellaggio che ha portato alcuni bambini polacchi in Italia e alcuni bambini italiani in Polonia.
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«II “Comitato Solidarność Varsavia-CISL Torino” intende organizzare un primo soggiorno turistico-culturale in Italia di quattro settimane (ottobre 81) per figli di lavoratori di Varsavia. […]
Aprire occasioni di vivere una realtà diversa dalla propria, conoscere e rapportarsi con un altro ambiente e cultura, intrecciare contatti umani più ampi della solita cerchia, è senz’altro positivo anche per i giovani perché aiuta ad uscire dal chiuso della propria esperienza, come hanno potuto verificare i militanti torinesi che sono stati in Polonia.»
Dal documento redatto dal Comitato Solidarność-CISL, Via Barbaroux, 43 – TORINO
«Varsavia, 10 dicembre 1981
Cara Famiglia,
desideriamo farVi pervenire i più sinceri ringraziamenti per l’ospitalità che avete dato ai nostri bambini, per la disponibilità, la generosità e il tempo che avete loro dedicato.
Ci rendiamo conto che ospitare i bambini per un mese nella Vostra casa abbia rappresentato un notevole impegno e sforzo, come pure abbia portato parecchio scompiglio nella Vostra vita. I bambini si trovavano nella Vostra casa molto bene e continuano a raccontarci degli episodi bellissimi della loro permanenza, ma il ricordo più bello è l’enorme cordialità e amicizia che hanno da Voi conosciuto.»
Dalla lettera scritta dopo il colpo di Stato, ma predatata, quando ancora il sindacato non era illegale, da Marek Majcher, resp. della stampa Nszz Solidarność in FSO, e Andzej Puścian, resp. Nszz Solidarność in FSO
Consigli di lettura
Solidali con Solidarność. Torino e il sindacato libero polacco. Di seguito la Fondazione propone in formato cartaceo un volume edito da Franco Angeli che riflette sulla vicenda di Solidarność, e ne studia le ripercussioni sul contesto italiano.
Di particolare interesse il rapporto che si instaurò a Torino con le grandi organizzazioni sindacali confederali e le problematiche che ne derivarono. In un contesto di forte conflittualità sociale, i lavoratori e i sindacati torinesi espressero, pur talvolta con reticenze e diffidenze, slanci di generosa e autentica solidarietà che li legarono idealmente e concretamente a molti polacchi.
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
Insegnare la politica. Il ruolo delle scuole di partito nell’incontro fra alto e basso
La disobbedienza civile nasce dagli ideali da affermare e non dagli interessi da difendere
Il passato al presente. Raccontare la storia oggi
Kit didattico: La propaganda e la società di massa nel 900 (II grado)
Proposta percorso scuole secondarie di II grado
Dal 1917 in Russia, la propaganda diventa il mezzo dello Stato per parlare non solo della condizione materiale, ma anche della condizione morale. Perché il futuro migliore non è solo quello con più risorse, ma anche quello in cui si realizza la condizione di equilibrio tra benessere materiale e felicità. Una condizione, questa, che fa da sfondo a un lungo processo maturato nel corso del Novecento: la progressiva urgenza del problema del limite alle risorse come inquietante limite alla felicità.
Questo processo conosce un primo punto di svolta con la crisi energetica dei primi anni Settanta, quando inizia la sfida per pensare a un altro sviluppo e dotarsi di un’altra immagine utopistica di futuro. L’arte di regime diventa il mezzo per realizzare questi intenti e attraverso le sue opere deve far apparire l’URSS come “il paese più felice del mondo”.
Il kit didattico affronta quindi questo tema, i suoi sviluppi e la sua evoluzione dalla Rivoluzione di Ottobre fino ai tempi recenti di Putin. In particolare, i contenuti sono sviluppati per analizzare il codice visivo che fu il mezzo predominante, soprattutto nell’età staliniana, di diffusione dei messaggi politici e dei modelli di comportamento promossi dalla nuova ideologia comunista.
Insegnare la politica. Il ruolo delle scuole di partito nell’incontro fra alto e basso
A’interno dell’indagine sui luoghi di formazione politica curata da Rosa Fioravante (Sapere e Potere/1, Sapere e Potere/2) abbiamo chiesto ad esponenti dei partiti di massa novecenteschi come si incontravano il polo del sapere e quello della decisione politica e che funzione avessero i luoghi di formazione rispetto alla qualità della democrazia:
Valdo Spini \ Psi
Nel Psi l’attività di formazione quadri non è un continuum, ma una serie di esperienze che si sviluppano e si interrompono a seconda della linea e dell’impostazione del gruppo dirigente del momento. Per il Psi in genere attività di formazione corrisponde ad affermazione di autonomia ideologica del partito.
Non è casuale che un’attività di formazione venga intrapresa dal segretario del Psi, Lelio Basso (1947) che pur nell’unità d’azione col Pci portava un libertarismo che si richiamava a Rosa Luxemburg. Dopo molti anni di interruzione, il Psi del “nuovo corso” che si era dato nel 1978 come manifesto politico il “Progetto Socialista” approvato al Congresso di Torino del 1978, istituisce una responsabilità della Formazione Quadri e la affida a chi scrive.
Siamo nel pieno dell’asse tra gli autonomisti di Bettino Craxi e la sinistra lombardiana guidata da Claudio Signorile, e nel progetto socialista sono protagonisti i collaboratori di Antonio Giolitti, cioè Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo. Rotta la maggioranza Craxi-sinistra lombardiana questa attività non viene ripresa.
Le iniziative di formazione si rivolgevano innanzitutto a giovani quadri, in genere intellettualmente preparati, anche per costituire un quadro dirigente in grado di affrontare più modernamente le campagne elettorali (nel nostro caso quelle politiche e le prime europee a suffragio universale del 1979). Ma spesso dirigenti delle federazioni provinciali che volevano uscire dal loro guscio e farsi un’esperienza sui temi della grande politica nazionale ed europea. In genere, riguardavano i protagonisti della stesura del Progetto Socialista di Torino, che costituiva la base della nostra attività. Quindi i politici che vi avevano più direttamente partecipato, come Luigi Covatta e lo tesso Claudio Martelli, intellettuali come Amato, Ruffolo, Gino Giugni, Enzo Cheli,Francesco Forte Alberto Spreafico, Gianfranco Pasquino, Franco Bassanini, Aldo Visalberghi, Andrea Saba, Federico Mancini, sindacalisti come Giorgio Benvenute e Mario Didò. Molto curata era la formazione sulle questioni europee con lezioni di personalità come Gerardo Mombelli, Riccardo Perissich. Ennio Di Nolfo, Bino Olivi, lo stesso Mario Zagari, Aldo Ajello.
Bisogna precisare che la progettazione e lo svolgimento veniva seguito, naturalmente su base volontaria da un team di esperti in formazione, Cesare Vaciago, Gianluigi Testa, Alfredo Giglioli, Stefano Rolando, Gian Felice Ceriani. Questi esperti ci avevano spiegato l’importanza di elementi come la residenzialità dei corsi di formazione, l’impronta seminariale, l’impostazione attiva dei seminari stessi, l’importanza cioè che tutti, nei vari seminari, prendessero la parola e si confrontassero
Nei nostri corsi di formazione quadri i percorsi per giovani erano integrati. Bisogna però tener conto peraltro che il Psi aveva una federazione giovanile (Fgs poi FGSI), spesso su di una linea politica diversa da quella del partito, che costituiva di per sé nella sua autonomia una scuola importante di formazione politica.
I percorsi di selezione della dirigenza e della classe politica possibili erano due. O quello autonomo della federazione giovanile (io stesso posso testimoniarlo come segretario della Federazione Giovanile Socialista fiorentina) o quello delle segreterie dei maggiori esponenti politici e delle loro correnti. Per me era di gran lunga preferibile il primo, almeno quello che come molti altri, ho praticato a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta.
Oggi nulla si sta sostituendo a quello sforzo di formazione, non nella stessa misura e nella stessa intensità dell’azione formativa personale. Nel 2017 si è svolta un’intensa attività di formazione quadri nel Pd, per esempio, ma l’autonomia formativa veniva di fatto sovrastata dal comizio televisivo del leader o dei leader rivolti prevalentemente e televisivamente vero l’esterno. I giovani quindi come cornice televisiva, sull’esempio un po’ berlusconiano.
L’importanza delle scuole di formazione si avverte particolarmente nella mancanza oggi di quadri capaci di attivare un vero dibattito politico interno e quindi capace di attrarre interessi e confluenze dall’esterno. Formazione significa condivisione di cultura e di conoscenze, quindi attivazione di meccanismi di partecipazione non di mero consenso. La mancanza di un dibattito politico adeguato alla drammaticità dei problemi odierni viene proprio da questa carenza.
Cfr. in genere “I quadri del Psi”, Quaderni del Circolo Rosselli, anno I, n.1, a cura di V. Spini e S. Mattana, Nuova Guaraldi editrice, Firenze
Pierluigi Castagnetti \ Dc
La DC disponeva, come tutti i partiti popolari, di un apparato di formazione, questo perché tutti i partiti popolari sentivano la responsabilità di educare alla democrazia. Dopo l’entrata in vigore della Carta Costituzionale si avvertiva l’esigenza di educare il popolo italiano, il quale non aveva memoria condivisa della democrazia, in quanto la democrazia liberale pre-fascista era elitaria e dunque le grandi masse erano escluse da un’educazione a questo sistema politico. C’era un grande bisogno di queste attività, che erano affidate all’ufficio propaganda SPES, un’invenzione del vicesegretario nazionale Dossetti, vice di De Gasperi. Dossetti si pone il problema dell’educazione delle masse popolari, che si fa attraverso una produzione sterminata di foglietti e strumenti divulgativi. Sono rivolti alla base “più o meno”: nel senso che sono rivolti alle masse cattoliche, che rientrano in un concetto più ampio di coloro che sono politicizzati iscritti al partito.
Dunque era formazione, educazione e propaganda: si propagandavano le battaglie del partito, anche perché i giornali avevano tirature modeste e la tv non c’era ancora. Gli strumenti di propaganda andavano dalle pubblicazioni per giovani e ragazzi – era stato coinvolto anche il vignettista Jacovitti – ma anche i filmati, che si proiettavano con furgoncini attrezzati che giravano i paesi con un tecnico operatore. Erano filmati di informazione e formazione di base, didattici, con un linguaggio curato sotto il profilo didattico. La DC si distingue tuttavia da PCI e PSI perché la formazione di base sotto il profilo ideale, culturale e morale è svolta principalmente dal mondo cattolico: sono le organizzazioni cattoliche che educano all’impegno politico. Le parrocchie facevano serate riservate ai giovani con dei professori che spiegavano cosa fosse la democrazia, la libertà, la dottrina sociale della Chiesa ecc. sotto forma quindi di attività collaterali alla DC ma organizzate autonomamente dalle associazioni. Servivano non solo a formare ma anche a selezionare il personale che si riteneva particolarmente preparato e adatto, così poteva essere poi candidato alle amministrative, tenendo conto nelle liste di giovani acculturati, diplomati, laureati ecc. che avevano evidenziato durante le serate formative qualche forma di attitudine, interesse, intelligenza politica ecc. L’attività si configurava così perché le organizzazioni ecclesiali erano collaterali alla DC, benché la DC si professasse aconfessionale tuttavia il mondo cattolico era il bacino più importante anche se non esclusivo, ma anche per un presupposto ideologico (sebbene non si possa parlare di ideologia nel caso della cultura cattolica). Il presupposto culturale era che il partito non avesse una soggettività primaria ma secondaria: la soggettività primaria era della società che è il luogo dove si formano i valori, si costruiscono e la politica deve rispettarla. Il partito non ha iniziative di formazione intorno ai valori ideali, al contrario del PCI che faceva formazione totale, ma vi è una divisione dei compiti: lo Stato viene dopo la società, come sostenne Don Luigi Sturzo che icasticamente sosteneva che lo Stato è la forma organizzativa della società, un pensiero che per i cristiani vale ancora oggi. Dunque il compito di formazione ideale, culturale e morale è assolto dalla Chiesa.
Il Partito si concentra maggiormente sulla formazione dei quadri dirigenti e in particolare degli amministratori: questi ultimi richiedono una competenza che evoca conoscenze molto specifiche, di tecnica amministrativa che deve essere padroneggiata dal personale che si candida e che deve conoscere i meccanismi di funzionamento delle realtà locali, provinciali ecc. Vi era poi una formazione ancora più raffinata per i giovani: a livello periferico, provinciale ecc. si tenevano corsi con amministratori qualificati (es. sindaci) o professionisti con varie competenze specifiche (es. finanza, urbanisti, gestori dello Stato sociale ecc.) che trasmettevano competenze al settore di riferimento.
Ad un ultimo livello si poneva la scuola di formazione dei quadri dirigenti alla Camilluccia, in una villa attrezzata sia per la residenza che con aule didattiche, dove andavano i dirigenti più bravi e dove si tenevano corsi di formazione ulteriori di circa una settimana, più leggeri di quelli che si tenevano a Frattocchie. Il direttore della Camilluccia per molti anni è stato il Dottor Giacomo Cesaro, uno dei più importanti ghost writer dei segretari della DC che veniva da Azione Cattolica, uno degli intellettuali puri. Era parte del gruppo di giovani di Azione Cattolica che vengono considerati ad un certo punto eterodossi e vengono espulsi, fra di loro c’erano anche Umberto Eco, Vattimo, Mario Rossi.
Negli ultimi decenni già nella DC le cose cambiarono. L’avvento del sistema informativo televisivo ha modificato tutti i processi di informazione e quindi di formazione e la DC se ne accorge tempestivamente: negli anni ’50, alla nascita della tv, in ogni sezione DC viene regalato un televisore che è visibile anche ai non iscritti quando la sezione è aperta. Ci si accorse subito di che mezzo formativo di opinione pubblica fosse. Oggi non è pensabile replicare nulla di quel mondo, però una formazione che consentisse di selezionare anche il personale politico, soprattutto i giovani, con strumenti adattati, attraverso delle scuole interattive in cui ci sia possibilità di parlare ma anche ascoltare da parte del partito, e così di trovare talenti e orientare dal punto di vista etico, sarebbe utile. Oggi dal punto di vista etico il personale politico non ha alcun filtro, mentre la competenza tecnica oggi indispensabile viene acquisita con altri strumenti: ci sono più laureati e competenze, ma vi è il delicato problema dell’alfabetizzazione politica delle nuove generazioni. I giovani sanno tutto dei social e delle nuove tecnologie ma non sanno niente della politica rispetto a come funzioni, a quali devono essere le condizioni per esercitare attività politica, né sanno molto di storia contemporanea, non sanno quale è stato il ruolo dei partiti che hanno fatto la Resistenza e la Carta Costituzionale. La Costituzione non si insegna nelle scuole e nelle università ma è formazione di base. C’è bisogno quindi di alfabetizzazione politica ed educazione a ragionare politicamente, che vuol dire non individualisticamente, utilizzando uno sguardo largo sul mondo; ciò che accade oggi è frutto del fatto che non lo si fa più.
Luigi Vinci \ Pci
In premessa generale: Può, forse, essere utile una collocazione delle attività di formazione operate dal PCI nel quadro più generale delle sue attività, dei suoi obiettivi, della sua cultura generale, della sua partecipazione a un movimento mondiale. La formazione, in senso proprio, cioè quella operata con specifiche iniziative, era nel PCI di pertinenza della Commissione (o Ufficio) di organizzazione: quindi, non dell’ultima delle commissioni, ma di quella di gran lunga più importante (in ogni partito comunista serio). Non a caso essa inizialmente fu retta (dal 1945 al 1948) da Luigi Longo, cioè dal numero due del partito, in quanto vicesegretario generale, poi, (dal 1948 al 1955), da Pietro Secchia, anch’egli in quegli anni in tale ruolo apicale. Successivamente diventeranno responsabili di quella commissione figure, per esempio, come quelle di Giorgio Amendola o di Giorgio Napolitano, talmente potenti, aggiungo di passata, da riuscire a contrastare efficacemente dentro alla segreteria nazionale Enrico Berlinguer.
Sin dall’inizio dell’attività legale in Italia, sostanzialmente, cioè dal 1944 nella parte dell’Italia liberata dalle forze armate statunitensi, britanniche, ecc., il PCI cominciò a disporre di quantità sempre più ampie di opuscoli (soprattutto) e testi più corposi prodotti in lingua italiana dall’Unione Sovietica (lo stesso accadeva a ogni altro paese europeo liberato dalle forze occidentali o dall’Armata Rossa). Soprattutto si trattava di scritti o di estratti di scritti di Lenin; a volte, di Marx o di Engels. Di Stalin c’era molto poco, ma perché poco esisteva di suoi scritti. Poi, a par-tire dalla fine della guerra, il PCI comincerà a produrre materiali in proprio di questo tipo, guar-dando soprattutto alla produzione gramsciana ma anche a quella togliattiana. Usciranno parimenti scritti di Longo, di Secchia, di Curiel, di Laiolo (a Milano: di Vaia, di Pesce) riguardanti la guerra di Spagna, la Resistenza, ecc.
Giova connettere la formazione anche a strumenti di massa, o, comunque, orientati a segmenti più o meno ampi di pubblico o a sue figure sociali particolari. Anzi il quotidiano l’Unità (già clandestino) riapparve in forma legale prima della fine della guerra, nel gennaio del 1945, edito a Roma. Uso il termine “formazione” perché l’orientamento delle produzioni cartacee pubbliche del PCI non furono mai esclusivamente propagandistiche, determinate solo da polemica politica, ecc.: l’elemento didattico era sempre presente, in una forma o nell’altra. A l’Unità poi si saldarono strumenti più o meno importanti e diffusi. Tra quelli che più lo erano va collocato il settimanale Rinascita, di ottima qualità, ma anche accessibile a una quota non ridotta di militanza o di simpatizzanti. Importante era il mensile Politica ed Economia. Lo strumento forse più impegnativo sarà il bimestrale Critica marxista, che comincerà le uscite nel 1963. Altri strumenti furono il trimestrale Calendario del popolo, di cultura generale e rispondente alle attese di cultura della massa militante. I giovani comunisti (la FGCI) disponevano di un settimanale, Nuova generazione. Esistevano parimenti strumenti locali; l’Unita disponeva di pagine locali. Esistevano strumenti, chiamiamoli così, di tendenza, come, per esempio, Paese sera a Roma o il bimestrale Nuovi argomenti. Esistevano inoltre strumenti “unitari”, partecipati sia dal PCI che dal PSI, come il setti-manale Noi donne dell’Unione donne italiane. A ciò si aggiungeva una miriade di fogli locali di vario genere, audience e qualità.
La formazione in senso proprio, ma anche in senso lato era, analogamente, di moltissimi tipi. Ogni organismo, le sezioni territoriali stesse, di partito, le federazioni, ecc. si ingegnavano periodicamente in attività didattiche o seminariali di base, orientate agli iscritti, o ai loro quadri, oppure ai giovani della FGCI. I “docenti”, per così dire, erano spesso figure appartenenti a quegli organismi. A me capitò, unico studente del mio circolo giovanile, di presentare ai miei compagni (dopo essermeli letti nei giorni precedenti) il Manifesto del Partito Comunista di Marx e di Engels, Stato e rivoluzione di Lenin, La questione meridionale di Gramsci. Fortunatamente dopo la prima lezione fui accompagnato da un insegnante iscritto alla sezione di partito, onde superare i limiti assoluti delle mie esposizioni. Parimenti le assemblee di sezioni di partito o di circoli della FGCI venivano periodicamente visitate da dirigenti locali, o da intellettuali di partito, che introducevano, rispondevano a domande, fornivano e commentavano la linea, su ogni ordine di questioni essi ritenessero necessarie o su richiesta della platea.
Giova accennare a come attività analoghe venissero svolte, in concreto sodalizio con il PCI (e, fi-no al 1956, anche con il PSI) dalla CGIL.
I giovani soprattutto, inoltre gli operai, i braccianti, i contadini e i mezzadri poveri, costituivano l’oggetto privilegiato e di gran lunga più corposo dell’attività formativa di partito. Giova rammentare che all’inesperienza dei giovani si univa la strumentazione concettuale e linguistica molto elementare delle figure proletarie, che costituivano la stragrande maggioranza della militanza e la più attiva e disinteressata. La maggior parte degli operai non era andata oltre la scuola elementare, le componenti contadine spesso erano composte da analfabeti o semianalfabeti. Non di rado alle iniziative di formazione venivano associati brevi corsi di grammatica, aritmetica, lingua, ecc.
Accanto alle iniziative locali operavano consistenti attività, in più forme pratiche, su scala più ampia. Di ciò si occupavano le istanze, giovanili o di partito, federali (cioè, provinciali) o nazionali. Giova segnalare come buona parte delle iniziative riguardasse il contesto politico-sociale e la sua analisi critica, inoltre il contesto internazionale. In breve, si trattava di una formazione prima di tutto politica il cui fine era, accanto all’acquisizione di cognizioni, anche quella più ampia possibile della “linea” e delle analisi del partito. Momenti critici particolari, come le rivolte operaie e popolari del 1956 in Ungheria e Polonia e la successiva tragedia ungherese, poi il conflitto politico aspro tra Unione Sovietica e Cina Popolare ai primi anni sessanta, richiesero supplementi intensi di attività orientate all’adesione a spesso scosse convinzioni nella militanza, in quella intellettuale in specie, così come all’adesione a correzioni delle posizioni tradizionali del partito, del tipo, per esempio, dell’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti, nell’estate del 1964, a pochi giorni dalla sua scomparsa.
Operavano, infine, alcuni livelli più impegnativi della formazione, dedicati in genere al quadro locale. Il PCI disponeva di una miriade (nove, mi pare di ricordare) istituti di partito in grado di ospitare (soprattutto, per una settimana: ma potevano essere fino a un mese, oppure essere articolati lungo un intero anno, ecc.); il pubblico era composto da quadri di base, fossero essi giovani od operai o, anche, donne ecc. La scuola centrale era sita nella frazione romana delle Frattocchie; a Milano operava una Scuola centrale di partito. La materia era costituita, più che dalla contestualità politica, o dalla chiarificazione o comprensione della linea, da elementi di teoria. Venivano cioè esposti, argomentati, discussi, chiariti gli elementi di base della teoria marxista-leninista, sia nella sua forma canonica che, all’occorrenza, nella sua semi-variante togliattiana. Di Gramsci, data la difficoltà dei suoi Quaderni del carcere, c’era poco: l’analisi del dualismo socio-economico italiano, le Tesi di Lione e cioè la sua anticipazione di una “via italiana al socialismo”. In tema di politica economica erano offerti rudimenti di base, di scuola marxista ma anche, di fatto, neoclassica. Inoltre, la materia era orientata all’esposizione, alla comprensione, ecc. degli elementi base del materialismo storico, più nella sua versione tardo-engelsiana che in quella sua, troppo complessa, marxiana, così come dei caratteri politici e strutturali del capitalismo contemporaneo, tratti dall’Imperialismo di Lenin. Infine, la materia era orientata al consolidamento della comprensione dell’appartenenza del PCI a un grande movimento rivoluzionario internazionalista mondiale a guida sovietica, così come della conseguente necessità di una disciplina ferrea e di un’obbedienza assoluta alle direttive di partito. I docenti erano quadri qualificati, spesso nazionali, di partito, oppure suoi intellettuali. Qualche esempio: Luciano Barca faceva scuola di economia, Pietro Ingrao di democrazia, socialismo e loro assetti istituzionali, Giorgio Amendola o Emanuele Macaluso di questione meridionale.
I risultati: in genere, una superiore fidelizzazione dei partecipanti, una carica di entusiasmo, dato anche il fatto di incontrarsi tra compagni di realtà diverse; l’avvio anche, per non pochi, di una carriera di funzionari di partito, o, anche, sindacali. Nacquero anche non pochi fidanzamenti.
Giova aggiungere un elemento complementare molto importante della formazione (via via rimosso dal PCI stesso, sulla scia del venir meno del rapporto semi-militare e fideistico all’Unione Sovietica): il fatto della partecipazione di decine di migliaia di militanti, giovani, proletari, ecc., talora di studenti, alle scuole di partito in Unione Sovietica così come alle sue università (molto meno in Cecoslovacchia). Questi militanti erano ospitati in ostelli o complessi universitari. I programmi delle scuole di partito erano il marxismo-leninismo, il materialismo storico, l’imperialismo, il “socialismo reale”, ecc.; quelli delle università, accanto a queste materie, propri delle varie facoltà, tutte di tipo scientifico. I periodi di questa partecipazione potevano essere, i più brevi, di un anno; più facilmente, di due o, anche, di tre anni. Giova aggiungere come prima del 1945 l’emigrazione italiana in Unione Sovietica avesse largamente partecipato a scuole di formazione militare, i cui periodi era di due o tre anni, e da cui sortivano con brevetti di ufficiali anche molto elevati. Più in generale, una quantità enorme di giovani o di operai o di contadini dell’intero pianeta si formarono per decenni, politicamente e militarmente, in questo modo. Ovviamente, la progressiva separazione del PCI dall’Unione Sovietica porterà alla sospensione anche di ogni formazione di italiani in questo paese. So per certo, in ogni caso, che questa sospensione avverrà solo a metà anni sessanta.
In ultimo: il tardo PCI si caratterizza per un’estinzione graduale di tutto quanto in materia. L’ultimo periodo di una loro certa intensità è quello della segreteria di Luigi Longo, uomo molto legato all’Unione Sovietica (inoltre, titolare di brevetto di generale dell’Armata Rossa, ottenuto in Unione Sovietica: non a caso, quindi, in grado di gestire i volontari stranieri nella guerra civile spagnola). Enrico Berlinguer tenterà, a un certo momento, un rilancio delle scuole di partito. Con la svolta della Bolognina di tutto ciò si perderanno le tracce.
La disobbedienza civile nasce dagli ideali da affermare e non dagli interessi da difendere
Nell’immagine, un’illustrazione della presa della Bastiglia (1789)
Nel 1789 venne redatta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e Tzvetan Todorov, come ci ricorda Giorgio Fontana, ne sottolinea il paradosso: “non è mai contemplata” infatti “la possibilità di un conflitto tra i diritti dell’uno e dell’altro”.
Cosa accade, invece, se i due diritti entrano in conflitto? Se il fatto di rispettare le leggi di uno Stato e di ottemperare ai propri diritti e doveri di cittadino finisce per contrastare con un principio che sentiamo più alto, la tensione etica a farsi carico di una vita nella sua “nuda” umanità?
La domanda ha una storia antica, che con un salto di migliaia di anni potrebbe portarci fino allo scontro tragico tra Antigone e Creonte: da un lato, le leggi non scritte degli dei e, dall’altro, la ragion di Stato.
Antigone condannata a morte da Creonte, Diotti Giuseppe, 1845
Per fermarci al Novecento, il cortocircuito tra uomo e cittadino ci riporta invece alla riflessione proposta da Hannah Arendt nelle pagine de Le origini del totalitarismo, dove illustra il paradosso che si accompagna alla nozione di diritti umani: su un piano formale, essi dovrebbero essere validi per ogni essere umano, tuttavia – spiega Arendt – se un uomo perde il suo status di cittadino, perde di conseguenza anche la tutela dei diritti inalienabili. Il dramma degli apolidi mostra come i diritti umani valgano solo a condizione che si venga riconosciuti da uno Stato sovrano garante del diritto: “I diritti umani si sono rivelati inapplicabili (…) ogni qual volta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di nessun stato sovrano”.1
Riflessioni queste che arrivano dritte a noi, stanno sull’immediato presente e ci parlano di tutte quelle vite che, varcata una frontiera, faticano a trovare intelligibilità giuridica e legittimità politica.
Di fronte a quelle vite in transito, destituite delle prerogative di cittadinanza, dovremmo chiederci quale sia l’origine della nostra obbligazione reciproca, della nostra responsività, della responsabilità intesa in primo luogo come capacità, appunto, di rispondere all’altro e di riconoscerne la dignità?
Intervenuto al Festival della letteratura di Mantova, Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che ha preso parte al film documentario Fuocoammare e autore del libro Lacrime di sale, ha detto “continuerò a fare il mio lavoro, anche se mi sta costando tantissimo, perché credo che sia giusto, doveroso, dare un’identità e una dignità a dei corpi, anche solo a delle ossa”.
Possiamo davvero demandare quest’implicazione etica al piano formale del diritto? O c’è qualcosa che precede l’istituzione della legge e della “persona giuridica”?
E se le azioni che discendono da quel vincolo originario – che ci lega gli uni agli altri per il fatto di essere umani, fatti della stessa carne – entrano in contrasto con quanto previsto dalle leggi dello Stato, come comportarci?
Nel febbraio scorso, il contadino francese Cédric Herrou venne condannato per aver aiutato degli immigrati irregolari ad attraversare il confine con l’Italia. Davanti al tribunale di Nizza sostenne: “Se dobbiamo infrangere la legge per aiutare delle persone, facciamolo!”. Dobbiamo “impegnarci per rimettere al centro di tutto gli esseri umani”.
Cédric Herrou
Un “atto politico”, lo definisce lo stesso Herrou: un gesto di ribellione, di disobbedienza. Un esercizio pericoloso della libertà, per tornare ad Arendt e al suo modo di definire la “disobbedienza civile”.
Qui di seguito un estratto dal saggio di Hannah Arendt, Disobbedienza civile, edito da Chiarelettere, che ringraziamo pe la disponibilità.
Disobbedienza civile, pubblicato nel 1970 sulla rivista “New Yorker” (la stessa su cui nel 1963 aveva pubblicato i testi che compongono La banalità del male) è un testo in cui è un testo in cui Arendt si schiera dalla parte delle ragioni dei movimenti di protesta in corso in quel momento negli Stati Uniti, pur non condividendone spesso la cultura e l’ideologia, ma perché individua che la disponibilità ad associarsi sulla base dell’impegno reciproco a partecipare alle questioni di pubblico interesse – qui sta il nocciolo duro della “disobbedienza civile – significa praticare una “libertà pericolosa”. Significa spesso sfidare il luogo comune e aiutare la politica a “fare un passo avanti”, lavorando per la costruzione e la definizione di un nuovo “senso comune”. Significa, per riprendere una riflessione di Gandhi, sapere che “una legge non diviene ingiusta semplicemente perché io lo affermo. Lo stato ha il diritto di applicarla finché è contemplata nei codici, io devo resistere a essa in modo nonviolento. E lo faccio violando la legge e sottomettendomi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento”.
Hannah Arendt
Che cosa intendiamo con “disobbedienza civile”
La disobbedienza civile insorge quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più, che non viene più dato ascolto né seguito alle loro rimostranze o che, al contrario, il governo sta cambiando ed è indirizzato o ormai avviato verso una condotta dubbia in termini di costituzionalità e legalità. Gli esempi sono numerosi: si pensi ai sette anni di guerra mai dichiarata al Vietnam, alla crescente influenza dei servizi segreti sugli affari pubblici, alle esplicite o sottilmente velate minacce alle libertà garantite dal Primo emendamento , ai tentativi di privare il Senato dei suoi poteri costituzionali, a cui ha fatto seguito l’invasione della Cambogia decisa dal presidente nel pieno disprezzo della Costituzione che prevede che non si possa dichiarare guerra senza il consenso del Congresso; per non parlare dell’iniziativa ancora più vergognosa del vicepresidente di riferirsi agli attivisti della resistenza e del dissenso chiamandoli “avvoltoi e parassiti che dobbiamo impegnarci a estromettere dalla nostra società con non più dispiacere di quello che proveremmo nel buttar via le mele marce da un cesto”: un’affermazione che non lede solo le leggi degli Stati Uniti , ma di ogni altro ordinamento.
In altre parole la disobbedienza civile può essere posta al servizio di un cambiamento auspicabile e necessario o di un altrettanto auspicabile mantenimento e rispristino dello status quo; il mantenimento dei diritti garantito dal Primo emendamento o il recupero della stabilità di governo messa a rischio dal ramo esecutivo e dall’enorme crescita del potere federale a scapito dei diritti dei singoli Stati. In nessuno dei due casi la disobbedienza civile può essere equiparata alla disobbedienza criminale.
C’è una differenza sostanziale tra il criminale che cerca di sottrarre i propri atti agli sguardi della collettività e colui che pratica la disobbedienza civile sfidando la legge in maniera manifesta. Questa distinzione tra una violazione clandestina e una violazione aperta della legge, operata in pubblico, è talmente palese che può essere ignorata solo per pregiudizio o malafede. E’ riconosciuta da tutti i principali studiosi dell’argomento ed è chiaramente la base da cui partire per il riconoscimento della disobbedienza civile come compatibile con la legge e le istituzioni governative americane.
Il delinquente comune, anche quando agisce per conto di un’organizzazione criminale, lo fa per il proprio tornaconto, rifiuta di piegarsi al pare della maggioranza, cederà solo alla violenza delle forze dell’ordine. Al contrario chi pratica la disobbedienza civile, pur agendo in disaccordo con la maggioranza, opera nel nome e nell’interesse di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite per manifestare un dissenso non perché vuole fare un’eccezione per sé e beneficiarne come individuo.
Un esempio particolarmente eloquente del rapporto tra legge e cambiamento è rappresentato dalla storia del Quattordicesimo emendamento, che era stato concepito per tradurre in termini costituzionali il cambiamento ottenuto attraverso la Guerra civile. Cambiamento che non era accettato dagli Stati del Sud, tanto che per quasi un secolo la disposizione sull’uguaglianza razziale non entrarono in vigore.
Il Quattordicesimo emendamento entrò in vigore più tardi tramite l’azione giudiziaria della Certe suprema ma, per quanto si possa affermare che questa abbia sempre avuto la responsabilità di bloccare le leggi contrarie all’eguaglianza razziale, la verità è che nel caso specifico scelse di pronunciarsi solo quando i movimenti per i diritti civili – che per le leggi del Sud erano movimenti di disobbedienza civile a tutti gli effetti – avevano già cambiato profondamente la mentalità dei cittadini bianchi e di colore in proposito.
Non fu la legge ma la disobbedienza civile a portare allo scoperto il dilemma americano e, forse per la prima volta a obbligare la nazione a riconoscere non solo l‘enormità del crimine della schiavitù in sé ma anche della tratta degli schiavi che aveva ereditato, fra tante cose buone, dai propri predecessori.
1 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p 406.
Il passato al presente. Raccontare la storia oggi
Descrizione dell’eBook
La storia tradizionalmente l’hanno raccontata gli storici attraverso i libri.
Ma il passato ci raggiunge anche attraverso molte altre fonti, altri media e linguaggi: dalle lettere ai film, dai diari alle canzoni, dalle fotografie al web, fino ai luoghi della storia e i nostri stessi ricordi; tracce di memoria disperse nel nostro quotidiano che ci investono direttamente e in prima persona.
In questi brevi saggi Paolo Rumiz, Carlo Greppi e David Bidussa riflettono su cosa voglia dire raccontare il passato oggi, dentro e fuori le barriere cartacee del libro, rimettendo in primo piano il coinvolgimento attivo di chi finora la storia l’ha soltanto recepita passivamente, ma potrebbe forse tornare a viverla.
Conosci gli autori
Paolo Rumiz è giornalista de “La Repubblica” e “Il Piccolo” di Trieste. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti naviganti (2007), Annibale (2008), L’Italia in seconda classe. Con i disegni di Altan e una Premessa del misterioso 740 (2009), La cotogna di Istanbul (2010, nuova edizione 2015; “Audiolibri – Emons Feltrinelli”, 2011), Il bene ostinato (2011), la riedizione di Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia (2011), A piedi (2012), Trans Europa Express (2012), Morimondo (2013), Come cavalli che dormono in piedi (2014), Il Ciclope (2015) e, nella collana digitale Zoom, La Padania (2011), Maledetta Cina (2012), Il cappottone di Antonio Pitacco (2013), Ombre sulla corrente (2014).
Carlo Greppi è dottore di ricerca in Studi storici, collabora con Rai Storia – come presentatore, inviato e ospite – ed è membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”. Il suo libro L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (Donzelli 2012) ha vinto il premio “Ettore Gallo”, destinato agli storici esordienti. Per Feltrinelli ha pubblicato La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria (“Zoom”, 2015; in e-book) e Non restare indietro (“Kids”, 2016). Collabora anche con il blog culturale Doppiozero e con la Scuola Holden (Biennio in Storytelling & Performing Arts). Socio fondatore dell’associazione Deina e presidente dell’associazione Deina Torino, organizza da diversi anni viaggi della memoria e di istruzione, con i quali ha accompagnato oltre ventimila studenti provenienti da tutta Italia ad Auschwitz e in altri ex lager del Terzo Reich, alla scoperta della storia.
David Bidussa, storico sociale delle idee. È il responsabile delle attività editoriali e didattiche di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Ha pubblicato: La France de Vichy (Feltrinelli, 1997); I have a dream (BUR, 2006); Siamo italiani (Chiarelettere, 2007) Dopo l’ultimo testimone (Einaudi, 2009); Leo Valiani tra politica e storia (Feltrinelli, 2009). Ha curato Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci (Chiarelettere, 2011), La vita è bella di Lev Trockij (Chiarelettere, 2015) e Norberto Bobbio – Claudio Pavone, Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri 2015).Per Feltrinelli ha curato Il volontariato (con Gloria Pescarolo, Costanzo Ranci e Massimo Campedelli; 1994), per i “Classici” ha curato Fratelli d’Italia (2010) di Goffredo Mameli e ha scritto la postfazione a Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (2014). Ha collaborato al volume Sinistra senza sinistra (Feltrinelli, 2008) con la voce ‟Uso pubblico della storia”.
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