Un mese fa a Roma al teatro Argentina è andato in scena Tante facce della memoria, uno spettacolo teatrale che racconta il vissuto delle donne vedove e orfane dell’eccidio delle Fosse Ardeatine utilizzando le interviste che lo storico Alessandro Portelli ha fatto per scrivere il suo libro L’ordine è già stato eseguito (Feltrinelli).
In quegli stessi giorni, si apriva a Torino il congresso dell’Anpi che s’interrogava se il suo futuro dovrà parlare la lingua della memoria o, invece, adottare una linea politica sui problemi del presente (la guerra, le forme dello sviluppo, ecc.).
Il tema è sempre lo stesso: il presente è una risposta al passato o è un modo per prendere le misure con un passato che non è mai finito? Diversamente: quanto passato c’è nel presente e come ci si riappropria del passato senza rimanerne intrappolati?
E’ uno degli aspetti della questione. Insieme corre la questione di come il passato sia una risorsa riflessiva per chi ha meno di trent’anni e ha il problema di comprendere quel passato e per certi aspetti di misurarsi con le domande irrisolte che quel passato pone.
Da anni ormai il tema del 25 aprile è questo: che cosa e come si racconta il passato e come quella narrazione si faccia problema non tanto per chi allora non c’era, ma per i nipoti di chi allora non c’era.
Il tema non è solo la condizione specifica dell’Italia. Come ha ricordato su queste pagine Marzia Rosti, riflettendo sul caso Argentino, la questione riguarda tutte le realtà politiche, sociali culturali che all’indomani del crollo delle dittature devono, e non senza lacerazioni vogliono, fare i conti con le memorie ferite.
Che problemi si aprono in termini di giustizia, di rispetto per le vittime, di domande scomode? Non solo a quelli che cercavano la verità allora, a cui in forma diretta una prima voce fu, nel 1985, il film La historia oficial , ma anche una, due generazioni dopo, a quelli che sono adolescenti oggi e si chiedono come ci ha richiamato Carlo Greppi, “i tuoi genitori sono le persone che ti hanno messo al mondo o sono della cerchia di coloro che li uccisero? E, se sei sicuro della tua identità biologica, sai da che parte stavano le persone che ti vivono intorno?”
Non c’è la morbosità in quelle domande, c’è un modo di misurarsi direttamente con il passato che riguarda il nostro presente. Perché è facile essere intransigenti col passato. Poi si tratta di misurare quel passato su di noi, qui e ora e chiamarsi in prima persona a rispondere. Un corpo a corpo con le scelte e ciò che dalle scelte deriva senza lasciare niente di non detto o sapendo che il non detto è un atto di omissione.
Sono le domande che in forma più analitica Carlo Greppi ha ripreso con Uomini in grigio.
Quelle domande che scavano nelle scene di allora si propongono oggi perché quel passato è tornato a bruciare e a indicare che nei momenti di scelta ci sono le incertezze, le indecisioni, i percorsi confusi.
La storia non è fatta di maschere, è fatta di incroci, di continui passaggi in cui per i molti individui che popolano la scena si ripete la necessità di scegliere, di trovare un percorso.
Le domande che nel presente rivolgiamo al passato non dicono della nostra morbosità di sapere, o di giudicare, ma sono termometri: dicono della nostra sensibilità, del nostro malessere, e della nostra voglia di non accontentarci.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
25/04/2016