Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

“L’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sono un diritto umano essenziale per il pieno godimento del diritto alla vita e di tutti gli altri diritti umani”.

Attenzione, occorre non confondersi, perché non stiamo citando uno degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile contenuti nell’agenda ONU per il 2030. Il contenuto della frase ha già 8 anni e risale al 2010 quando Evo Morales, presidente della Bolivia, insieme ad altri 30 Paesi firmatari, rende realtà una storica risoluzione: durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari vengono inseriti tra i diritti umani fondamentali per la prima volta. È il 28 luglio 2010.  È la Risoluzione 64/292 delle Nazioni Unite. Eppure, a oggi, questo diritto non viene tutelato attivamente dagli stati membri.

L’acqua, anzi, è sempre più al centro di lotte e conflitti che riguardano la sua gestione, come le privatizzazioni del settore idrico o il controllo delle fonti primarie di approvvigionamento, tra i quali laghi e fiumi, che spesso sono confini naturali tra diverse nazioni e oggetto delicati equilibri transnazionali.

 

Water e land grabbing

Il fenomeno dell’appropriamento idrico, pur con diverse declinazioni e sfaccettature, prende il nome di water grabbing, ed è quasi sempre legato all’idea di land grabbing o accaparramento delle terre, dove soggetti quali multinazionali o nazioni straniere controllano grandi porzioni di suolo fertile per dedicarle alla produzione alimentare o energetica. Si tratta spesso di coltivazioni allocate all’interno di Paesi in via di Sviluppo, estensive ed estremamente idrovore, che drenano acqua in zone dove questa è scarsa sottraendola alle popolazioni locali per gli usi quotidiani essenziali. Come ricordano Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli nel libro “Water grabbing: Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo”, lo sfruttamento dei terreni locali avviene spesso sotto forma di accordi decennali di sfruttamento del suolo, invece che attraverso la semplice importazione di cibo e risorse: acquisire terre garantisce maggiori garanzie in caso di crisi alimentari, è una forma di contratto meno soggetta ai cambiamenti politici e, non da ultimo, garantisce di ottenere il controllo sulle fonti idriche.

 

Secondo i dati del Transnational Institute, organismo di ricerca e advocacy internazionale per l’equità, la democrazia e lo sviluppo sostenibile, sono 62 i Paesi dove avvengono fenomeni di water e land grabbing, e dove l’accesso e l’uso di terra e acqua è gestito in maniera impropria provocando effetti negativi sui diritti umani, sulla sicurezza alimentare locale e sui territori. Per dare un’idea del fenomeno si calcola che le terre grabbed nel mondo siano circa 30 milioni di ettari.

Quali sono i Paesi più colpiti?

Africa e Asia riportano rispettivamente il 47% e 33% del totale globale delle terre grabbed, che si concentrano principalmente in 24 Paesi Mondiali. In particolare Sudan, Filippine, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo mostrano le maggiori superfici di terre accaparrate, con 4,7, 5,2, 7,1 e 8 milioni di ettari di terreni grabbed rispettivamente. Paesi diversi, dove cambia la destinazione di utilizzo e le colture utilizzate (come le piantagioni di olio di palma nelle isole del pacifico), ma non il risultato: l’uso esteso dei terreni conduce nella grande maggior parte dei casi a deforestazione e successivo utilizzo in monocoltura estensiva.

 

Anche i dati relativi alla quantità di acqua accaparrata puntano nella stessa direzione: considerando la quota di “acqua blu” (cioè l’insieme delle acque di superficie e sotterranee, prelevate e consumate per uso domestico, industriale o agricolo) e quella di “acqua verde” (che comprende le precipitazioni piovane ed è conservata nella parte fertile del suolo e utilizzata dalle piante), i territori più sfruttati risultano essere nuovamente Sudan e Indonesia, rispettivamente con 44,3 e 124,4 miliardi di metri cubi d’acqua prelevati. Facendo un confronto in relazione alla popolazione, in Paesi come il Gabon, la Repubblica Democratica del Congo e il Sudan, il water grabbing sottrae rispettivamente 4.450, 2.380 e 1.850 m3 di acqua pro capite ogni anno.

 

Se l’acqua diventa conflitto

Alla luce di questi dati non sorprende che l’acqua, da risorsa naturale e bene universale, assuma invece i contorni di elemento da sfruttare. E non sorprende neppure l’acqua sia al centro di controversie di varia natura, generando o acuendo situazioni di conflitto.

Acqua, sicurezza alimentare e conflitti, una fotografia delle guerre per l’acqua nel mondo
(Iannelli – Bompan, 2018).

Secondo i dati del Pacific Institute, dal 2010 sono 263 i conflitti che hanno incluso l’acqua a vario titolo, e dove le risorse idriche sono state il motivo della disputa, l’arma usata (come nel caso di razionamenti o restrizioni volontarie) oppure la vittima di un conflitto (ad esempio nel caso di danno agli ecosistemi acquatici o nell’eventualità di avvelenamento della risorsa).

Dati che colpiscono e restituiscono la misura di come il soprannome “oro blu” sia tutto meno che figurato: a lungo termine, sia pure per una mera questione economica, geopolitica e sviluppo globale dovranno iniziare a fare i conti con l’acqua. O forse, per meglio dire, con la sua mancanza.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 50150\