Non solo storia – Calendario Civile \ #21gennaio 1921
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#3 Le forme del conflitto e della partecipazione | #4 Le proposte e l’idea di civiltà
La storia del Partito comunista italiano, il più grande e importante fra i partiti comunisti nazionali dell’Europa occidentale, ha accompagnato la storia italiana per settant’anni. Oggi dell’esperienza storica del PCI resta davvero poco, sebbene sia stata una storia di ideali, valori, dirigenza politica, impegno intellettuale e militanza di popolo che ha segnato l’evoluzione democratica del nostro Paese. Poco resta anche della fase storica che accompagnò la fine del PCI, dalla cosiddetta svolta della Bolognina di Achille Occhetto del 1989 al XX Congresso di Rimini del 1991.
Guarda l’intervista a Gianfranco Bettin, Federazione dei Verdi
La società italiana di oggi, la sua fotografia uscita dalle elezioni politiche del 2018 così come le contraddizioni sociali che la attraversano in questi mesi di emergenza pandemica, sono ormai culturalmente e socialmente lontani anni luce dagli eventi dell’89 e dalla fine della cosiddetta Repubblica dei partiti. E la doppia cesura che ormai ci separa dalla fine del PCI, quella del 1992/93 (Tangentopoli e crisi del sistema dei partiti della cosiddetta Prima repubblica) e quella – più recente – del 2013 (terremoto elettorale, affermazione del M5S e implosione del bipolarismo della Seconda repubblica, che ha poi aperto la strada alle nuove espressioni sovraniste di Lega e Fratelli d’Italia), rendono pressoché impossibile qualsiasi tentativo di aggiornamento di quella storia. È pertanto difficile interrogarsi su ciò che di quella storia può ancora tornare utile alla costruzione di una prospettiva progressista e di sinistra, senza indulgere verso una qualche forma di utopia regressiva, o di nostalgia del passato, che rischia di trasformare un’utile riflessione critica sulla vicenda storica di quel partito in una malinconica rievocazione dell’esperienza comunista ad uso esclusivo di chi ne fu protagonista e oggi si ritrova smarrito nella condizione di un reduce senza patria.
Fatta questa doverosa premessa, che in parte trova motivo anche nel fatto che chi scrive, anzitutto per ragioni generazionali, non ha avuto modo di condividere personalmente il senso di quella esperienza politica, credo che la vicenda del PCI e del movimento comunista nella sua peculiare versione nazionale italiana possa essere ripensata e attualizzata rispetto a quattro diverse angolature: come soggetto politico di azione organizzata; come cultura politica e koinè intellettuale; come gruppi dirigenti; e come comunità di militanti. È attraverso queste quattro dimensioni fondamentali che è possibile riflettere sulla vicenda del PCI, andando alla ricerca di suggestioni e ispirazioni utili alla costruzione della sinistra di domani.
Non possiamo però dimenticare che la storia del PCI, a parte le importanti esperienze amministrative di governo a livello locale e regionale che ne hanno a lungo alimentato l’affermazione nelle cosiddette regioni rosse, oltre che in alcune grandi realtà urbane del nostro Paese, è stata quella di un partito condannato all’opposizione. La conventio ad excludendum che fa del Partito comunista italiano la principale forza politica di opposizione del nostro sistema democratico per una quarantina di anni circa, dal 1947 al 1991 (con la sola parentesi dei governi di solidarietà nazionale fra il 1976 e il 1979), impedisce infatti a quel partito come soggetto politico di azione organizzata di competere per il governo, inibendone la possibilità di assumere un ruolo di guida responsabile – nell’esercizio di una funzione di governo, per l’appunto – della trasformazione della società italiana. E se ciò, da un lato, ingabbia il PCI in un permanente rapporto consociativo con la DC che impedirà all’Italia di diventare una matura democrazia dell’alternanza, dall’altro non gli impedirà di essere comunque un protagonista importante, quando non addirittura decisivo, della nostra storia repubblicana. Questo protagonismo si deve anzitutto alla sua natura di partito a integrazione di massa. Una caratteristica fondamentale dell’esperienza dei comunisti italiani, che dal punto di vista storico deve soprattutto attribuirsi alla lungimiranza di Togliatti e alla svolta di Salerno come momento di nascita del “partito nuovo”. Ma i partiti a integrazione di massa, così come le ideologie politiche quali grand récit de l’histoire, non esistono più. E averne nostalgia, seppure sia comprensibile, serve a ben poco. La prospettiva del soggetto politico organizzato, ovvero del modello di partito che contraddistinse l’esperienza storica del PCI, può quindi fornirci ben poche suggestioni.
Si tratta allora di comprendere quali altre importanti caratteristiche che hanno fatto del PCI un soggetto attivo della trasformazione della società italiana possano fornirci utili indicazioni per la sinistra del futuro, a cominciare dalle altre angolature dalle quali abbiamo detto sia possibile guardare all’esperienza storica dei comunisti italiani: cultura politica e koinè intellettuale, gruppi dirigenti e leadership, comunità di militanti. Anche se dobbiamo anzitutto chiederci se e in che misura sia ancora possibile integrare queste dimensioni in un orizzonte di senso e una conseguente visione di trasformazione sociale che, pur non avendo le tradizionali caratteristiche di un’ideologia, possa rappresentare un adeguato frame di riferimento per una prospettiva politica progressista e di sinistra.
La domanda quindi è:
nella società di oggi, è ancora possibile disporre di un partito in grado di integrare in una visione di trasformazione sociale coerente con i valori della sinistra (eguaglianza, libertà, pari opportunità, sviluppo sostenibile, tutela dell’ambiente), e nel quadro di una rinnovata cultura politica progressista, una koinè intellettuale, delle leadership e dei gruppi dirigenti, oltre che una comunità di militanti, per continuare ad alimentare la speranza di una società più giusta e di un mondo migliore?
Una possibile risposta che tragga spunto dall’esperienza storica del PCI, con gli imprescindibili limiti ai quali abbiamo prima accennato, rinvia anzitutto alla capacità di dotarsi di una nuova teoria descrittiva della società. I comunisti italiani, al pari dei loro compagni degli altri partiti comunisti nazionali, avevano una teoria della società, che era la teoria marxista. Oggi si rende necessaria una nuova teoria della società, in grado di fare i conti anzitutto con la differenziazione funzionale che contraddistingue i sistemi sociali del mondo globalizzato. E che sia in grado di riconoscere l’autonomia e l’interdipendenza dei sistemi sociali, sia fra stati nazionali sia, all’interno delle diverse società, fra i sistemi di funzione che le compongono. Una teoria utile a intraprendere un approccio più pragmatico e realistico alla costruzione delle politiche di riforma, sia a livello nazionale sia nell’ambito sovranazionale dell’Unione Europea, sia nel contento internazionale di una governance globale ancora tutta da costruire.
Inoltre, occorre dotarsi di un’idea normativa di società giusta, in grado di rappresentare il punto di riferimento privilegiato nella costruzione di un’agenda di politiche pubbliche ispirata alla sostenibilità economica e ambientale, oltre che finalizzata all’inclusione sociale. Un’idea in cui possano identificarsi diverse categorie e gruppi sociali, a partire da un rinnovato patto di cittadinanza fra vincenti e perdenti della globalizzazione. Un patto che sappia restituire senso alla natura cooperativa del vivere comune, riconoscendo negli effetti distruttivi e tragici della pandemia – in cui il mondo intero si è inaspettatamente ritrovato – quel principio di mutuo vantaggio che rende i membri di una società figli dello stesso destino. I comunisti italiani avevano una loro teoria della società giusta, che dall’idea togliattiana di democrazia progressiva alla strategia berlingueriana del compromesso storico, ha saputo delineare e produrre, pur fra limiti e contraddizioni, una storia politica nel solco della liberaldemocrazia di massa occidentale. A un certo punto della sua vicenda storica, quando aveva già intrapreso una via socialdemocratica, sebbene con tutte le ambiguità di chi non era riuscito a promuovere una sua Bad Godesberg, il PCI era riuscito anche a costruire una visione interclassista in grado di tenere insieme intellettuali, lavoratori, studenti e donne in un progetto di riscatto ed emancipazione comune, contribuendo così anche alla crescita democratica del Paese. Oggi, mentre la sinistra in Italia, come nel resto del mondo occidentale, sembra incapace di rappresentare gli interessi e le aspettative di chi vive ai margini dei processi del mondo globalizzato, la costruzione di un nuovo patto di cittadinanza in grado di imbastire nuove forme di solidarietà trasversali ai diversi gruppi sociali può rappresentare una risposta adeguata al diffondersi delle pulsioni sovraniste e populiste nei ceti più marginali e fragili della società.
Una teoria descrittiva della società e una teoria normativa di società giusta, capace di tenere insieme in un nuovo campo di solidarietà, oltre che in un rinnovato patto di cittadinanza, vincenti e perdenti della globalizzazione, possono contribuire in maniera decisiva alla formazione di nuovi gruppi dirigenti e leadership in grado di affrontare le sfide politiche del futuro. E ciò può accadere anche al di fuori della cornice politica e organizzativa che ha contribuito a fare del PCI un partito a integrazione di massa.
E anche se le forme della militanza politica non si manifestano più con la stessa pervasività e continuità del passato, questa può essere l’ispirazione che può ancora venirci dall’esperienza storica del PCI. La capacità di dotarsi di una visione della società, in grado di delineare un credibile orizzonte di sviluppo futuro. Non si tratta certo di ricostruire un quadro ideologico: come abbiamo detto, l’epoca delle grand récit de l’histoire è ormai definitivamente archiviata. Ma di impegnarsi nell’impresa collettiva di costruzione di una nuova identità politica e culturale, che trovi il sostegno di un network di attori individuali e collettivi, intellettuali e sociali; che sappia coniugare un’interpretazione descrittiva della società complessa di oggi con un’orizzonte normativo di giustizia, al fine di affrontare con qualche speranza quella competizione fra scenari che sembra ormai appannaggio esclusivo dell’élite manageriale delle grandi imprese multinazionali e che, invece, come ha dimostrato anche la recente pandemia, ha fortunatamente ancora bisogno della politica.
Guarda l’intervista allo storico Aldo Agosti