Ripensare la pace. Il dopoguerra e la trasformazione della società e del diritto internazionali

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Tra tutte le trasformazioni introdotte o accelerate dalla prima guerra mondiale, le più persistenti si sarebbero rivelate proprio quelle che investirono, sin da subito, l’edificio politico e giuridico della società internazionale.

La prima e la più appariscente fu la transizione all’universalismo, sulle rovine del vecchio ordine eurocentrico dei tre secoli precedenti. Già alla fine del conflitto, il ruolo del presidente americano Woodrow Wilson nella negoziazione della pace rivelò quanto la globalizzazione del conflitto avesse stravolto non soltanto la convivenza interna all’Europa, ma anche gli equilibri con l’esterno e le relazioni con gli Stati Uniti. I continenti stessi si erano trasformati politicamente e economicamente insieme ai modi di conduzione del conflitto e, quindi, a quelli della ratifica della pace.

TogetherWeWinJMFlaggWWIAl tavolo di Versailles, la nuova costituzione politica e giuridica dell’ordine internazionale fu ispirata in gran parte dal presidente americano Wilson, legittimato dal dispiego di forze impiegate dagli U.S.A. nella guerra europea. In quella costituzione, che seguiva il dettato dei «Quattordici Punti» di Wilson, il vecchio impianto stato-centrico della convivenza internazionale moderna cominciava a essere sfidato – sebbene ancora confusamente e tra mille contraddizioni – da principi quali l’autodeterminazione dei popoli e la criminalizzazione della guerra d’aggressione. Questi principi, anzi, trovarono un primo strumento istituzionale nella Società delle Nazioni: un organo ancora fragile di gestione dell’ordine internazionale, destinato a non reggere l’urto delle grandi crisi internazionali del periodo infrabellico, ma pur sempre rappresentativo di una grande trasformazione destinata, dopo il nuovo trauma della seconda guerra mondiale, a trovare espressione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite e a scuotere ben più a fondo l’impianto tradizionale del diritto internazionale. Anche i bagni di folla per le strade delle maggiori città europee attraversate dai rappresentanti internazionali, e le dimostrazioni di piazza pro e contro i provvedimenti presi dai governi, testimoniarono il corto circuito tra la tradizionale diplomazia segreta ottocentesca e la mediatizzazione della politica nella nascente opinione pubblica di massa – perpetuazione, a suo modo, della mobilitazione totale dei cinque anni di guerra, da cui, da qui in avanti, sarà impossibile sottrarre gli eventi e la storia.

 

Ma il nocciolo della trasformazione fu il rapporto politicamente e giuridicamente cruciale tra pace e guerra. Invece che come continuazione (allo stesso tempo razionale e legittima) della politica con altri mezzi, la guerra cominciò a essere guardata come una patologia sociale o una malattia da curare. Da qui si sviluppò la grande ondata pacifista che avrebbe condotto, già nel periodo infrabellico, agli esperimenti di sicurezza collettiva incarnati nella Società delle Nazioni, ai primi accordi collettivi, multilaterali e bilaterali, di riduzione concordata degli armamenti (come la Conferenza di Washington del 1920-21) o di divieto della guerra attraverso il diritto (come il patto Briand-Kellogg del 1928), all’adozione stessa di politiche estere dirette a evitare a ogni costo una nuova guerra, come la politica di appeasement che la Gran Bretagna avrebbe condotto nei confronti della Gecartinarmania di Hitler. Oltre al trauma della guerra appena conclusa, in questa visione progressiva della storia confluirono un’antropologia ottimista di matrice laica o religiosa; la fiducia liberale, mutuata da Adam Smith e Ricardo, nella «naturale armonia» fra gli interessi dei popoli; l’affermazione (all’interno dei principali paesi ma, di riflesso, anche nella rappresentazione della vita internazionale) di culture politiche (rivoluzionarie o riformiste) favorevoli all’ingegneria sociale; l’esistenza stessa di un’Europa «delle Lettere» diffidente delle distorsioni diplomatiche e insofferente al limite fisico dei confini nazionali.

Questa visione in senso lato cosmopolitica della convivenza internazionale, tuttavia, non tardò a scontrarsi con le grandi divisioni emergenti non soltanto sul terreno diplomatico ma, sempre di più, anche su quello ideologico – divisioni che sembravano imporre a tutti, intellettuali compresi, di prendere posizione. Già nell’estate del 1919, nonostante la catastrofe appena conclusa, fu ancora una volta la militarizzazione della politica ad avere la meglio sulla contrattazione diplomatica. Negli stessi mesi, l’attribuzione morale della responsabilità di guerra e, quindi, quella economica del debito e delle riparazioni di questa alla sola Germania, intaccò sul nascere ogni disegno di una pace universale, alimentando i timori di chi già nel 1919 metteva in guardia contro gli squilibri diplomatici e le stesse conseguenze economiche della pace. Di lì a pochi anni, nonostante le nuove illusioni maturate degli anni venti, l’Europa e il mondo si sarebbero trascinati nuovamente sull’orlo di una catastrofe.

Professor Gian Enrico Rusconi «L’Europa verso la catastrofe»:

 


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A distanza di una sola settimana dall’entrata in guerra dell’Italia il settimanale satirico «L’Asino» pubblica una vignetta di Gabriele Galantara che contiene, nella lunga didascalia, un auspicio e un programma: immaginando «il professore dell’Avvenire» davanti a una carta geografica dell’Europa, Galantara con la tragica inconsapevolezza dei suoi contemporanei gli fa dire che «alla fine del 1915 ebbe termine la più atroce guerra del mondo! Il giorno in cui si riunì a Roma il Congresso della Pace, il proletariato di tutto il mondo impose i suoi desiderata: Disarmo generale, arbitraggio obbligatorio, rispetto al diritto di nazionalità. È così che si poté giungere alla pace duratura e agli Stati Uniti d’Europa…». La guerra non sarebbe terminata alla fine del 1915 e gli Stati Uniti d’Europa ancora non si intravedono all’orizzonte – si assiste anzi a spinte contrarie – ma quell’idea di pace e di cosmopolitismo viene alimentata da nuove speranze due anni dopo, quando sempre Galantara rappresenta Wilson che ordina di tagliargli le ali da colomba della pace, oppure quando disegna l’odiato «Guglielmone» colpito dalla sassata di Wilson. All’inizio del 1919 avrà finalmente luogo l’attesissimo viaggio in Europa del presidente americano, accolto trionfalmente in ogni luogo, con tappe nelle principali città italiane tra cui Milano, Torino e Roma.
Al sentimento antitedesco, così sentito da far camuffare da soldati del kaiser persino i cani, fa da contraltare la familiarità anglo-francese, ben rappresentata dagli ufficiali che non rinunciano al tè in zona di guerra, mentre un sentimento collettivo realmente transnazionale ci mostra americani e francesi festeggiare insieme la fine della guerra a Parigi nel novembre 1919.