Guardarsi in faccia, dopo
Loro avevano obbedito e adesso guardavano lo sciancato che si dissanguava, certo che facciamo un lavoro di merda, disse il longammatula, proprio di merda compare, rispose quello tracagnotto, però qualcuno deve farlo e allora meglio stare con quelli che appendono ai ganci, disse il lungagnone, meglio pulire le pozzanghere di sangue e di piscio che starci noi lassù, fece l’altro, messi in croce senza nemmeno sapere perché.
[Claudio Fava, Mar del Plata]
Che poi arriva sempre, il momento in cui il tuo tempo arriva a chiederti conto del recente passato. La causa scatenante può essere un incontro, una scoperta, un’inchiesta coraggiosa, un film. La potenza evocativa che oggi possono avere i social networks, la contraddittoria capacità di interrogare il presente, nella seconda metà del Novecento ce l’ha spesso avuta il cinema. Ed è proprio un film, girato prima ancora che incominciassero i primi processi contro le giunte militari, ad aver aperto gli occhi della società argentina su quella ferita.
Quando La Historia Oficial venne proiettato la prima volta nei cinema di oltreoceano, nel 1985, io avevo poco più di due anni di vita.
Prima che la dittatura argentina venisse spazzata via dal vento della storia io non c’ero, non ho nessun ricordo neanche delle voci e delle proteste della comunità internazionale – all’inizio inesistenti, poi flebili, poi qualcosa di più – e, per questo, molte cose non le posso sapere. Non posso avere ricordi dell’atmosfera asfissiante nella quale è stata annientata una generazione. Laggiù, in Argentina, le persone sparivano, a migliaia, a decine di migliaia. In alcuni casi, il nulla ingoiava intere rete amicali, come nel caso dei 18 ragazzi del Rugby Club “La Plata”, la cui storia è stata raccontata in Mar del Plata, il libro di Claudio Fava che ne riprende in un intreccio finzionale la storia attraverso la memoria di uno scampato, il capitano Raul Barandiaran.
Non sono pochi i sopravvissuti a raccontare che la maggior parte dei loro amici, o dei loro compagni di militanza, un giorno c’erano e la mattina dopo non erano più, e alcuni tra loro hanno covato quel sentimento così comune tra i reduci, il senso di colpa – ed è un’approssimazione per difetto che non riesce a descrivere quel groviglio di sentimenti – di esserci ancora.
A quarant’anni dal golpe dei militari guidati da Jorge Rafael Videla, la memoria, la storia e la giustizia sono passate più volte sui sette anni della dittatura nel corso dei quali – per un tragico e involontario scherzo del destino – l’Argentina ospitò e vinse anche un mondiale di calcio, quello del 1978. Molto è stato scritto ed è stato detto, a partire dal significato di quel mondiale, che da un lato è servito a ripulire l’immagine della giunta davanti all’opinione pubblica mondiale, dall’altro è stato un primo spiraglio per poter denunciare le sistematiche violazioni della dittatura. Primi tra tutti, i voli della morte, i trentamila desaparecidos, e il numero incerto di loro figli.
Ed è questo forse il tratto di quella storia che ti rimane sottopelle, a occupartene (ne ho avuto l’opportunità in occasione di uno speciale “Il tempo e la storia” di Rai Storia che ho condotto.
René Rémond sosteneva, a proposito della “storia del tempo presente”, che “fintanto che vive tra noi un uomo o una donna che ha conosciuto un momento del passato, questo momento fa parte del contemporaneo; il giorno in cui l’ultimo testimone passa a miglior vita, questo passato ricade in un’altra sezione della storia. Non siamo dunque noi che decidiamo più o meno arbitrariamente del punto di partenza di questa divisione; è la vita, o piuttosto la morte”. Ecco: è ancora bruciante, è ancora a noi contemporanea, la memoria delle sparizioni, per i pochi che sono sopravvissuti sono indelebili i volti dei torturatori, che in molti casi si sono semplicemente rifatti una vita, che hanno sessanta, settant’anni, o anche meno. E, per molti giovani adulti della mia età o con pochi anni in più, la scoperta di una verità angosciante può essere sempre dietro l’angolo. Sì, perché tanti di quelli che sparivano nell’Argentina di allora erano giovani, innamorati, travolti dalla voglia di vivere, e molte ragazze erano incinta. E allora la domanda, nell’Argentina di oggi, è: i tuoi genitori sono le persone che ti hanno messo al mondo o sono della cerchia di coloro che li uccisero? E, se sei sicuro della tua identità biologica, sai da che parte stavano le persone che ti vivono intorno? Spalleggiavano la dittatura, pulivano le pozzanghere di piscio e sangue degli oltre trecento centri di detenzione clandestina, popolavano quel magma indistinto e grigio di complicità e paura?
Perché il nostro presente, in qualunque epoca scorra, coltiva sempre il futuro di sé, un futuro in cui un ragazzo, un giovane adulto, un vicino di casa, ti guarderà in faccia e ti dirà: io so, e se non so voglio sapere.
Carlo Greppi
Scrittore
24/04/2016