Conflitto
Capitolo 5
I lavoratori organizzati hanno saputo reagire alla compressione che dalla loro personalità di uomini si compiva nelle fabbriche (…) e con la loro combattività hanno strappato nei contratti collettivi molte delle conquiste che oggi questa legge rafforza ed eleva al rango di principi proprio dell’intera collettività nazionale.
Lo statuto dei lavoratori è legge
in “Avanti!”, 15 maggio 197
Creare spazi
È grazie al conflitto che la realtà può essere trasformata. Se si osserva lo sviluppo del mondo del lavoro nel corso del Novecento, le rivendicazioni si sono espresse attraverso lotte e conflitti sociali che provocano gradualmente un allargamento dello spazio di cittadinanza.
Lotta
Organizzandosi, le forze politiche e sindacali hanno contribuito a trasformare lo status quo, rendendo possibile la conquista di diritti fino ad allora ignorati. Lottando contro le dinamiche padronali, si ottengono, tra gli altri, le ferie retribuite, malattia e infortuni, permessi di gravidanza, pensionamento, giornata lavorativa di otto ore. Nel momento in cui cerca di superare diseguaglianze per affermare diritti, il conflitto crea comunicazione e riconoscimento: da una contaminazione tra pulsioni politiche diverse in Italia nel 1970 è nato lo Statuto dei lavoratori.
Nuovi conflitti, nuove lotte
Oggi di fronte alla diminuita conflittualità sociale e alla frammentazione del mondo del lavoro, diritti garantiti dalla legge restano in realtà sulla carta per molteplici categorie di lavoratori. Vi è dunque un legame fortissimo tra le trasformazioni che hanno interessato il mondo del lavoro e la società: queste contaminazioni producono nuove rivendicazioni di diritti e, a loro volta, generano nuovi conflitti forieri di rinnovate esigenze e bisogni.
Guarda la photogallery
I documenti hanno duplice valenza: da un lato, illustrare l’arretratezza del sistema paese italiano, che doveva essere aggiornato per proteggere i più deboli sui luoghi di lavoro; dall’altro, neanche l’approvazione dello Statuto dei lavoratori rendeva totalmente sicuri i processi produttivi.
1. Per una legge sul Lavoro delle Donne e dei Fanciulli, Tipografia degli operai, Milano, 1900, p. 4 [schema di disegno di legge redatto da Anna Kuliscioff].
“In fatto di protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli l’Italia è ancora l’ultima fra le nazioni civili. La legge insufficiente e derisoria dell’86 non viene quasi mai applicata; da vent’anni il Parlamento rinvia dall’una all’altra legislatura nuovi progetti di legge relativi a questa materia, ed ora sembra aver cessato anche di occuparsene. Nell’annunzio dei disegni di leggi sociali fatto all’inizio della legislatura presente, del lavoro delle donne e dei fanciulli non fu fatto cenno.
Eppure si tratta di un argomento che non riguarda soltanto le classi operaie, più direttamente interessate, ma dal quale dipendono la salute la forza, il progresso fisico e morale della specie umana, che l’industria moderna compromette ogni giorno più. Senonché i fatti ci provano che questo interesse è ben lunge da essere sentito dalle classi dirigenti italiane. Solo uno sforzo cosciente, intelligente, un’azione compatta ed assidua dei lavoratori organizzati, potrà strappare al Governo dei capitalisti la protezione della maternità e dell’infanzia. È tempo che voi stessi ne prendiate l’iniziativa”.
2. NO! Al qualunquismo, in “Il puntello: giornale unitario del Consiglio di fabbrica Ponteggi – Dalmine”, gennaio 1973.
“La verità è, che questi fanno come gli struzzi che quando c’è qualche pericolo mettono la testa sotto la sabbia, sperando che il pericolo passi. Credono forse costoro, che gli aumenti, le conquiste che abbiamo ottenuto in passato, ci siano venute dal cielo, o ce l’hanno regalate i padroni o i governi in un momento di crisi religiosa? Bisogna proprio essere ciechi ed ottusi per non capire che se abbiamo conquistato qualcosa, se abbiamo ottenuto maggior potere in fabbrica, è perché abbiamo lottato, l’abbiamo strappato al padrone con duri sacrifici”.
3. “L’Unità”, 4 ottobre 1969
Approfondimento
Che fine ha fatto il conflitto sociale?
Comunicazione e democrazia: un binomio inscindibile
Come sta cambiando il capitalismo occidentale?
“Prima o poi i conti tra noi li dovremo fare”. Quarant’anni dopo il Convegno bolognese sulla repressione
Che fine ha fatto il conflitto sociale?
L’immagine è tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. L’istantanea raffigura un’assemblea dell’Alfa Romeo di fine anni settanta.
Nel tempo della disintegrazione del lavoro salariato, della progressiva erosione dei diritti, dell’aumento crescente di disuguaglianze, disoccupazione, vulnerabilità, instabilità economica e sociale, vale la pena interrogarsi sul ruolo del conflitto. Nei nuovi, per certi versi inediti rapporti di lavoro emersi nell’era digitale, dov’è il conflitto? Si può parlare di aumento, diminuzione, moltiplicazione dei conflitti nei rapporti di lavoro in questo momento storico? Quali sarebbero i regimi di lavoro dell’economia capitalistica contemporanea in cui emergono maggiori mobilitazioni, e quali le dimensioni in cui si registra la totale assenza di tensioni?
Rispondere a questa serie di domande senza dare nulla per scontato è un’operazione semplice solo in apparenza, e sebbene possa sembrare banale, si tratta di una riflessione necessaria a osservare ciò che è ovvio nel tentativo di decostruirlo. La ricerca di una risposta generale rischia di ridurre la complessità delle reali, molteplici forme di mobilitazione sociale nei rapporti di lavoro oggi, in Italia e non solo, ma anche di sminuire le contraddizioni che emergono nei processi di lotta, che andrebbero analizzate di pari passo per non cadere in analisi strumentali. Interrogarsi su che fine abbia fatto il conflitto sociale nel mondo del lavoro in costante decomposizione può indurre in altre parole ad assecondare un dibattito sterile che cerca di prendere posizione all’interno di una visione dicotomica, superficiale, tra chi in sostanza vede con inguaribile ottimismo aumentare sempre più i conflitti e chi al contrario sostiene che il conflitto non esiste più, che le piazze sono deserte, che i sindacati non servono a nulla se non a gettare acqua sul fuoco, eccetera. Un dibattito privo di sfumature, al di là di ogni “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”.
Come viene raccontato il conflitto nel mondo del lavoro è invece un’ulteriore questione connessa agli interrogativi precedenti. Nella letteratura accademica proliferano studi e analisi sul rapporto tra forme di lavoro e rivoluzione digitale, sul cosiddetto capitalismo delle piattaforme e sulla crisi del valore del lavoro in queste dinamiche. Numerosi sono gli studi che riflettono sui processi di resistenza e sulla varietà delle forme di sindacalizzazione nell’economia delle piattaforme e nel mondo del lavoro condizionato dalle tecniche digitali. Una letteratura ibrida s’interroga poi sulla genesi del conflitto, sulle condizioni materiali che producono l’emergere di una coscienza a partire da un punto di non ritorno in cui la situazione diventa inaccettabile.
A tal proposito, vale la pena di ricordare brevemente due luoghi in cui la conflittualità sembra esprimersi nella sua forma più viva. Il primo luogo riguarda il microcosmo dei lavoratori di consegne del cibo, senza dubbio tra i fronti più caldi del conflitto in questo momento. Più o meno dalla notizia della sentenza che sanciva l’assenza di un vincolo di eterodirezione e dipendenza, il lavoro dei riders delle piattaforme di food delivery è al centro dell’attenzione politica e mediatica, una centralità che è andata di pari passo con i recenti fatti di cronaca – come l’incidente grave di un lavoratore che consegnava cibo a Milano. La stampa e le istituzioni, oltre al mondo accademico e ai sindacati confederali, hanno iniziato a prendere in considerazione le mobilitazioni di questo segmento di forza lavoro, le cui lotte in verità sono portate avanti da molto prima che si accendessero i riflettori su questo universo lavorativo. Sono infatti da almeno due anni che tra i fattorini c’è chi ha iniziato a protestare contro le multinazionali delle piattaforme digitali. Attraverso assemblee, scioperi, pratiche di mutualismo, vertenze legali, è stato riaffermato il diritto alla lotta sindacale per rivendicare un contratto collettivo decente, delle condizioni di lavoro migliori laddove il dispositivo tecnologico esercita controllo e disciplinamento sulla forza lavoro spacciandolo per autonomia. Un sistema che favorisce l’estrazione di valore dalla prestazione di lavoro basandosi sui princìpi dell’accumulazione flessibile, della massima fungibilità e flessibilità di un lavoro che la controparte si ostina a definire autonomo.
Milano, 1960. Manifestazione degli elettromeccanici
Il secondo terreno di conflitti e tensioni è quello che viene generalmente definito come la catena logistica del trasporto merci. E nonostante le differenze, si tratta di un luogo contiguo al primo per due ragioni principali: l’esercizio di un servizio di manipolazione e trasporto di una merce, sia essa il cibo o un pacco di Amazon, e una polarizzazione estrema che passa dall’ipertecnologizzazione delle attività logistiche-distributive da un lato a una perversa deregolamentazione dei diritti più elementari in tema di lavoro dall’altro (si pensi al “modello Amazon” e al rifiuto di riconoscere qualsiasi forma di negoziazione con i sindacati).
I conflitti in questi ambiti evidenziano una questione centrale più volte ribadita dagli studiosi, vale a dire la posizione strategica occupata nel capitalismo reticolare contemporaneo dai lavoratori della logistica e da quelli che movimentano le merci. Un libro uscito di recente parla non a caso di “choke points”, nodi critici e fragili delle catene di fornitura capitalistica in cui sono posizionati gruppi di lavoratori alle prese con lotte e conflitti che sfidano gli stessi principi di accumulazione del capitalismo globale, basati sulla circolazione di beni senza soluzione di continuità e sui processi di accelerazione dei flussi di merci.
Prima di riflettere sulle mutevoli dinamiche di subordinazione e sfruttamento nel mondo del lavoro in questo o quel settore, e sulle relative istanze portate avanti, occorre tuttavia fare un passo indietro e ribadire un principio di natura concettuale: è necessario introdurre la categoria di “conflitto” quando si parla di lavoro (magari evitando retoriche vittimistiche e narrazioni superficiali che tendono a dipingere gli attori principali di queste lotte come dei subalterni). Non si può prescindere dall’uno senza l’altro. È opportuno mettere questa parola di nuovo al centro delle analisi sui mutamenti dei rapporti di lavoro in relazione ai meccanismi di accumulazione della ricchezza nell’economia contemporanea, e riflettere, da un lato, su come questi meccanismi incidono sulle condizioni di vita delle persone coinvolte direttamente, dall’altro su come, dove, perché e in che misura queste persone esprimono o meno istanze di emancipazione collettiva capaci di restituire dignità al lavoro. Se si vogliono interpretare le trasformazioni del lavoro in un’epoca segnata dalla rivoluzione tecnologica e digitale bisognerebbe partire da questa semplice, duplice constatazione: lavoro e conflitto, lavoro è conflitto. Nel suo studio sulle trasformazioni storiche dei movimenti operai, Beverly Silver ha sottolineato come Marx e Polanyi affermavano entrambi, seppure in modo diverso, questo dato di fatto: il lavoro è una “merce fittizia”. Di conseguenza, qualsiasi tentativo di considerare gli esseri umani come una merce al pari di ogni altra non può che portare a contestazioni profondamente sentite e forme di resistenza dalla natura ciclica, a fasi, o oscillatoria e ricorsiva. I conflitti sono quindi endemici rispetto al rapporto tra capitale e lavoro, anzi definiscono in teoria tale rapporto. Nel tempo in cui la prestazione di lavoro è sempre più una merce fungibile, svalorizzata, vale la pena ribadirlo. Ancor di più se ci si chiede spesso come cambia il lavoro mentre ci s’interroga raramente su come dovrebbe cambiare il modo di studiare il lavoro che cambia.
Comunicazione e democrazia: un binomio inscindibile
Nell’immagine, lo storico “dibattito in cucina”: una discussione improvvisata (attraverso interpreti) fra l’allora vice presidente statunitense Richard Nixon e il presidente del Consiglio sovietico Nikita Chruščëv, all’apertura dell’Esposizione Nazionale Americana al Parco Sokolniki di Mosca, il 24 luglio 1959.
Negli anni dell’esplosione della televisione per i dibattiti politici, prima negli Usa e poi in Europa, sembrava che la comunicazione avesse assunto un duplice ruolo: da una parte essa “svelava” la politica e costringeva i politici a un linguaggio più comprensibile; dall’altra parte definiva nuove grammatiche, aprendo la strada alla spettacolarizzazione della politica. Lo stesso dibattito politico divenne rapidamente un “genere” e le valutazioni sull’efficacia comunicativa dei politici sostituiva spesso il dibattito sulle proposte e la loro realizzabilità. La televisione, ovviamente, non aveva inventato né le promesse roboanti (presenti già nel mondo greco e romano) né le menzogne; tuttavia la sua pervasività, la sua capacità di accelerare i flussi informativi determinarono un modo assolutamente nuovo di ridefinire i rapporti di forza nella sfera pubblica nonché le dinamiche di costruzione del consenso. Il fenomeno della mediatizzazione della politica ha accompagnato – con diverse gradazioni – l’evoluzione delle democrazie liberali negli ultimi cinquant’anni.
I media – e più recentemente i social media – si sono affiancati a fenomeni che non hanno però causato: la crisi di credibilità della politica, la delegittimazione delle forme della rappresentanza, la crisi dei partiti di aggregazione di massa come strumenti di regolazione sociale. In qualche caso, i media hanno accelerato tali processi, soprattutto nei casi di evidente disparità informativa fra i diversi contendenti o in quelle situazioni di conflitto di interesse (come in Italia ma non solo) che hanno finito col far perdere legittimità anche al sistema dell’informazione.
Nixon vs. Kennedy, primo dibattito politico in diretta TV
In questo contesto si sono sviluppate tendenze vecchie (ma rinnovate dalla velocizzazione e pervasività della rete) come le fake news o fenomeni variamente interpretati come la cosiddetta post-verità. In realtà, proprio la pluralità di fonti e canali (spesso diffusi proprio grazie ai social media) potrebbe favorire lo sviluppo di potenziali anticorpi alle dinamiche della post-verità; dai siti di fact-checking (esercizio utile ma non sufficiente) a una maggiore attenzione verso il debunking” (cioè l’insieme delle pratiche scientifiche e storiche adottate per confutare e delegittimare affermazioni non verificate o manifestamente false). Cose importanti ma insufficienti se non accompagnate da una presa di responsabilità da parte delle istituzioni e delle agenzie formative nonché dal contrasto alle forme di concentrazione e allo strapotere del capitalismo digitale (più pericoloso delle stesse fake news, come affermava Morozov in un’intervista al Guardian dell’ 8 gennaio 2017).
La comunicazione digitale, tuttavia, ha assunto un ruolo importante anche nelle esperienze di innovazione democratica: dalle forme – prevalentemente top-down – dell’open government alle esperienze più orizzontali di e-democracy o di democrazia deliberativa online. La rete ha così assunto altri significati: spazio di legittimazione delle politiche pubbliche attraverso le consultazioni oppure strumento al servizio di cittadini, istituzioni e imprese e, ancora, opportunità di accesso al dibattito politico. L’emersione della “democrazia liquida” si è spesso affiancata a tendenze tecno-libertarie, che se hanno contribuito all’insorgenza dei tecnopopulismi, hanno pure aperto nuovi potenziali spazi di partecipazione. Finita – apparentemente – la stagione del mediattivismo, i media digitali e la rete sono diventati – apparentemente – nuovi spazi di comunicazione democratica.
Schiacciate fra le rafforzate tendenze autoritarie di governi e apparati di sicurezza globale, le dinamiche più aggressive del neoliberismo digitale e le opportunità di accesso offerte dalle piattaforme di partecipazione democratica, le nuove forme della comunicazione giocano un ruolo non secondario nella trasformazione (talvolta anti-egualitaria) delle democrazie contemporanee.
Come sta cambiando il capitalismo occidentale?
Molte volte il capitalismo è stato dato per finito, e molte volte si è rigenerato cambiando il proprio modo di funzionamento. Non è mai mutata, però, la natura profonda dello “spirito del capitalismo”, cioè il desiderio di trarre un profitto dal proprio lavoro da reinvestire in un continuo processo di accumulazione. È stato proprio questo il motivo del successo del capitalismo come principio di funzionamento dell’economia, a cui si è dovuta adattare la società nel suo complesso dotandosi di istituzioni sociali coerenti con l’incessante processo di accumulazione: dalla famiglia nucleare all’individualismo liberale, dalla democrazia come forma di organizzazione politica al welfare state come difesa dagli effetti negativi della competizione di mercato.
Contrariamente a quanto sostenuto all’inizio degli anni ’90 da alcuni studiosi a proposito della “fine della storia” e dell’inevitabile successo del modello sociale, politico ed economico occidentale, da almeno una ventina d’anni il capitalismo occidentale sta vivendo una profonda trasformazione. I fenomeni che hanno innescato questo processo sono noti, e senza pretese di esaustività possiamo ricordare la globalizzazione economica e culturale e la crescente competizione che essa innesca, le trasformazioni tecnologiche e le conseguenze che queste hanno sull’organizzazione della produzione e del lavoro, l’accelerazione dei movimenti di persone su scala globale che sfidano la rigida concezione della cittadinanza basata sull’appartenenza alla comunità nazionale. La “superiorità” del modello occidentale e la supremazia politica, militare e culturale dei paesi ad esso appartenenti (gli USA in primis) sono drammaticamente messe in discussione dall’emergere di paesi (per prima la Cina) che sono in grado di generare crescita economica e benessere per i propri cittadini pur negando quel pacchetto di diritti individuali (civili, politici e sociali per dirla con Marshall) che sono sempre stati considerati parte integrante e indispensabile del modello occidentale.
E infatti vediamo aumentare le disuguaglianze e regredire i diritti sociali in tutti, o quasi, i paesi occidentali, in primo luogo quelli europei. A questo si accompagnano crescenti tensioni sociali che creano fratture e conflitti sociali che la politica non sembra in grado di ricomporre. Si pensi per esempio al successo che stanno avendo movimenti politici populisti spesso xenofobi e di estrema destra in tutti i paesi europei, e in generale all’estremizzazione del confronto politico che ha portato al successo di Brexit in Gran Bretagna e all’elezione di Donald Trump negli USA.
Manifesto tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Tuttavia si segnalano anche fenomeni che potremmo chiamare di innovazione sociale ed economica, che lasciano immaginare una ridefinizione del modello sociale capitalistico. Innanzitutto, a fronte della crisi delle tradizionali appartenenze collettive (partiti e sindacati in primo luogo) si osservano nuove forme di aggregazione e identificazione da parte dei giovani. Per esempio, nelle città la mobilitazione su istanze locali, invece che sui grandi ideali novecenteschi, sembra in grado di aggregare i cittadini in modo trasversale. Si può forse intravvedere un nuovo tipo di partecipazione democratica non motivata dalle appartenenze contrapposte sull’asse del conflitto tra capitale e lavoro, ma dal riconoscersi cittadini che condividono interessi simili nella difesa del proprio contesto di vita. Quindi, meno ideologia e più pragmatismo. Il successo della sharing economy – al netto dell’uso strumentale che a volte ne viene fatto – è allo stesso tempo una soluzione innovativa che consente anche a chi possiede minori risorse economiche di accedere a consumi che altrimenti gli sarebbero preclusi, e l’espressione di un’attenzione ai beni collettivi che si era forse affievolita nei decenni passati. Il tutto grazie alla diffusione di quelle innovazioni tecnologiche che spesso vengono frettolosamente demonizzate come foriere di disoccupazione e declino economico.
In Western capitalism in transition. Global processes, local challenges (a cura di Andreotti, Benassi e Kazepov, Manchester University Press, in uscita a febbraio 2018), alcuni dei più noti scienziati sociali si interrogano su questi processi di mutamento del capitalismo contemporaneo e che investono diverse dimensioni sociali: il welfare state, la cittadinanza e le nuove forme di mobilitazione sociale, le migrazioni, le trasformazioni urbane, la povertà e i processi di segregazione spaziale.
“Prima o poi i conti tra noi li dovremo fare”. Quarant’anni dopo il Convegno bolognese sulla repressione
Ritenuto da molti osservatori il canto del cigno del «Movimento del 1977», il Convegno sulla repressione che ebbe luogo a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977 scaturiva da un appello contro la repressione in Italia, pubblicato il 5 luglio da «Lotta continua» e firmato da alcuni intellettuali francesi tra cui Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Félix Guattari, Gilles Deleuze, Roland Barthes.
A seguito dell’ampio e aspro dibattito che segue la diffusione dell’appello e delle polemiche tra i francesi e il sindaco comunista di Bologna Renato Zangheri, «Lotta continua» promuove una mobilitazione internazionale per organizzare un Convegno sulla repressione. La kermesse radunerà nel capoluogo emiliano alcune decine di migliaia di militanti di tutto l’arco della sinistra extraparlamentare lungo tre giorni di dibattiti, assemblee (non priva di momenti di tensione quella al Palazzetto dello sport con la contrapposizione frontale tra «Lotta continua» e gli autonomi), concerti e spettacoli teatrali, fino alla grande manifestazione conclusiva cui parteciperanno 35.000 persone.
Scarica il documento originale in formato pdf,
tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Il senso di tutto l’insieme? Un modo di dire al regime: ci siamo, eccoci, siamo tanti, ci state sfasciando il paese e noi ci permettiamo di venire a profanare, a parlare, a progettare: repressione, centrali nucleari, sessualità, violenza, informazione, scienza; con noi prima o poi i conti li dovrete fare.
Anche un modo per dire a noi stessi: ci siamo, eccoci, siamo tanti, ma disgregati, incerti, fragili, diversi. Fra noi ci sono conflitti insanabili e in qualche momento questa città sembra un culo di sacco. Essere quelli “che dicono di no” non è ancora una comune piattaforma di vita e di lavoro. Prima o poi i conti tra noi li dovremo fare.
Da una lettera di Marina V. a «Re Nudo», n. 39, novembre 1977.
Oltre 100.000 giovani parteciparono alle tre giornate bolognesi: dalla sezione Nuova sinistra dell’emeroteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli una galleria di volti, piazze, creazioni artistiche del Movimento del ’77: