di Stefano Mangullo, per il percorso narrativo Le due dimensioni della politica: stato nazionale e ordine internazionale.
Nell’agosto 1914 i governi delle maggiori potenze europee – Germania, Francia, Gran Bretagna – decisero l’entrata in guerra potendo contare sull’appoggio di tutti i maggiori partiti dei rispettivi paesi; in assenza, quindi, di profonde fratture nel tessuto sociale della nazione. Diversa fu la vicenda italiana.
Dopo circa dieci mesi di neutralità, il 20 maggio 1915 il governo a fisionomia liberal-conservatrice – presieduto da Antonio Salandra e fortemente appoggiato dal re, Vittorio Emanuele III – ottenne dal Parlamento il consenso per portare il paese nella conflagrazione bellica a fianco dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia); fu così rovesciata la collocazione neutrale dell’Italia proclamata dallo stesso governo il 2 agosto del 1914 e confermata dalla Camera dei deputati il successivo 5 dicembre. Tale opzione esaudì le pretese del movimento “interventista”che aveva reclamato a gran voce la partecipazione dell’Italia al conflittoaggregando tuttavia una minoranza della popolazione italiana; minoranza egemonizzata da ceti piccolo-borghesi: intellettuali, professionisti, giovani studenti. Politicamente variegato (nazionalisti, democratici, radicali, repubblicani, socialisti rivoluzionari, personalità e gruppi minoritari del mondo cattolica), il fronte degli interventisti aveva tuttavia saputo costruire un comune immaginario nell’idea della guerra “rigeneratrice”, seppur diversamente coniugato. Era così riuscito a conquistare le piazze mettendo in scena forme inedite di attivismo e antagonismo politici, a volte violenti.
La maggioranza della popolazione – i militanti e i sostenitori del Partito socialista italiano (PSI), gli affiliati alle organizzazioni operanti nell’orbita della Chiesa, la maggioranza dei deputati al Parlamento, vicini alla posizione neutralista assunta da Giolitti – era stata invece contraria reclamando che il paese rimanesse fuori dallo scontro fra i due blocchi. Ma il variegato fronte dei neutralisti rimase diviso perché ciascuna componente si preoccupò di preservare la propria identità politico-ideologica.
Quando poi il governo, che aveva segretamente sottoscritto il patto di Londra, chiese al Parlamento l’approvazione dei crediti di guerra (20 maggio 1915), i deputati filo-giolittiani si adeguarono, mentre i cattolici si sottomisero all’“autorità costituita” e si mobilitarono per sostenere spiritualmente e materialmente la nazione in armi. Il PSI fu l’unico partito che in Parlamento votò contro la scelta operata da Salandra e dal re; fu anche fu l’unico dei grandi partiti socialisti europei che si oppose alla guerra. La spaccatura del paese, unita all’impostazione conservatrice del governo, rese quindi impossibile gestire l’eccezionalità della congiuntura bellica attraverso l’union sacrée delle rappresentanze politiche e sociali raggiunta negli altri grandi Stati europei.
La parola d’ordine “né aderire né sabotare”, lanciata dopo il fatidico 24 maggio, preservò gli ideali antimilitaristi e internazionalisti posti a base dell’opposizione alla guerra: credenziale politico-morale che tuttavia non risultò utile al PSIdurante la guerra, ma soltanto dopo la sua fine, con lo scoppio di una straordinaria conflittualità popolare. Sul piano nazionale, gravarono il rigido disciplinamento imposto alla società civile in nome della patria in armi e la dura politica repressiva attuata nei confronti di quanti nutrivano sentimenti contrari alla guerra, bollati tutti come “disfattisti”. Oltre che in ambito nazionale, Il PSI si trovò isolato anche livello internazionale: con il consenso prestato alla guerra dai due maggiori partiti socialisti d’Europa – il partito socialdemocratico tedesco (SPD) e il Partito socialista francese (PSF) – e con la dissoluzione della II Internazionale, il socialismo italiano perse i suoi naturali referenti.
Non da ultime pesarono le divisioni interne al partito. Fin dalla sua nascita nel 1892, il Partito socialista aveva sommato differenti tendenze politico-ideali che, alla vigilia della Grande Guerra, erano ulteriormente frammentate. Due grandi aree orientavano in misura prevalente il tessuto degli iscritti e dei dirigenti: l’area riformista, guidata da Filippo Turati e interpretata dalla rivista Critica sociale; l’area massimalista-intransigente, che al congresso di Reggio Emilia del 1912 aveva conquistato la maggioranza del partito guidata da Giacinto Serrati e con Benito Mussolini alla direzione dell’Avanti!, il quotidiano del partito.
Sino al 1917, le divergenze interne animarono il dibattito ma non portarono a divisioni insanabili. Poi verso la metà del 1917, la rivoluzione in Russia, la protesta popolare contro il peggioramento delle condizioni di vita e la disfatta militare di Caporetto, radicalizzarono le divergenze tra i riformisti di Turati e la sinistra massimalista di Serrati, nel cui alveo si formò una corrente, intransigente-rivoluzionaria, promossa da Amedeo Bordiga, decisa a passare dall’opposizione passiva alla guerra ad una opposizione attiva di tipo rivoluzionario.
Stefano Mangullo
Ricercatore del percorso Movimenti politici del progetto La Grande Trasformazione 1914-1918