Fin dalla sua prima formulazione, la società post-industriale è stata sempre associata alla trasformazione tecnologica, alla rivoluzione digitale e alla crescita di tutto quel settore dei servizi avanzati alle imprese che è l’altra faccia della deindustrializzazione nei paesi occidentali. Eppure una trasformazione ancora più grande è avvenuta in silenzio. Accanto alle segretarie, alle infermiere e alle maestre, le donne prima timidamente e poi con sempre maggiore slancio hanno iniziato ad occupare mestieri tradizionalmente maschili (pensiamo a ingegnere, avvocate e architette) fino ad arrivare al caso limite di Samantha Cristoforetti (non a caso oggetto di numerose e discutibili polemiche). Insomma, le donne professioniste non ci sorprendono più e i dati sulle loro performance formative dimostrano come in futuro vederle primeggiare sarà sempre meno una sorpresa.
Prendiamo ad esempio il caso degli architetti, nel 2010 le donne rappresentavano il 30% sul totale degli architetti operanti in Italia e in soli quattro anni sono salite a sfiorare il 40%. Lo stesso andamento vale per altre professioni tradizionali, come i medici o gli avvocati. Ma cosa succede quando il loro numero inizia a crescere anche nelle professioni considerate più attraenti? Nella letteratura sociologica sono principalmente due le posizioni teoriche a riguardo. Da un lato, gli studiosi affermano che l’ingresso delle donne sia legato ad una progressiva svalutazione della professione che determina un disinvestimento da parte degli uomini: è il caso della professione di architetto, dove la crescente esponenziale dei numeri (legata alla forte crescita della presenza femminile) ha determinato una sempre maggiore riduzione dei guadagni associati alla professione. Dall’altro, ci sono i sostenitori della teoria del “mettersi in coda”: le donne entrano sì nelle professioni di prestigio, ma a patto di occuparne le posizioni più subalterne.
Entrambe queste teorie dimostrano come non sia stata conseguita una vera parità sul mercato del lavoro. Le donne rimangono sempre più esposte a fenomeni di segregazione occupazionale, sia di carattere verticale – pensiamo al famoso tetto di cristallo, che impedisce alle donne di far carriera oltre certi livelli – sia orizzontale. Ovvero, la maggior parte delle donne presenti sul mercato del lavoro è spesso confinata in alcuni settori femminilizzati (pensiamo alla cura o all’educazione), caratterizzati da una cattiva qualità del lavoro con impieghi a orario ridotto, di carattere temporaneo e con scarse possibilità di carriera. Se riescono ad entrare nei settori più prestigiosi, lo fanno a prezzo di rimanere confinate in posizioni di basso livello o connotate femminilmente (pensiamo al diritto della famiglia nel caso gli avvocati), con conseguenti penalizzazioni salariali.
Fin dalla Strategia di Lisbona approvata nel 2000, l’Unione Europea ha sottolineato come il vero motore dello sviluppo continentale sia nelle mani delle donne: non solo perché la piena occupazione maschile è stata praticamente raggiunta in quasi tutti i paesi e un’ulteriore crescita occupazionale può solo venire dalla maggiore partecipazione femminile, ma anche per questioni di equità e giustizia. Tale equità passa soprattutto dal riconoscimento del ruolo economico di una donna come individuo: le disparità sul mercato del lavoro si combattono principalmente erodendo una certa cultura che vede le donne come le principali erogatrici di un lavoro di cura gratuito in seno alla famiglia. La vera parità sarà dunque raggiunta non con le donne astronauta, ma con gli uomini mamma, babysitter e colf: quando finalmente un datore di lavoro vedrà davanti a sé un lavoratore competente e non una potenziale madre di famiglia.
Lara Maestripieri