Competenze
Capitolo2
Una delle cose che la storia ci può insegnare è che gli uomini hanno convissuto insieme alle macchine perlomeno altrettanto bene, e probabilmente molto meglio, di quanto finora non abbiano imparato a convivere l’uno con l’altro. Ogni volta che nella società è stato introdotto un nuovo strumento – il telaio, il motore a combustione interna, il generatore elettrico – vi sono stati temporanei sconvolgimenti, confusioni ed ingiustizie. Ma col tempo gli uomini hanno imparato a creare ogni volta un ordine adatto alle nuove condizioni.
Elting Elmore Morison
1970
Progresso
Da sempre il progresso tecnico porta l’uomo a demandare alla macchina compiti e mansioni che venivano svolte in precedenza in prima persona. Questo processo ha provocato l’obsolescenza di alcune professioni ma ha fatto anche emergere la necessità di rispondere ad esigenze diverse, generando il bisogno di nuovi lavori e nuove figure lavorative.
Specializzazione
Se al tempo della fabbrica l’operaio veniva definito in base al pezzo o alla lavorazione in cui aveva trovato la propria specializzazione, oggi ai lavoratori sono richieste maggiori competenze o una maggiore versatilità per per stare al passo con le dinamiche evolutive prodotte dalla trasformazione digitale in corso. Nel pieno di una rivoluzione epocale della nostra società, per il lavoratore, oggi il rischio è rappresentato dal non essere in possesso di strumenti, conoscenze e competenze utili.
Orizzonti
Per questo, di fronte a percorsi professionali sempre più diversificati e mutevoli, è necessario ripensare l’offerta politica ponendola in connessione con le nuove sfide, re-immaginare i percorsi educativi al duplice fine di offrire occasioni di formazione permanente e aggiornare costantemente le proprie competenze non solo per una propria competitività nel mondo del lavoro ma anche per una più complessiva realizzazione e soddisfazione personale.
Guarda la photogallery
Il progresso tecnologico spinge il lavoratore ad acquisire nuove competenze. Soltanto in questo modo gli è possibile restare all’interno dei processi produttivi, che diventano sempre più specifici e complessi.
1. Augusto Osimo, Relazione-progetto per l’istituzione di scuole-laboratorio d’arte applicata all’Industria, Tipografia degli operai, Milano, 1903, p. 24.
“Non dimenticate mai la natura della materia che adoperate e cercate di adoperarla nel modo migliore: se vi sentite intralciati da essa, invece di ricevere aiuto, vuol dire che non sapete ancora il vostro mestiere. Somiglierete in tal caso a un sedicente poeta che si lamenta delle catene impostegli dal metro e dalla rima.”
2. Immagine tratta da Istituto tecnico industriale G. Feltrinelli, I cinquant’anni dell’Istituto industriale Giacomo Feltrinelli, Milano 1908-1958, Milano, 1958.
3. Ettore Fanelli, Comunità di lavoro per teorici e pratici, in La ricerca scientifica in Italia, Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1956, p. 30.
“Le grandi imprese, bene organizzate, dispongono di uffici tecnici di primissimo ordine, ciascuno dei quali deve, per necessità di cose, essere diretto da persona di provate capacità organizzatore e di maestro. Il teorico, che voglia contribuire alla redazione di progetti, potrà farlo solo dopo aver vissuto nell’ambiente dell’impresa, ne abbia conosciuta l’organizzazione, i metodi di lavoro, le necessità. Il progettista dovrà aiutarlo a impostare i problemi con l’approssimazione che giudica sufficiente e questa è la parte più ardua della collaborazione, e assicurarsi che non intraprenda lavori di calcolo per i quali occorra un tempo maggiore di quello di cui si dispone. Il ricercatore deve, a sua volta, ingegnarsi a interpretare il fenomeno, che gli viene richiesto di esaminare, nei modi voluti dal progettista, esporre i risultati in forma facilmente intelligibile e assicurarsi che egli li abbia rettamente interpretati”.
4. L’opera della Società Umanitaria dalla sua fondazione a oggi, Milano, Scuola del Libro, 1906.
Approfondimento
Guarda la puntata intitolata Tecnobarocco, della trasmissione Sapiens, condotta da Mario Tozzi e prodotta dalla RAI, dedicata alla tecnologia e ai suoi eccessi, frutto di uno sviluppo portentoso, compiuto in poco meno di 10.000 anni, che ha stravolto per sempre il pianeta e il nostro modo di vivere.
Scuola \ Scuola e Covid 19: tra remotizzazione e digitalizzazione
Mercato \ Il mercato dilaga. L’Europa soffre.
Crescita economica e sviluppo umano: un binomio cui non possiamo rinunciare
Altrilavori – Immagini dal pianeta 4.0
Scuola \ Scuola e Covid 19: tra remotizzazione e digitalizzazione
In molti paesi la chiusura di scuole e università è stata una delle prime azioni decise dalle autorità per limitare la diffusione della pandemia da Covid-19. Le attività scolastiche possono infatti diffondere il contagio, perché concentrano in una situazione di prossimità fisica molte persone, che poi fanno ritorno a casa, a volte con spostamenti su lunga distanza che coinvolgono il trasporto pubblico. Durante il periodo di chiusura, le attività scolastiche sono quindi proseguite a distanza, “da remoto”.
È importante, a questo proposito, non confondere la remotizzazione della scuola con la sua digitalizzazione. La digitalizzazione consiste nell’utilizzo di strumenti digitali per sostenere e potenziare la normale didattica in presenza, mentre la remotizzazione consiste nell’abolizione della presenza e nel passaggio completo delle attività didattiche alla modalità remota. La digitalizzazione della scuola procede ormai da tre decenni, mentre la remotizzazione integrale delle attività scolastiche non sembra essere in nessun paese nell’agenda delle politiche dell’istruzione, in particolare per quanto riguarda la scuola dell’obbligo.
Tra le funzioni della scuola, infatti, non rientra solo la trasmissione di competenze cognitive, ma anche la socializzazione, cioè l’insegnamento delle regole e delle strutture di base dell’interazione sociale, processo che per sua stessa natura non può avere luogo che in prossimità. Inoltre, la concentrazione degli alunni in un solo luogo è utile anche per altre ragioni, tra cui quella di scaricare i genitori, in particolare le madri, dai compiti di cura, consentendo di svolgere un’attività retribuita fuori dalla propria abitazione. Questa è una funzione che la scuola da remoto non può svolgere, se non – in modo molto parziale – per i genitori che lavorano da casa.
La remotizzazione della scuola ha effetti di disuguaglianza? Sicuramente a livello macro si osserva una diversa capacità delle scuole di organizzare la didattica da remoto. Questa capacità, in media, è maggiore all’università e negli ultimi anni di liceo, e minore nelle scuole dell’infanzia e primarie, ed è maggiore nei contesti avvantaggiati, ad esempio il centro urbano di un capoluogo, e minore nei contesti svantaggiati, ad esempio le aree interne montuose. Esiste inoltre un secondo fattore di disuguaglianza, a livello micro, legato alla diversa capacità delle famiglie di fornire ai figli gli strumenti necessari per la scuola da remoto, e più in generale di sostenerli nelle loro attività scolastiche.
Dalla ricerca sappiamo che le differenze di apprendimento a favore degli alunni con origini familiari migliori rimangono stabili, o diminuiscono, durante i periodi di frequenza scolastica, ed aumentano nei periodi di pausa dalla scuola, per esempio le vacanze estive. Durante le vacanze i bambini passano gran parte del tempo in famiglia, dove sono esposti ai diversi stimoli associati alla diversa estrazione sociale e culturale dei genitori, mentre durante l’anno scolastico essi passano parte del loro tempo a scuola, dove sono sottoposti a stimoli relativamente omogenei. Le vacanze estive producono disuguaglianze di apprendimento, mentre la scuola le riduce, perché diminuisce, o compensa, l’impatto stratificato del contesto familiare sull’apprendimento. Lo stesso accade con la scuola da remoto, in generale meno coinvolgente di quella in presenza e più vincolata alle risorse disponibili in famiglia.
Le nostre analisi (su dati PISA 2018 per l’Italia, quindi precedenti alla pandemia) mostrano che, se la quasi totalità degli studenti quindicenni possiede un accesso a internet, un computer e uno smartphone, indipendentemente dall’istruzione (e quindi dalla posizione sociale) dei genitori, la disponibilità di strumenti digitali meno diffusi, come il tablet e l’e-book, è correlata positivamente con il titolo di studio dei genitori. Inoltre, se si considera la quantità di strumenti digitali disponibili in casa, solo la metà dei figli di genitori con la licenza media possiede almeno due computer, contro i tre quarti delle famiglie in cui almeno un genitore è laureato. Questo è ancora più rilevante se si pensa che in media le famiglie meno istruite sono anche quelle con più figli, dove quindi è maggiore la probabilità di dover condividere computer o tablet.
Hanno effetti simili anche le differenze nelle attività di supporto genitoriale ai figli. In generale, i genitori con titolo di studio più elevato sono più disponibili ad aiutare i figli per i compiti, a coinvolgerli nella discussione su letture e temi sociali, nella partecipazione ad attività formative e culturali. Questa associazione è più forte quando i figli sono più piccoli e il loro apprendimento può essere più influenzato negativamente da un’interruzione della scuola. Non solo le risorse digitali e le attività di sostegno genitoriale sono più frequenti nelle famiglie avvantaggiate, ma in questi contesti esse sembrano anche più efficaci. I figli dei laureati, infatti, sembrano trarre beneficio maggiore sia dalla presenza in casa di strumenti digitali che dall’aiuto dei genitori.
La remotizzazione della scuola comporta in definitiva costi notevoli, in termini di qualità dell’insegnamento, di indebolimento della funzione di socializzazione della scuola, e anche in termini di disuguaglianze di apprendimento. La scuola da remoto richiede la presenza in casa di strumenti digitali adeguati, e la disponibilità dei genitori ad attivarsi per aiutare i figli: in entrambi i casi c’è un netto differenziale a vantaggio dei bambini di genitori più istruiti. Pertanto, è molto probabile che la remotizzazione della scuola durante la pandemia abbia avuto un effetto disequalizzatore, non solo perché la sua diffusione (come alternativa alla pura e semplice chiusura) è stata differenziata per aree geografiche, livello scolastico e tipo di scuola, ma anche a causa dei più generali meccanismi che legano famiglia, scuola e apprendimento.
Mercato \ Il mercato dilaga. L’Europa soffre.
Del senno di poi c’è sempre grande abbondanza e, quindi, bisogna essere molto cauti nell’unirsi ad un coro già molto folto. Tuttavia, come molti esperti dichiarano, la questione delle pandemie non si chiuderà con la Covid 19, speriamo al più presto, ma si riproporrà, con varianti di virus contagiosi, forse nell’arco delle presenti generazioni. Da quel che avviene, o non avviene, in questi mesi può/deve essere tratto più di un insegnamento. Ci sono state carenze soggettive, settoriali, regionali, nazionali che il sacrificio e l’intelligenza di tantissimi non hanno potuto colmare. Sulle diverse cose che sono andate storte si può/deve riflettere anche al livello dell’ideologia sottostante. Già, l’ideologia, che ha un suo peso in quasi tutte le vicende umane importanti. In questo caso l’ideologia in questione è quella dell’onnipotenza e della presunta saggezza, sempre e comunque, del mercato.
In Italia e in Europa mancavano le mascherine. Ora, sembra, non c’è abbondanza ma si tenta un faticoso recupero. L’assenza di mascherine, e simili strumenti, ha provocato ingenti danni perché non si sono potuti proteggere a sufficienza gli “angeli” in prima linea, i medici degli ospedali e delle famiglie, gli infermieri, i portantini, le badanti, le commesse.
Le mascherine incorporano una tecnologia appena più complicata di quella della carta igienica. Almeno quelle “chirurgiche” danno questa impressione. Le altre, più complesse, non sono tali da poter impensierire la tecnologia europea. Negli ultimi anni si è andato spegnendo il dibattito su quale debba essere il futuro produttivo del Paese, cioè se si dovesse puntare sull’high-tech, su produzioni più mature, sul made in Italy o su altro. La discussione è stata sostanzialmente abbandonata perché, se non altro, in Cina si produce di tutto, o quasi, spesso con vantaggi competitivi di prezzo.
Le mascherine, dalle più semplici alle altre, richiedono di essere omologate. Ciò, per così dire, non attiene alla natura merceologica del bene ma riduce la neutralità localizzativa della produzione. In altre parole, accentua la necessità di programmare, che è la principale preoccupazione di questa nota.
La programmazione nasce all’interno del settore pubblico e, poi, coinvolge e attiva gli operatori (produttori) privati. L’intervento pubblico è reso necessario dalla stessa natura economica del bene. La mascherina è un bene di consumo privato con una elevata esternalità positiva. È del tutto simile al vaccino, che impedisce al vaccinato di ammalarsi e riduce il rischio di ammalarsi per i non vaccinati. Nel caso delle mascherine chirurgiche l’esternalità è totale, nel senso che essa non serve a chi l’indossa ma previene il contagio agli altri (indossarla è altruismo). Le caratteristiche del bene giustificano/reclamano ampiamente l’intervento pubblico, anche nell’aspetto del prezzo calmierato.
Come mai non c’erano mascherine? Una prima ovvia risposta è che non ne erano state stoccate a sufficienza. Ci si chiede che cosa ci voleva a costituire una adeguata riserva del prodotto. Si dovevano comperare dove si producevano e impilare in uno o più magazzini. Si sarebbero tirate fuori al momento del bisogno.
La questione è un po’ più complicata. Anche i cannoni della Grande guerra, ancora intatti dopo Vittorio Veneto, furono immagazzinati ma quando si trattò di sparare nuovamente nella Seconda guerra mondiale non servirono perché arrugginiti. Anche le mascherine scadono. Gli stock vanno rinnovati di quando in quando e quindi il costo della riserva mascherine sale.
A questo punto il buon senso consiglierebbe: se non possiamo stoccare un determinato prodotto in quantità, teniamoci a portata di mano la capacità produttiva e il relativo savoir faire. E invece no, abbiamo chiuso i siti produttivi domestici/europei perché un quintale di mascherine prodotte in Cina costa – ahimè costava – centesimi in meno che in Italia (e un bel po’ di Co2 in più). E così oggi vediamo le sarte – anche loro in Paradiso avranno diritto a una suite all inclusive – che cuciono mascherine. Fatte con cuore e mani d’oro.
Si è esagerato con la globalizzazione e il profitto privato.
Intendiamoci non è che si tratti di chiudere tutto. Perché, per esempio, sarà necessario che quelle stesse sarte tornino a cucire abiti del made in Italy da vendere, in particolare, ai cinesi ricchi e benestanti. Serve però recuperare, preferibilmente a livello europeo, la logica della “programmazione”. Se non piace la parola, perché ricorda l’Unione Sovietica, se ne usi un’altra. Non si dimentichi tuttavia che nell’Italia del boom economico degli anni 50 e 60 il concetto e, in parte, la pratica della programmazione ebbero un ruolo importante, potendo fare leva anche sulle “partecipazioni statali”, l’Iri e l’Eni, nel quadro di un’economia mista.
Oggi come allora occorre ragionare su cosa serve di più con chiaroveggenza, disposti anche a sostenere le produzioni e le imprese del ramo. Potrà darsi che il coinvolgimento tra pubblico e privato abbia necessità di erogare sostegni alle produzioni autoctone, abbia cioè bisogno di “aiuti di Stato”. Sono strumenti di politica economica che l’Ue ha sempre proibito accanitamente e che solo da ultimo, a pandemia dilagante, ha autorizzato. Il divieto degli aiuti di Stato è una derivazione logica dell’iper liberismo imperante in Europa da Maastricht in poi. Essi rappresentano un’asimmetria scandalosa all’interno di una unione monetaria con Paesi divergenti. Agli uni è concesso costituirsi come paradisi fiscali, vedi l’Olanda, che sottraggono imponibile ai Paesi vicini (fanno in modo che imprese con stabilimenti e connessi effetti esterni – per esempio inquinamento – operanti in Italia non paghino imposte né in Italia, né in Olanda); agli altri è proibito indirizzare la produzione anche soltanto tramite la politica degli acquisti della Pubblica amministrazione. Per restare in tema, le mascherine (e il paracetamolo e altri farmaci basilari non più prodotti in Europa).
In questi giorni tra i pochi dati positivi che possiamo registrare c’è l’aumento dell’orgoglio di noi pavesi. Avremmo tanto preferito che avvenisse in altre circostanze. Avevamo una Formula 1; senza nostra sorpresa ma con l’ammirazione di tutti l’abbiamo vista sfrecciare al meglio. È il San Matteo. Economisti e giuristi di varie specializzazioni dell’Università potranno – in piccola, appena percettibile, parte – sdebitarsi con il San Matteo e con i medici di famiglia del territorio avviando uno studio sull’industria degli apparati medici.
Questo sarà principalmente compito degli economisti industriali. Questi, insieme a specialisti di altre branche, dovrebbero tracciare le linee di una politica industriale e sociale europea della salute e della sanità. Se si faranno gli eurobond, una parte dei proventi di questi necessari strumenti finanziari sia riservato a questo settore. I proventi siano distribuiti tra i Paesi secondo il peso rispettivo della popolazione ma nell’ambito di una programmazione che esalti e sfrutti le vocazioni produttive di ciascuno.
Ci sarà da fare anche per i cultori di economia pubblica e per i giuristi perché, come minimo, la presente distribuzione delle competenze e dei finanziamenti della sanità in Italia pone diversi interrogativi. Già si levano voci per chiedere il passaggio delle responsabilità allo Stato. Senza aggiungere altro, è evidente che simile ipotesi competerebbe una profonda trasformazione di tutto l’ordinamento finanziario/ammnistrativo se non altro perché attualmente la voce di spesa legata alla sanità rappresenta il 75-85% delle erogazioni delle Regioni. D’altra parte, sembra assai arduo che si possa tornare a parlare di “autonomia” differenziata (ex art. 116 delle Costituzione).
Che non avvenga più che manchino persino le mascherine.
Crescita economica e sviluppo umano: un binomio cui non possiamo rinunciare
Professor Felice, lei ha esplorato molto la dimensione storica dello sviluppo economico. Quali i “turning-points” più rilevanti in questa evoluzione? Quale può essere il giudizio sull’esperienza storica italiana rispetto ad altri paesi che in passato sono stati caratterizzati da pari livelli di disuguaglianza territoriale?
Prima dello sviluppo economico moderno, che da noi è cominciato alla fine dell’Ottocento, i divari di reddito fra le regioni italiane non erano particolarmente pronunciati. Una certa differenza fra Nord e Sud vi era già, ma non così forte come sarebbe diventata in seguito; piuttosto erano molto diverse fra Nord e Sud le pre-condizioni dello sviluppo (capitale umano e sociale, infrastrutture), che poi avrebbero favorito il decollo del «triangolo industriale». Tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, quando appunto inizia lo sviluppo economico moderno, i divari aumentano tutto sommato a ritmo contenuto, specialmente perché le regioni più povere del Sud hanno una massiccia emigrazione che consente una tenuta almeno in termini di reddito medio (per coloro che restano). L’epoca di massima divergenza è invece quella fra le due guerre, quando il Nord continua a industrializzarsi, il Sud rimane al palo, ancorato al latifondo estensivo a base cerealicola (l’altra faccia della Battaglia del grano), e non ha nemmeno più la «valvola di sfogo» dell’emigrazione. Alla vigilia del miracolo economico, in termini di reddito per abitante la penisola appare chiaramente divisa in tre macro-aree: il Nord-Ovest in cima, il Nord-Est e Centro in mezzo, il Sud e isole in fondo. Un terzo momento di svolta è il miracolo economico: in questo periodo, dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta del secolo scorso, il Mezzogiorno avvia in effetti un processo di convergenza, l’unico della sua storia, benché lento e anche costoso: grazie soprattutto all’intervento dello Stato che, con la Cassa per il Mezzogiorno e l’impresa pubblica, porta qui l’industria moderna. La convergenza si interrompe però negli anni Settanta, non solo perché entra in crisi il modello fordista impiantato (anche) al Sud, ma soprattutto perché l’intervento pubblico progressivamente si imbriglia nelle logiche della politica clientelare e non riesce più a risultare incisivo, mentre la classe dirigente del Mezzogiorno continua a essere orientata prevalentemente alla ricerca di posizioni di rendita, anziché al rischio d’impresa che punta al mercato. Questo è il quarto e ultimo punto di svolta, le cui conseguenze si trascinano fino all’oggi: il Mezzogiorno smette di convergere, mentre, dall’altro lato, il Nord-Est e anche il Centro si avvicinano sempre più al Nord-Ovest, tanto che si forma in sostanza un unico Centro-Nord, almeno stando al reddito medio. L’Italia appare di conseguenza divisa in due. Questo risultato è abbastanza singolare anche rispetto ad altri paesi: nessuna grande economia dell’Europa occidentale, nemmeno la Germania o la Spagna, ha oggi al suo interno un divario di reddito così pronunciato, che vede un’area in ritardo di sviluppo geograficamente (e storicamente) ben definita, in cui vive un terzo della popolazione. Di più. Con il doppio di abitanti della Grecia, o del Portogallo, il Sud Italia è oggi la più grande area in ritardo di sviluppo di tutta l’Europa occidentale.
Alcune risposte elaborate dai governi più recenti sono state caratterizzate dalla ricerca di un riaccentramento di competenze politiche nelle mani dello Stato centrale, con l’idea che questo potesse essere meglio in grado di gestire la situazione di squilibrio territoriale presente. Al di là del maggiore o minore successo che queste possono ricevere lei pensa che sia la strada più adeguata? Quali strategie alternative a riguardo?
Intendiamoci: le regioni, istituite nel 1970, al Sud sono state un sostanziale fallimento. Così come lo sono state, salvo qualche eccezione ovviamente, le politiche di decentralizzazione condotte a partire da allora. Per queste ragioni, io non credo che l’idea di un riaccentramento verso lo Stato, perlomeno in alcuni ambiti, non sia peregrina. Nella gestione e soprattutto nella programmazione dei fondi europei, ad esempio, il riaccentramento è fondamentale. Ma credo anche che nella scuola e nella sanità, in linea di massima il regionalismo al Sud non abbia dato buoni frutti, e bisognerebbe tornare a una gestione nazionale (come è stato peraltro nei periodi migliori della storia d’Italia). Ciò detto, è vero che nei passati governi vi è stato un tentativo di riaccentrazione, ma questo è rimasto, appunto, un tentativo: la riforma costituzionale di Renzi, che superava le competenze concorrenti fra Stato e Regioni a favore del primo non è mai entrata in vigore; sul versante dei fondi europei, l’Agenzia per la coesione territoriale in concreto non ha poi avuto quell’ambizione strategica (avocare a sé le competenze di programmazione e gestione dei fondi) cui i suoi ideatori avevano pensato, limitandosi a un controllo contabile sull’operato delle regioni. Ora vedo che, con l’autonomia differenziata, si sta andando in direzione opposta rispetto a un riaccentramento: accentuare ancora di più il regionalismo. Su questo l’esperienza storica del Mezzogiorno non lascia ben sperare. Ma staremo a vedere. In fondo non è nemmeno da escludere che, costretti da necessità, i cittadini meridionali acquistino consapevolezza e comincino a votare per classi dirigenti all’altezza delle sfide da affrontare, ma a me francamente pare improbabile (inoltre non è solo una questione di volontà e capacità politiche, ma anche di risorse).
Ha scritto a proposito del rapporto tra sviluppo economico e felicità. Sarebbe in grado di dirci come entra in questa relazione la dimensione politica, con riferimento ai principali paradigmi ideologici di politica economica che si sono avvicendati nel corso del tempo?
La dimensione politica è centrale perché, oltre a garantire lo sviluppo economico, è quella che poi può tradurre lo sviluppo economico in sviluppo umano, coniugando quindi crescita dell’economia ed espansione dei diritti dell’uomo. I diritti sociali, i diritti civili di seconda generazione, quelli ambientai e quelli umani “allargati”: lo sviluppo economico crea le premesse, ma spetta poi alla politica concretizzarli, dando quindi forma alla visione della felicità propria del pensiero liberal-democratico e social-democratico (si ricollega alla fioritura umana di Aristotele, passa per lo Stoicismo e matura nell’Illuminismo: ma per la riflessione etico-economica del nostro tempo si guardino i lavori di Amartya Sen, o di Martha Nussbaum).
Ma la medesima dimensione politica può prendere altre strade. Può puntare solo alla crescita economica e allo sviluppo tecnologico, ma trascurare i diritti umani, considerandoli in sostanza d’intralcio. Questo è avvenuto in passato, specie con riferimento ai diritti politici e civili: valga per tutti il caso del nazismo. Ma si verifica anche oggi, sebbene in forme più blande: si pensi alla Cina, agli Emirati Arabi Uniti, o anche a certi discorsi delle formazioni populiste europee. Questo infine si osserva anche in Occidente, negli ultimi decenni, con riferimento ai diritti sociali: una politica economica che pensa alla crescita ma non si cura delle disuguaglianze persegue una visione dello sviluppo economico e tecnologico ugualmente totalizzante; una visione che non si traduce in felicità, non in quella intesa come «fioritura» o «sviluppo» umano per il maggior numero possibile di individui.
Quali sono a suo giudizio gli scenari che abbiamo di fronte rispetto alle attuali strategie adottate dagli Stati nazionali per affrontare le trasformazioni del mercato del lavoro e dei sistemi produttivi?
Noi siamo agli inizi di una nuova rivoluzione tecnologica, guidata dall’Intelligenza artificiale, che probabilmente avrà un notevole impatto sul mercato del lavoro e sui sistemi produttivi – e in parte lo sta già avendo. Mentre le precedenti rivoluzioni tecnologiche avevano ridotto il lavoro di tipo manuale, nell’agricoltura e nell’industria, trasferendo quindi l’occupazione sui servizi, l’Intelligenza artificiale probabilmente ridurrà il lavoro intellettuale, portando quindi alla scomparsa o al ridimensionamento di molte attività dei servizi. Non sappiamo attualmente se queste saranno rimpiazzate da nuovi lavori (come avvenuto in passato), o se semplicemente scompariranno (non sempre la storia si ripete). Come che sia, sono sfide di enorme portata, che si intrecciano con i processi di delocalizzazione pure trainati da enormi innovazioni tecnologiche (oggi i costi di trasporto sono enormemente ridotti, ma, soprattutto, quelli di comunicazione sono praticamente azzerati): gli stati nazionali non sono in grado di affrontarli, non singolarmente. Sono necessarie politiche fiscali comuni o quantomeno coordinate. Lo stesso vale per le politiche di welfare e in parte anche per le politiche dell’innovazione. In quanto a integrazione pacifica e democratica, fra gli stati nazionali, noi in Europa ci siamo portati più avanti di qualunque altra area del mondo, ma c’è ancora molto da fare.
Altrilavori – Immagini dal pianeta 4.0
A partire dal complesso fenomeno della “Jobless Society”, la mostra riflette sulla possibilità di definire un nuovo immaginario fotografico del lavoro.
Se nella prima parte del Novecento e nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale l’evoluzione del lavoro è stata accompagnata da un apparato iconografico estremamente chiaro e riconoscibile, le ultime radicali trasformazioni in questo settore non sono invece state seguite da un simile adeguamento sul piano della ricerca visiva. ALTRILAVORI risponde a questa mancanza formulando una serie di proposte che riflettono lo stato attuale del mondo del lavoro e ne rappresentano alcune caratteristiche: l’interconnessione; la condivisione di strumenti, spazi e infrastrutture; la specializzazione e la dilatazione delle competenze individuali; l’automazione tecnologica e la sua integrazione con l’attività dell’uomo. La natura sostanzialmente immateriale della gran parte di queste qualità distintive ha costituito la sfida più complessa per ogni autore, chiamato ad utilizzare il linguaggio puramente visivo della fotografia per confrontarsi con l’invisibile e trasformarlo nel suo opposto.
ALTRILAVORI prende le mosse dal presente, l’unico tempo che la fotografia possa cogliere, per compiere uno slancio nel prossimo futuro: come rabdomanti nell’era digitale, nel proporre una nuova iconografia i giovani autori di questa mostra hanno captato indizi, sintomi e segnali delle possibili alterazioni dell’universo che li attende.
Una mostra d’arte – a volte cinica, a volte ironica – che traduce il capitalismo contemporaneo in un gioco di riflessi tra uomo e macchina, dove non sono solo i dispositivi tecnologici a imitare e sfidare l’intelligenza umana, ma è anche l’uomo che finisce per incarnare la ripetitività del gesto meccanico. Dove software e manifattura digitale rivisitano il processo poietico e creativo delle attività umane, la soggettività e i processi di individuazione incontrano contesti spersonalizzati e automatizzati, l’identità di ciascuno si arricchisce, in chiave unica e personale, di nuove competenze e insieme si riduce a numero di una statistica.
ALTRILAVORI – Immagini dal pianeta 4.0 inaugura martedì 30 maggio e presenta i lavori di Alessandro Braconi, Nicolò Carlon, Alice De Santis, Andres Diaz Rosselli, Claudia D’Oncieu De Chaffardon, Claudia Fuggetti, Irene Guandalini, Ke Huang, Giulia Leggieri, Li Jialin, Antonio Liverani, Flavio Moriniello, Paola Ristoldo, Federica Rossi, Tania Zangrillo, Zhang Yi. Rimarrà aperta al pubblico fino al 21 giugno 2017.
Alessandro Braconi
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Prelevando 1636 fotografie dagli account personali di Linkedin e trasponendole nel formato ludico della figurina, il progetto ha indagato il tema della produzione di soggettività nel capitalismo contemporaneo: i processi di individuazione nel mondo del lavoro e la diffusione delle tecnologie digitali disegnano il luogo di una ricomposizione dai tratti distopici, un incasellamento in cui si è sempre presenti e allo stesso tempo proiettati in un altrove.
Nicolò Carlon e Antonio Liverani
Workers
Il progetto è composto da tre fotografie di operai colti nell’atto di svolgere movimenti ripetitivi e meccanici. Al centro del progetto c’è l’operaio, in quanto uomo ma allo stesso tempo macchina, visto da una prospettiva che toglie la soggettività dell’individuo e lo rende automa. Alle singole fotografie è stata applicata successivamente una grafica che fa riferimento alla filigrana delle banconote. È una riflessione sul salario percepito dagli operai, che nonostante la grande mole di lavoro rimane circoscritto ai margini della rilevanza sociale.
Claudia D’Oncieu e Irene Guandalini
Error404
È un’indagine immaginaria e divertita sull’automazione progressiva del lavoro. Nella creazione di un dispositivo tecnologico, l’uomo trasforma parte della propria identità in codice, per trasmetterla poi alla macchina. Se l’allievo arriva a superare il maestro, quale spazio d’azione rimane a quest’ultimo? Error404 presenta l’ipotetico codice di programmazione di alcune professioni, delineando una mappa di situazioni in cui l’imprevisto o l’errore evidenziano delle falle nel sistema operativo.
Alice De Santis e Giulia Leggieri
Humans Need Not Apply
Il progetto riflette sui processi di integrazione tra lavoratori e nuove tecnologie nei magazzini delle aziende che si occupano di vendita online e spedizioni. Si è scelto un tipo di manipolazione grafica che evidenziasse visivamente la presenza umana, staccando dalla superficie dell’immagine ogni lavoratore e lasciando al suo posto delle sagome bianche. In questo processo di sparizione, ogni sagoma presente nell’immagine rappresenta simbolicamente le competenze tipiche del lavoratore umano che verrebbero a mancare qualora questo venisse totalmente sostituito dalle macchine.
Andres Díaz
Digital Divide
Questo lavoro riflette sulle differenze prodotte dal cosiddetto “digital divide”, che colpisce proprio le categorie di persone e le nazioni alle quali la rete e le nuove tecnologie potrebbero letteralmente cambiare, e salvare, la vita.
Claudia Fuggetti
Spacelab
Spacelab è un progetto sulla stampa 3D che, pur esistendo da diverso tempo, ha avuto un vero e proprio exploit di impiego solo negli ultimi anni, in quanto diversi brevetti sono giunti in fase di scadenza. Questa tecnologia è destinata ad evolversi e sarà forse tra i protagonisti del mondo del lavoro 4.0.
Jialin Li
Self-service
Il progetto evidenzia, con immagini prese in grande quantità da un motore di ricerca cinese, la grande diffusione in Cina di un metodo automatizzato di ritiro della corrispondenza che sta sostituendo il mestiere di postino e perfino la necessità delle zone di consegna negli uffici postali. Le comunicazioni postali hanno affrontato cambiamenti enormi negli ultimi decenni, con il diffondersi di possibilità alternative a quelle tradizionali che hanno implicato la riconversione di molte attività connesse che erano gestite da lavoratori.
Flavio Moriniello
Point and Line to Plane to Color
Questo lavoro è un percorso di ricerca che parte dall’individuazione di possibili nuovi strumenti creativi aventi caratteristiche peculiari del Lavoro 4.0. Per la realizzazione di queste immagini si sono utilizzati software online che utilizzano reti neurali per produrre in modo automatico immagini potenzialmente artistiche, con modalità evolutive affini all’autoapprendimento delle intelligenze artificiali. Il processo genera varie immagini aprendo una riflessione sul concetto di “stile” e “contenuto” dal punto di vista di una macchina.
Paola Ristoldo e Federica Rossi
Common Solutions
Questo progetto è interamente realizzato attraverso il prelievo dalla rete di immagini di persone riprese accidentalmente durante le operazioni di mappatura per software come Google Earth e Google Maps. Le fotografie così ricavate e ingrandite sono state successivamente sovraimpresse con frasi tratte da vari siti che suggeriscono le strategie più efficaci per affrontare la ricerca di un lavoro.
Tania Zangrillo
Il futuro è oggi
Il mondo del lavoro sta attraversando profonde trasformazioni; alcuni mestieri stanno scomparendo, altri cambiano radicalmente, mentre nuove figure professionali prendono vita. Cosa significa concretamente questo passaggio? Attraverso uno stile simile al fotoromanzo, si ripercorrono qui le vicende di una piccola attività commerciale in Italia.
Yi Zhang
Thousand-handed Goddess
La figura che ha ispirato la serie di poster proviene dalla mitologia cinese, dove il dio dalle mille braccia può gestire contemporaneamente situazioni diverse. Attualmente le aziende, che vogliono vedere i loro profitti crescere a discapito dei salari dei lavoratori, cercano qualcuno di simile al dio dalle mille braccia, qualcuno cioè di altamente specializzato in grado di adempiere con rapidità a compiti molto diversi tra loro. Nel prossimo futuro ci verranno richieste sempre più competenze che sappiano soddisfare i requisiti imposti dalla società e dalla carriera.
Ke Huang
Ogni numero è una storia
La scienza e la tecnologia sono in continuo sviluppo e hanno ormai superato la velocità dell’auto-riflessione umana. Ogni persona ora è un numero di una statistica, ma rimane al contempo un individuo con una storia personale, di cui qui viene mostrato un esempio. I nostri passi lasciano una traccia per chi viene dopo di noi.