Tecnologia
Capitolo 1
Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni… sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana… Non sono fiera di confessarlo…Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima
per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto…
Simon Weil
La condizione operaia
Milano, Mondadori, 1994
Il legame tra crescita economica e sviluppo tecnologico è strettissimo sin dai tempi della prima rivoluzione industriale. Grazie all’invenzione e al rapido perfezionamento della macchina a vapore l’industria poté contare su un quantitativo di energia enormemente superiore rispetto a quello a disposizione nell’età preindustriale.
La catena di montaggio
Con la seconda rivoluzione industriale la produttività compie un salto gigantesco, grazie anche all’adozione di nuove soluzioni organizzative come la fabbrica fordista basata sulla catena di montaggio. Lo stretto legame dell’industria con la scienza moderna favorisce la nascita di settori prima inesistenti: elettricità, chimica e meccanica, grazie a innovazioni come le dinamo e gli alternatori, il motore a scoppio, i fertilizzanti chimici, le fibre artificiali. La scoperta delle proprietà delle onde elettromagnetiche consente inoltre le prime trasmissioni radio e, passando per la televisione, conduce fino agli smartphones.
Progresso tecnologico
L’inarrestabile flusso delle innovazioni degli ultimi decenni, confluito nell’odierna rivoluzione digitale, ha cambiato in modo radicale l’economia e modificato le prospettive dell’industria e del lavoro. Incidendo sulla velocità del cambiamento e sugli stessi processi produttivi, l’automazione e l’intelligenza artificiale costringono a riflettere sugli esiti delle trasformazioni in atto e, al contempo, sugli effetti sociali dei cambiamenti innescati dalle nuove tecnologie.
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Le fonti selezionate inducono a riflettere sul binomio uomo-macchina, il quale – sin dalla prima rivoluzione industriale – è sempre stato soggetto alla variabile della tecnologia. I progressi tecnologici necessitano di essere indagati alla luce delle risposte che l’uomo ha saputo – o non ha saputo – formulare rispetto alla continua ridefinizione del suo rapporto con la macchina.
1. Charles Babbage, On the economy of machinery and manufactures, John Murray, London, 1846, p. 314.
The aid of chemistry, in extracting and concentrating substances used for human food, is of great use in distant voyages, where the space occupied by the stores must be economised with the greatest care. Thus, the essential oils supply the voyager with flavour; the concentrated and crystallized acids preserve his health; and alcohol, when sufficiently diluted, supplies the spirit necessary for his daily consumption. [L’aiuto della chimica, nell’estrarre e concentrare le sostanze utilizzate per l’alimentazione dell’uomo, è di grande utilità in viaggi lontani, dove lo spazio occupato dai depositi deve essere risparmiato con la massima cura. Così, gli oli essenziali forniscono al viaggiatore il profumo; gli acidi concentrati e cristallizzati preservano la sua salute; e l’alcool, se sufficientemente diluito,
fornisce lo spirito necessario al suo fabbisogno quotidiano].
2. Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Verlag für fremdsprachige Literatur, Moskau, 1939.
“La natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, telai meccanici, ecc. Questi sono prodotti dell’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi dalla volontà dell’uomo sulla natura o del suo operare in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza materializzata del sapere”.
[Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, vol. I, Einaudi, Torino, 1976, p. 718.]
Approfondimento
Che cos’è il lavoro digitale
Automazione, produttività e lavoro
Creare ricchezza senza lavoro. Il dramma tecnologico
Altrilavori – Immagini dal pianeta 4.0
Che cos’è il lavoro digitale
In occasione del ciclo di conferenze online Unboxing AI. Comprendere l’intelligenza artificiale pubblichiamo qui di seguito un estratto di Roberto Ciccarelli dall’Annale: lavoro la grande trasformazione a cura di Enzo Mingione, Feltrinelli 2020 in libreria a partire dal 26 novembre.
Il lavoro digitale (digital labour) è l’attività produttiva svolta per il profitto dei proprietari delle piattaforme digitali. Su queste infrastrutture elettroniche la forza lavoro dei consumatori e degli utenti è impiegata 24 ore su 24, 7 giorni su 7, nella creazione di relazioni e contenuti gratuiti o a pagamento; nel collegamento dei clienti con i fornitori indipendenti di beni o servizi; nello spostamento delle merci e delle informazioni in tempo reale su internet e nei settori industriali, dei servizi, della comunicazione o della logistica. Le piattaforme agiscono come intermediari tra gli individui e il mercato; reclutano la forza lavoro attraverso le applicazioni e i portali mobili; permettono l’incontro automatizzato tra la domanda e l’offerta di lavoro digitale su un mercato on line; abbinano due o più persone in rete e governano a distanza le loro interazioni. Il conflitto tra la forza lavoro e i proprietari delle applicazioni che la organizzano e la sfruttano caratterizza il “capitalismo delle piattaforme digitali”.[1]
Digitale in italiano e digital in inglese derivano dal latino digitus: dito. Il lavoro digitale è, letteralmente, il lavoro del dito che fa clic. L’azione del dito su un mouse, su un pulsante o su uno schermo è l’attività materiale che accomuna esperienze che variano dal like sui social network all’annoazione dei video, l’ordinamento dei tweet, la trascrizione di documenti digitalizzati, la moderazione dei commenti, la scrittura dei blog.[2] Inteso in maniera più complessiva, il lavoro digitale è l’addestramento che permette agli algoritmi di diventare intelligenti. Questa attività è il prodotto della cooperazione tra le macchine, i lavoratori e i consumatori, ed è influenzata da culture, esperienze, saperi, consumi e dall’opinione pubblica. La loro interazione è la base di una nuova economia che estrae la ricchezza prodotta dalla forza lavoro degli esseri umani, ma non la restituisce a coloro che l’hanno resa redditizia. La distribuisce sotto forma di profitto ai proprietari delle piattaforme digitali.
Il lavoro digitale è un rapporto sociale di produzione di natura contraddittoria. Da un lato, favorisce l’attivazione di un individuo “creativo”, responsabile e innovativo; dall’altro lato, inserisce lo stesso individuo in una subordinazione lavorativa, economica e psicologica. Questa condizione interessa una quota crescente di persone che svolgono attività più o meno specializzate in maniera continuativa e formano una sottoclasse di fantasmi sociali al servizio degli algoritmi.[3]Il loro numero è considerevole, ma non esaurisce la generalità del fenomeno. È la vita, oltre che il lavoro, a essere stata sussunta dal capitalismo digitale. Tutti possono realizzare il profitto delle piattaforme attraverso il loro uso quotidiano.
Il lavoro digitale mobilita le facoltà intellettuali, manuali, biologiche, relazionali, sessuali della forza lavoro disponibile. Sono le stesse facoltà usate dalle donne nel lavoro di cura o in quello domestico e rimosse in una società capitalista e patriarcale.[4] Oggi sono richieste a tutti, anche attraverso le piattaforme, e sono assoggettate alle medesime condizioni di precarietà, flessibilità e gratuità.[5] Questa è un’esperienza comune alle donne e agli uomini ed è caratterizzata dalla frammentarietà delle prestazioni e dalla pluralità delle dipendenze.[6] In questa cornice è ricorrente l’analogia tra il lavoro digitale nascosto che permette alle piattaforme di sviluppare l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico degli algoritmi, i big data e il lavoro di cura nelle case private o quello delle pulizie negli uffici svolto in prevalenza dalle donne e dagli immigrati all’alba o al tramonto quando sono invisibili agli sguardi. I lavoratori digitali rendono possibile l’economia delle piattaforme nello stesso modo in cui il lavoro di cura permette quella domestica.[7]
Le donne e gli uomini che svolgono un lavoro digitale sono considerati “servizi umani”, appendici organiche di un algoritmo, funzioni assoggettate all’autorità dei proprietari delle piattaforme. Agli algoritmi è attribuita una vita autonoma, mentre la forza lavoro che permette di renderli intelligenti è considerata il prodotto dell’intelligenza artificiale. Questo feticismo dell’automazione ispira la profezia della sostituzione del lavoro umano con i robot.[8] È nata così l’idea secondo la quale l’innovazione tecnologica è la principale causa della scomparsa dei posti di lavoro e dell’aumento delle diseguaglianze salariali. L’informatizzazione della produzione è stata considerata la causa dell’aumento dell’occupazione negli impieghi con i salari più alti e della disoccupazione in quelli con i salari più bassi con la conseguente polarizzazione tra i posti di lavoro.[9]
Esiste un altro modello interpretativo secondo il quale le diseguaglianze salariali sono il frutto di un processo di sostituzione del lavoro subordinato con quello precario determinato dall’uso politico della tecnologia. In questo contesto l’automazione digitale svolge una funzione completamente diversa:
- non cancella i lavoratori in carne e ossa, ma rende invisibile la loro forza lavoro nella produzione;
- disloca il lavoro necessario in tutto il pianeta, soprattutto dove non è possibile osservarlo;
- nasconde il rapporto di subordinazione a un capitalista che possiede i mezzi della produzione: ad esempio, la piattaforma digitale scaricata sugli smartphone;
- moltiplica le occasioni per lavorare precariamente, sempre di più, in condizioni peggiori, al servizio delle piattaforme;
- non aumenta, né diminuisce la disoccupazione, ma gestisce quella esistente mettendo al lavoro precari e disoccupati al di là del rapporto di lavoro salariato;
- aumenta la produttività della forza lavoro attraverso la continua attivazione degli individui che svolgono un lavoro on line non riconoscibile dalle statistiche ufficiali sull’occupazione.
Il capitalismo delle piattaforme prevede anche lo sfruttamento dei beni di proprietà dei suoi utenti.
[…]
Il lavoro digitale è il risultato di una progressiva piattaformizzazione della società, di una digitalizzazione del lavoro esistente e di un monopolio sul trasferimento e sulla produzione della conoscenza attraverso i dati.[10] Questo processo è stato inizialmente presentato come un’economia della condivisione in rete (sharing economy) basata sull’orizzontalità tra i pari (peer to peer). In seguito è stato compreso che il capitalismo delle piattaforme usa la cooperazione sociale per il proprio profitto ricorrendo a un linguaggio ambiguo e opportunistico attraverso il quale presenta le transazioni finanziarie come se fossero azioni altruistiche nell’interesse di una comunità. È un esempio di bispensiero orwelliano: la condivisione tra pari non promuove l’uguaglianza sociale, ma è uno strumento attraverso il quale alcune aziende prendono il controllo sulla vita dei clienti trasformandoli in sostenitori dei loro marchi. La sharing economy è stata assorbita dall’economia digitale a chiamata (on demand economy) basata sulla vendita di forza lavoro e l’uso di beni e servizi in cambio di un salario occasionale o simbolico.[11]
[1] Sarah Abdelnour, Dominique Méda, Les nouveaux travailleurs des applis, Puf, Parigi 2019; Carlo Vercellone et al., (a cura di), Decade: data driven disruptive commons-based models, Cnrs, Parigi 2019; Antonio Casilli, En attendant les robots. Enquéte sur le travail du clic, Seuil, Parigi 2018; Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2018; Jeremias Prassl, Humans as a service. The promise and Perils of Work in the Gig Economy, Oxford University Press, Oxford 2018; Nick Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, Roma 2017; Benedetto Vecchi, Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, Roma 2017; Ursula Huws, Labor in the Global Digita! Economy: The Cybertariat Comes of Age, Monthly Review Press, New York 2014; Christian Fuchs, Digita! Labour and Karl Marx, Routledge, Londra 2013; Trebor Scholz (a cura di), Digita! Labor: The Internet as Playground and Factory, Routledge, Londra 2012.
[2] Antonio Casilli, En attendant les robots, cit., pp. 17 e sgg.
[3] 3 Mary L. Grary, Siddarth Suri, Ghost Work: How to Stop Silicon Valley from Building a New Global Underclass, Houghton Mifflin, Harcourt 2019.
[4] Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2014.
[5] Emiliana Armano, Annalisa Murgia (a cura di), Le reti del lavoro gratuito, Ombre Corte, Verona 2016.
[6] Il processo è stato definito “femminilizzazione del lavoro”, cfr. Tristana Dini, Stefania Tarantino (a cura di), Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, Natan edizioni, Benevento 2014; Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona 201 O; Nina Power, One Dimensiona! Woman, Zero Books, Washington 2019.
[7] Lilly Irani, Justice far Janitors, Public Books, 15 gennaio 2015; Steve Lohr, Far BigData Scientists, “Janitor Work” is Key Hurdle to Insights, in “New York Times”, 17 agosto 2014; Lilly Irani, The Cultura! Work of Microwork, in “New Media & Society”, 2013.
[8] Cfr Noam Cohen, The Know-it-alls. The Rise of Silicon Valley as a Politica! Powerhouse and Social Wrecking Bali, Oneworld, Londra 2019; Ed Finn, Che cosa vogliono gli algoritmi. L’immaginazione nell’era dei computer, Einaudi, Torino 2018; Lelio Demichelis, La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano 2018; Matteo Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre Corte, Verona 2014; Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di Internet, Codice edizioni, Torino 2011.
[9] Carl B. Frey, Michael Osborne, The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs in Computerisation, Oxford Martin School, University of Oxford, 17 dicembre 2013; Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2015; Lawrence F. Katz, Melissa S. Kearney, The Polarization of the US Labor Market, in “The American Economie Review”, 2006, pp. 189-194; World Economie Forum, The Future of Jobs Employment, Skills and Workforce Strategy far the Fourth Industriai Revolution, gennaio 2016; McKynsey Global Institute, Harnessing Automation Por a Future That Works, gennaio 2017; Melanie T. Arntz et al., The Risk of a Automation far Jobs in OECD Countries: A Comparative Analysis, in “OECD Social Employment and Migration Working Papers”, n. 189, Ocse, Parigi 2012, inAutomation and Independent Work in a Digitai Economy. Policy Brief on the Future ofWork, maggio 2016.
[10] Paul Mason, Postcapitalismo, Il Saggiatore, Milano 2016.
[11] Koen Frenken, Juliet Schor, Putting the Sharing Economy into perspective, in “Environmental Innovation and Societal Transitions”, volume 23, giugno 2017, pp. 3-10; Sarah O’Connor, The Gig Economy Is Neither “Sharing” nor “Collaborative”, in “Financial Times”, 14 giugno 2016; Natasha Singer, Twisting Words to Make “Sharing” Apps Seem Selfless, in “The New York Times”, 8 agosto 2015; Frank Pasquale, Siva Vaidhyanathan, Uber and The Lawlessness of “Sharing Economy” Corporates, in “The Guardian”, 28 luglio 2015.
Automazione, produttività e lavoro
Si propone un estratto dello studio Il futuro del lavoro. Il ruolo dei Fondi europei e lo sviluppo locale elaborato da Andrea Gentili, Fondazione Istituto Carlo Cattaneo, per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Il testo integrale è consultabile all’interno della pubblicazione Le conseguenze del futuro Comunità, Nuove società, nuove economie.
Dagli albori dello studio dell’economia, già Adam Smith e David Ricardo, seguiti da tutti i principali economisti nei 250 anni di storia della disciplina, si sono occupati della complessa relazione tra tecnologia e lavoro. I benefici legati al progresso tecnologico sono ampiamente sotto gli occhi di tutti. L’evidenza storica ci mostra come, di fatto, le nazioni dominanti negli ultimi tre secoli siano quelle che sono state maggiormente in grado di cogliere i benefici della ricerca tecnologica. In tali nazioni le condizioni economiche sono migliorate a livello aggregato e, sebbene con alterne fasi distributive (Piketty and Zucman, 2014), anche per la popolazione nel suo complesso. Quanto la crescita tecnologica abbia avuto impatto sul benessere (economico ma non solo) delle popolazioni, in un periodo di tempo estremamente ridotto, appare evidente nella Figura 6.
A fronte di tale crescita esponenziale, chi obbietterebbe all’idea che produrre di più, in meno tempo, riducendo l’errore umano possa essere negativo per un Paese? Sebbene vi sia un vasto consenso intorno ai benefici dell’avanzamento tecnologico, supportato da modellizzazione teorica ed evidenza empirica, sulla crescita economica dei Paesi esiste anche evidenza di possibili ritorni negativi.
Già nel diciottesimo secolo i Luddisti si opposero con forza all’avanzamento tecnologico. Sebbene oggi si associ spesso il luddismo ad una battaglia contro l’avanzamento tecnologico in generale (perdendone nel comune dialogo la connotazione storica e sociale), i Luddisti furono il primo esempio moderno di rivolta di una classe lavoratrice contro l’avanzamento tecnologico nel loro campo lavorativo. Si trattò infatti di una rivolta organizzata dei lavoratori nel settore della tessitura (i tessitori nello specifico) che reagirono all’introduzione dei filatoi meccanizzati, in quanto tale tecnologia, di fatto, rendeva senza valore la conoscenza accumulata in anni di esperienza in quel campo, ovvero il loro capitale umano. Essi non erano infatti contro l’avanzamento tecnologico in sé ma contro l’introduzione delle macchine nel proprio settore lavorativo, ben consci che il loro relativo benessere (la tessitura al tempo per quanto lavoro durissimo per i canoni moderni era un lavoro altamente specializzato quindi relativamente ben pagato) sarebbe venuto meno assieme al loro lavoro.
Le ragioni dei luddisti di fatto possono essere estese a tutti quei lavori che nei secoli, a partire dalla prima rivoluzione industriale, sono stati soppiantati dalla macchina a vapore prima, dalla catena di montaggio poi, fino alla moderna automatizzazione ai modernissimi robot industriali e all’intelligenza artificiale. La paura di essere sostituiti, di perdere il lavoro e il salario in favore di una fredda macchina si sta estendendo in tempi moderni a gruppi sempre più larghi della popolazione dando il là a forme di preoccupazione sempre più estese e in alcuni casi a veri e propri movimenti sociali e politici che ottengono consenso in quelle fasce della popolazione che si sentono maggiormente minacciate dall’avanzata del progresso, sia sotto forma di robotizzazione del lavoro che, in generale, come forma di integrazione e modernizzazione dei paesi.
Questo fenomeno ha chiarissime connotazioni nei movimenti sovranisti ed antieuropeisti emersi nell’ultima decade. L’impossibilità di predire una così rapida evoluzione tecnologica assieme alla incapacità di adottare politiche economiche strutturalmente condivise all’interno dell’area Europea (e con esse l’incapacità comunicativa anche laddove tali politiche siano state attuate) e al dicotomico ruolo dei rappresentati eletti nelle istituzioni Europee che li ha schiacciati tra la tutela dell’interesse nazionale e gli obbiettivi comunitari hanno di fatto permesso uno scarico di responsabilità (spesso nazionali) verso “la cattiva Europa dei burocrati”.
[…]
Possiamo quindi estendere questa onda “luddista” ad una generalizzata avversione alla modernità percepita come un mondo da cui non solo non si ottengono in molti casi vantaggi, ma che spesso per altro si accompagna con un peggioramento dello stile di vita. Nello specifico ciò che maggiormente spaventa le popolazioni è infatti l’essere investiti da una concorrenza che mette a rischio i salari e il benessere acquisito. In questo modo si spiega la paura nel caso dell’automatizzazione dei robot, nel caso dell’immigrazione del migrante, nel caso delle infrastrutture del fatto che esse rendano non più sostenibile un certo modo di vivere turbando quello stile di vita. Questo fenomeno si estrinseca con maggiore forza in quei territori che vivevano un relativo benessere (ecco perché l’Italia presenta maggiore preoccupazione verso l’Europa rispetto a Spagna e Polonia che erano fortemente attardate fino agli anni ’90) in cui il capitale umano scarseggia (rendendo molto più dura la concorrenza soprattutto nelle attività lavorative ripetitive) e dove quindi i benefici dell’apertura e della modernizzazione sono di fatto più che superati dai costi percepiti delle stesse.
[…]
I robot industriali e l’IA hanno il potenziale per ribaltare il mondo della produzione (di beni e servizi) per come lo conosciamo. Macchine autonome, riprogrammabili, mobili su tutti gli assi spaziali, in grado di fare meglio e in minor tempo il lavoro umano, in grado di sostituire invece che complementare le funzioni lavorative degli uomini pongono il mondo di fronte ad una sfida non indifferente. Siamo davvero davanti a questo tipo di rivoluzione?
Stando a McKinsey & Company (2017) la risposta è affermativa. L’autorevole istituto di analisi sostiene infatti che nei prossimi cinquant’anni la crescita economica programmata[1] sarà di fatto quasi completamente dovuta alla crescita di produttività (Figura 13).
Gli effetti di tale fenomeno sono, come già evidenziato, particolarmente importanti. Una crescita sostenuta solo da aumento di produttività, anche in assenza di importanti ricadute negative dirette, come nel caso della crisi del 1929, implica di per sé il mancato rispetto degli obbiettivi di sviluppo proposti dai paesi. La mancanza di domanda di lavoro, a fronte di un costante aumento della popolazione (mondiale) aumenterà la pressione verso il basso dei salari indebolendo il potere di acquisto delle famiglie, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione aumentando il divario tra ricchi e poveri, bloccando la scala mobile sociale e, di fatto, rendendo il valore della rendita di gran lunga più importante del valore del reddito da lavoro (Piketty and Zucman, 2014). Va anche sottolineato che tale scenario pessimistico può o quantomeno potrebbe essere gestito dal policy maker.
Il McKinsey institute tuttavia non pone solo l’accento sul potenziale di crescita dell’economia, ma su come tale crescita influenzerà il lavoro come lo conosciamo oggi. Il 60% delle occupazioni ha un potenziale di automatizzazione che raggiunge il 30%, con circa il 5% delle occupazioni stesse che oggi risulta di fatto completamente automatizzabile (Figura 14).
FIGURA 14. FONTE: MCKINSEY & COMPANY (2017). PICTURE TAKEN FROM EXECUTIVE SUMMARY.
[…]
Se questi sono stati gli effetti della crescita tecnologica (non gestita e governata in gran parte dei paesi) sui mercati del lavoro negli ultimi 20 anni, ancora più forti possono essere tali ritorni nel prossimo futuro. Se infatti OECD considera nei prossimi 10-20 anni ad alto rischio di automatizzazione circa il 10% dei lavori nei paesi OECD, circa un lavoro su due verrà comunque, secondo le loro previsioni, profondamente mutato nel periodo.
Le disparità all’interno delle nazioni tuttavia non si limitano a distribuzione salariale, disponibilità o meno di capitale umano e, a suo contraltare, mancanza dello stesso generatrice di bias tecnologico[2], si riflettono fortemente sulle disparità territoriali all’interno delle nazioni. Piccole variazioni aggregate a livello nazionale spesso nascondono enormi differenze interne alle nazioni nei tassi di crescita. I tassi di occupazione differiscono fortemente tra aree geografiche non più, o quantomeno non solamente, in funzione della dotazione di risorse naturali e di accesso alle infrastrutture ma, soprattutto, in funzione della connessione coi grandi centri urbani che stanno “gentrificando” l’economia.
È infatti nelle aree urbane maggiori che le opportunità offerte dalla tecnologia grazie ad economie di scala e di scopo permettono un forte miglioramento delle condizioni lavorative e quindi reddituali. La necessità di concentrazione territoriale è infatti una delle peculiarità della cosiddetta economia della conoscenza (knowledge economy).
D’altra parte, la sostituzione degli esseri umani nel mercato del lavoro da parte delle macchine non deve e non può essere vista solo come un pericolo. Esiste infatti un messaggio positivo: l’aumento di automatizzazione libera forze per attività meno ri- petitive e più liberali. In quelle aree, in generale aree urbane, in cui si sviluppa richie- sta di servizi ad alta educazione, il rischio di automatizzazione diminuisce fortemente e in generale si osserva una crescita del benessere e delle opportunità professionali.
[1] Ovvero quella crescita mondiale necessaria a raggiungere gli obbiettivi di crescita in termini di GDP per capita che i paesi hanno fissato nelle agende 2060 di sviluppo.
[2] Con bias tecnologico o gap tecnologico si intende generalmente l’impossibilità (per motivi culturali, di studio o di capacità individuali) di accedere in maniera appropriata alle nuove tecnologie e ai benefit che possono fornire sul mercato lavorativo.
Creare ricchezza senza lavoro. Il dramma tecnologico
La rivoluzione tecnologica travolge i sistemi economici e sociali. È noto – l’ha spiegato bene, tra gli altri, Roberto Sommella sul Corriere del 4 giugno [2015] – ed è solamente l’inizio: la sua diffusione richiede il compimento di un ciclo di investimenti. Nessuno dubita delle opportunità legate all’innovazione, né può pensare di fermarla. Sono lontani i tempi in cui Newton e Leibniz inventavano contemporaneamente il calcolo infinitesimale e non sapevano uno dell’altro. Il problema, semmai, è se le strutture sociali e politiche dell’Occidente meritino di sopravvivere a questo terremoto e siano in grado di farlo.
Credo lo meritino. Nella storia, niente ha difeso ed ampliato il concetto di dignità della persona come l’evoluzione del rapporto tra democrazia e capitalismo attorno ai principi di sovranità, proprietà, uguaglianza e solidarietà. Non è detto ci riescano. Il filosofo Emanuele Severino ritiene che la tecnica si mangerà tanto il capitalismo che la democrazia.
Dall’inizio del secolo, la produttività cresce ma l’occupazione ed i salari scendono. «La disoccupazione è peggio della povertà», diceva George Orwell: non è pacifico che le società occidentali possano convivere con un «esercito industriale di riserva» indotto dall’innovazione e ben più ampio della «disoccupazione naturale» cui ci ha abituati la teoria economica. Lavoro e crescita non marciano più insieme, la tecnologia premia coloro che la dominano, rende marginali numerose imprese e favorisce una concentrazione industriale di fronte alla quale ben poco potranno le autorità per la tutela della concorrenza. Così aumenta la diseguaglianza: che si è ridotta tra i Paesi ma è cresciuta al loro interno di oltre il 15 per cento tra il 1988 ed il 2008, stando alla Banca Mondiale. Non è non caso. Negli Stati Uniti, la quota di reddito nazionale allocata al lavoro – stabile al 65 per cento dal dopoguerra al 2000 – è scesa di quindici punti percentuali a favore di quella destinata a remunerare il capitale. Lo stesso è successo in Europa. È l’effetto dell’internazionalizzazione della finanza, che va a braccetto con l’innovazione tecnologica e rappresenta – insieme a quest’ultima – la vera discontinuità introdotta dalla globalizzazione. Ogni spesa, pubblica o privata, viene finanziata sui mercati. Le politiche pubbliche dipendono – assai più che dalle preferenze degli elettori – dall’accesso ai mercati e dal costo che questi impongono al debito dei governi; i progetti industriali sono funzione della remunerazione dei capitali raccolti dalle imprese.
Le possibilità di sopravvivenza del nostro modello politico e sociale risiedono nella capacità di gestire il rapporto tra innovazione tecnologica, distribuzione del reddito e principio di sovranità.
Lo Stato, piaccia o no, è il principale motore dello sviluppo di scienza e tecnica: oltre l’80 per cento delle invenzioni più importanti degli ultimi cinquant’anni non sarebbero state possibili senza l’intervento pubblico. Solamente una corretta distribuzione dei proventi delle innovazioni tra contribuenti, azionisti e lavoratori, potrà innescare un circolo virtuoso tra innovazione ed uguaglianza, facendo sì che l’abbondanza creata dalla prima non distrugga la seconda.
Lo si potrebbe fare, ad esempio, costituendo fondi per l’innovazione che assicurino un ritorno trasparente al contributo dato dallo Stato: il quale potrà reinvestire i proventi in altre iniziative, sostenendo anche attività ad elevata intensità di capitale umano qualificato. Ovvero assicurando incentivi fiscali ai «capitali pazienti», per stimolare gli investimenti produttivi di lungo periodo. Che potrebbero essere aiutati da istituti di credito dedicati al finanziamento delle iniziative industriali, condividendo tempi e rischi dell’innovazione. Infine, se la diseguaglianza è «una corsa tra istruzione e tecnologia», un sistema scolastico universale nell’accesso e rigoroso nelle valutazioni renderà meno acuto il divario sociale e creerà cittadini più consapevoli.
Non si tratta di resuscitare lo Stato assistenziale. Bensì di consentire alla democrazia di competere con sistemi che costano meno, garantiscono poco e si dichiarano più rapidi ed efficienti: ma, nel vantarsi della loro minore complessità, si dimenticano di alcune conquiste fondamentali degli ordinamenti liberali.
Spetta alla politica muoversi. Solamente uno Stato non succube delle trasformazioni della storia potrà salvaguardare la sovranità sua e dei suoi cittadini. Ai quali si potranno chiedere impegni e presentare credibili prospettive. Tra le quali, parlando di Europa, quella di aumentare il carattere sovranazionale di quest’ultima come sola opportunità per affrontare un futuro incerto. Non era questa l’idea di coloro che per primi pensarono all’Euro? I quali si sono forse ricordati che, come ammoniva Plutarco, «la distanza tra ricchi e poveri è la piaga più vecchia e letale per tutte le repubbliche».
Altrilavori – Immagini dal pianeta 4.0
A partire dal complesso fenomeno della “Jobless Society”, la mostra riflette sulla possibilità di definire un nuovo immaginario fotografico del lavoro.
Se nella prima parte del Novecento e nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale l’evoluzione del lavoro è stata accompagnata da un apparato iconografico estremamente chiaro e riconoscibile, le ultime radicali trasformazioni in questo settore non sono invece state seguite da un simile adeguamento sul piano della ricerca visiva. ALTRILAVORI risponde a questa mancanza formulando una serie di proposte che riflettono lo stato attuale del mondo del lavoro e ne rappresentano alcune caratteristiche: l’interconnessione; la condivisione di strumenti, spazi e infrastrutture; la specializzazione e la dilatazione delle competenze individuali; l’automazione tecnologica e la sua integrazione con l’attività dell’uomo. La natura sostanzialmente immateriale della gran parte di queste qualità distintive ha costituito la sfida più complessa per ogni autore, chiamato ad utilizzare il linguaggio puramente visivo della fotografia per confrontarsi con l’invisibile e trasformarlo nel suo opposto.
ALTRILAVORI prende le mosse dal presente, l’unico tempo che la fotografia possa cogliere, per compiere uno slancio nel prossimo futuro: come rabdomanti nell’era digitale, nel proporre una nuova iconografia i giovani autori di questa mostra hanno captato indizi, sintomi e segnali delle possibili alterazioni dell’universo che li attende.
Una mostra d’arte – a volte cinica, a volte ironica – che traduce il capitalismo contemporaneo in un gioco di riflessi tra uomo e macchina, dove non sono solo i dispositivi tecnologici a imitare e sfidare l’intelligenza umana, ma è anche l’uomo che finisce per incarnare la ripetitività del gesto meccanico. Dove software e manifattura digitale rivisitano il processo poietico e creativo delle attività umane, la soggettività e i processi di individuazione incontrano contesti spersonalizzati e automatizzati, l’identità di ciascuno si arricchisce, in chiave unica e personale, di nuove competenze e insieme si riduce a numero di una statistica.
ALTRILAVORI – Immagini dal pianeta 4.0 inaugura martedì 30 maggio e presenta i lavori di Alessandro Braconi, Nicolò Carlon, Alice De Santis, Andres Diaz Rosselli, Claudia D’Oncieu De Chaffardon, Claudia Fuggetti, Irene Guandalini, Ke Huang, Giulia Leggieri, Li Jialin, Antonio Liverani, Flavio Moriniello, Paola Ristoldo, Federica Rossi, Tania Zangrillo, Zhang Yi. Rimarrà aperta al pubblico fino al 21 giugno 2017.
Alessandro Braconi
Sotto lo stesso link
Prelevando 1636 fotografie dagli account personali di Linkedin e trasponendole nel formato ludico della figurina, il progetto ha indagato il tema della produzione di soggettività nel capitalismo contemporaneo: i processi di individuazione nel mondo del lavoro e la diffusione delle tecnologie digitali disegnano il luogo di una ricomposizione dai tratti distopici, un incasellamento in cui si è sempre presenti e allo stesso tempo proiettati in un altrove.
Nicolò Carlon e Antonio Liverani
Workers
Il progetto è composto da tre fotografie di operai colti nell’atto di svolgere movimenti ripetitivi e meccanici. Al centro del progetto c’è l’operaio, in quanto uomo ma allo stesso tempo macchina, visto da una prospettiva che toglie la soggettività dell’individuo e lo rende automa. Alle singole fotografie è stata applicata successivamente una grafica che fa riferimento alla filigrana delle banconote. È una riflessione sul salario percepito dagli operai, che nonostante la grande mole di lavoro rimane circoscritto ai margini della rilevanza sociale.
Claudia D’Oncieu e Irene Guandalini
Error404
È un’indagine immaginaria e divertita sull’automazione progressiva del lavoro. Nella creazione di un dispositivo tecnologico, l’uomo trasforma parte della propria identità in codice, per trasmetterla poi alla macchina. Se l’allievo arriva a superare il maestro, quale spazio d’azione rimane a quest’ultimo? Error404 presenta l’ipotetico codice di programmazione di alcune professioni, delineando una mappa di situazioni in cui l’imprevisto o l’errore evidenziano delle falle nel sistema operativo.
Alice De Santis e Giulia Leggieri
Humans Need Not Apply
Il progetto riflette sui processi di integrazione tra lavoratori e nuove tecnologie nei magazzini delle aziende che si occupano di vendita online e spedizioni. Si è scelto un tipo di manipolazione grafica che evidenziasse visivamente la presenza umana, staccando dalla superficie dell’immagine ogni lavoratore e lasciando al suo posto delle sagome bianche. In questo processo di sparizione, ogni sagoma presente nell’immagine rappresenta simbolicamente le competenze tipiche del lavoratore umano che verrebbero a mancare qualora questo venisse totalmente sostituito dalle macchine.
Andres Díaz
Digital Divide
Questo lavoro riflette sulle differenze prodotte dal cosiddetto “digital divide”, che colpisce proprio le categorie di persone e le nazioni alle quali la rete e le nuove tecnologie potrebbero letteralmente cambiare, e salvare, la vita.
Claudia Fuggetti
Spacelab
Spacelab è un progetto sulla stampa 3D che, pur esistendo da diverso tempo, ha avuto un vero e proprio exploit di impiego solo negli ultimi anni, in quanto diversi brevetti sono giunti in fase di scadenza. Questa tecnologia è destinata ad evolversi e sarà forse tra i protagonisti del mondo del lavoro 4.0.
Jialin Li
Self-service
Il progetto evidenzia, con immagini prese in grande quantità da un motore di ricerca cinese, la grande diffusione in Cina di un metodo automatizzato di ritiro della corrispondenza che sta sostituendo il mestiere di postino e perfino la necessità delle zone di consegna negli uffici postali. Le comunicazioni postali hanno affrontato cambiamenti enormi negli ultimi decenni, con il diffondersi di possibilità alternative a quelle tradizionali che hanno implicato la riconversione di molte attività connesse che erano gestite da lavoratori.
Flavio Moriniello
Point and Line to Plane to Color
Questo lavoro è un percorso di ricerca che parte dall’individuazione di possibili nuovi strumenti creativi aventi caratteristiche peculiari del Lavoro 4.0. Per la realizzazione di queste immagini si sono utilizzati software online che utilizzano reti neurali per produrre in modo automatico immagini potenzialmente artistiche, con modalità evolutive affini all’autoapprendimento delle intelligenze artificiali. Il processo genera varie immagini aprendo una riflessione sul concetto di “stile” e “contenuto” dal punto di vista di una macchina.
Paola Ristoldo e Federica Rossi
Common Solutions
Questo progetto è interamente realizzato attraverso il prelievo dalla rete di immagini di persone riprese accidentalmente durante le operazioni di mappatura per software come Google Earth e Google Maps. Le fotografie così ricavate e ingrandite sono state successivamente sovraimpresse con frasi tratte da vari siti che suggeriscono le strategie più efficaci per affrontare la ricerca di un lavoro.
Tania Zangrillo
Il futuro è oggi
Il mondo del lavoro sta attraversando profonde trasformazioni; alcuni mestieri stanno scomparendo, altri cambiano radicalmente, mentre nuove figure professionali prendono vita. Cosa significa concretamente questo passaggio? Attraverso uno stile simile al fotoromanzo, si ripercorrono qui le vicende di una piccola attività commerciale in Italia.
Yi Zhang
Thousand-handed Goddess
La figura che ha ispirato la serie di poster proviene dalla mitologia cinese, dove il dio dalle mille braccia può gestire contemporaneamente situazioni diverse. Attualmente le aziende, che vogliono vedere i loro profitti crescere a discapito dei salari dei lavoratori, cercano qualcuno di simile al dio dalle mille braccia, qualcuno cioè di altamente specializzato in grado di adempiere con rapidità a compiti molto diversi tra loro. Nel prossimo futuro ci verranno richieste sempre più competenze che sappiano soddisfare i requisiti imposti dalla società e dalla carriera.
Ke Huang
Ogni numero è una storia
La scienza e la tecnologia sono in continuo sviluppo e hanno ormai superato la velocità dell’auto-riflessione umana. Ogni persona ora è un numero di una statistica, ma rimane al contempo un individuo con una storia personale, di cui qui viene mostrato un esempio. I nostri passi lasciano una traccia per chi viene dopo di noi.