Le recenti elezioni in Francia e Italia ci hanno mostrato ancora una volta una scena politica in cui a dominare è il vuoto delle idee e dell’autorevolezza dei suoi rappresentanti. Un vuoto occupato da partiti populisti, di destra o sinistra. Per rivitalizzare la democrazia servono partiti che tornino a confrontarsi con le necessità reali dei cittadini
La pausa estiva si avvicina e prima che l’afa e il mare di agosto inghiottano nell’oblio e confondano le linee come su tela sbiadita è utile un “redde rationem”, uno sguardo d’insieme sugli ultimi avvenimenti, fatti e protagonisti di un anno difficile nella vita politica italiana, in uno scenario europeo complicato in cui problemi simili toccano i diversi sistemi politici e sfidano nella sua essenza la forma democratica.
Viviamo un “temps troublé”, come Lionel Jospin, leader socialista e Primo ministro francese alla fine degli anni Novanta, dice oggi, senza retorica, in un recente saggio, analizzando la situazione presente con l’occhio non solo alla Francia. Mi sono chiesta: è la trama di un romanzo cupo dove alla fine spunta l’eroe positivo o un moderno Astolfo che corre sulla luna con l’ippogrifo a recuperare il senno di Orlando impazzito? Non so, ma è certo che dobbiamo tentare di ricostruire il sentiero tortuoso che ci ha portato fin qui e immaginare quali scenari ci aspettano, quali strumenti possediamo, di quali risorse disponiamo per invertire una tendenza che si fa via via più inquietante.
Le ultime vicende politiche e le tornate elettorali di Francia e Italia (presidenziali e legislative in Francia, amministrative in Italia) appaiano per molti versi i due Paesi, mostrando non poche analogie sia pure nelle palesi differenze dei sistemi politici e in quelle, pure significative, di cultura politica. Si potrà obiettare che le elezioni amministrative non sono sovrapponibili a quelle legislative, ma non c’è dubbio che esse sempre più spesso indicano un comportamento dell’elettorato locale che evidenzia tendenze più generali presenti nella società che poi esplodono a livello nazionale. Su queste vicende quindi occorre soffermarsi per capire la dimensione politica nella quale viviamo e come si configura il rapporto governanti-governati, uno dei nodi della politica da sempre.
Cosa hanno detto le elezioni
Dopo la vittoria alle presidenziali Macron registra un forte ridimensionamento alle legislative di poco successive, un terremoto che cambia la composizione del parlamento e toglie al Presidente la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale: una delle due spade che garantiscono l’unicità del potere presidenziale si è indebolita sotto l’attacco congiunto della destra estrema (Marine Le Pen) e della sinistra agguerrita, unita nella Nupes (realizzata da Mélenchon).
Il partito del Presidente ottiene 245 seggi, mentre le due opposizioni, la Nupes e il Rassemblement National conquistano una posizione forte all’Assemblea nazionale ottenendo rispettivamente 131 e 89 seggi. Da un giorno all’altro la scena è mutata, la presidenza regale, il presidenzialismo esasperato sono finiti sotto i colpi di un voto di protesta che ha premiato due partiti estremi, imbrigliando il potere del Presidente che, pur mantenendo intatti alcuni suoi poteri, secondo il dettato della Costituzione, deve fare i conti e quindi mediare con istanze e richieste prima non incisive e ora fortemente rappresentate. Gli inizi dell’attività del governo della Prima ministra Elisabeth Borne ne sono testimonianza precisa evidenziando una faticosa contrattazione su temi centrali, quali il “pouvoir d’achat”, in testa ai problemi dei francesi, o quello della “sécurité” anch’esso molto sentito.
In Italia le amministrative, come sappiamo, fuori dalla commedia dei commenti in cui sembrano tutti vincitori, hanno evidenziato alcune cose: la sconfitta dei 5 Stelle anche nella città, a partire da Genova, dove il movimento è nato; una costante discesa della Lega di Salvini, una discreta tenuta del PD, che ha recuperato al secondo turno, e un balzo in avanti della destra estrema di Giorgia Meloni che ha staccato nettamente le liste della destra in varie salse e si attesta come il primo partito.
Anche qui quindi un voto di protesta che esprime disagio e malcontento sociale, che si è concentrato però sulla destra intransigente scegliendo un partito fuori dalla coalizione di governo e penalizzando un movimento che alle sue origini era il portabandiera di una protesta tanto allettante quanto vaga nella sua postura, potrei dire, “massimalista”. Questo, già subito dopo l’esito elettorale, spingeva a una riflessione su cosa fosse successo, sul perché gli elettori avessero fatto queste scelte, su come si sarebbe configurato lo schieramento politico nel nostro Paese, insomma su dove andava la nostra democrazia. Gli avvenimenti e la loro sequenza sono stati però più veloci e urgenti delle nostre riflessioni.
La frattura e lo strappo
Il governo presieduto da Mario Draghi continuava sia pure fra le difficoltà interne di una maggioranza eterogenea e spesso riottosa e quelle esterne, in un contesto segnato dall’aggressione russa all’Ucraina, dalle sue ricadute economiche per l’intera Europa, dall’emergenza climatica e dalla necessità per l’Italia di varare al più presto i provvedimenti decisi e di attuare le riforme necessarie.
A un tratto, però, un lampo livido ha attraversato il cielo della politica e ne è seguito un grande fragore che faceva presentire tempesta. Il movimento 5 Stelle guidato da Conte non ha votato la fiducia al governo di cui pure faceva parte, uscendo pilatescamente dall’aula e Draghi, pur avendo la maggioranza numerica, ha rassegnato le sue dimissioni al Presidente Mattarella, ben sapendo che il problema politico va al di là dei numeri.
Ne sono seguiti giorni frenetici; Mattarella ha respinto le dimissioni rinviandolo alle Camere. Draghi ha accettato non sappiamo bene con quali pensieri, ma facendo prevalere una statura e un rigore intatti, pronunciando al Senato un discorso sobrio, fuori dalla retorica e da bassi mercimoni, deciso a continuare a patto di fare chiarezza su alcuni punti irrinunciabili sui quali era per lui possibile portare a termine gli obiettivi prefissati con la nascita del suo governo.
Ma la trappola era già preparata e la Lega di Salvini e Forza Italia di Berlusconi hanno usato l’apripista Conte, confuso, contraddittorio, tirato da più parti, un non leader insomma, per togliere anch’essi la fiducia al governo.
Il resto è cronaca di oggi e ci attendono le elezioni anticipate il 25 settembre e noi cittadini saremo come cavalli sfiniti, costretti a correre da cinici scommettitori sotto un sole bruciante. La campagna elettorale è già iniziata, frenetica, scomposta, con livori, accuse reciproche da parte di politici che sono in gran parte dei “figurants”, come De Gaulle definiva i politici della IV Repubblica francese ormai agli ultimi suoi sussulti: controfigure dei protagonisti veri che dobbiamo trovare, attori d’occasione, prezzolati, che poi spariscono.
Tutto questo cosa mostra, quali pensieri induce? Molti per la verità ma riassumibili in uno centrale: quello del vuoto in politica, della politica del nulla, dove una tela abbozzata, con pazienza tessuta, viene disfatta, dove la politica si è perduta, ha perduto la sua lingua, il suo scopo di progettare e mettere in comune, quindi di comunicare un progetto.
Nel migliore dei casi abbiamo uno scenario in cui gli attori politici mettono in campo una malfatta palinodia, una ripetizione meccanica di cose già dette che non si lega alle istanze di una società in continuo mutamento, non ne sente il battito, i bisogni, le aspirazioni.
Il problema oggi è quindi quello di uscire da questa bolla che opprime. I partiti devono riacquistare l’anima, senza la quale sono al massimo strutture di burocrati che instaurano il dominio di un’oligarchia senza uguali, anche sotto vesti progressiste o rivoluzionarie, come Weber prima e poi Michels ammonivano già un secolo fa; essi devono ritrovare quella scintilla vitale che fa sì che un’idea diventi progetto nell’incontro con la realtà, con uomini e donne in carne e ossa, con i loro desideri, incertezze e diritti.
Essi devono scendere fra la gente senza il piglio suadente dei vari populismi, ma con gesti e scelte concrete. Sì, perché la libertà e la democrazia non sono involucri astratti, gusci abbelliti che nascondono il vuoto, non sono la somma di libertà indistinte sbandierate come i prodigi degli equilibristi al circo, ma al contrario esse sono costruzione tenace, fuori dal respiro asfittico dell’”événementiel”, senza scorciatoie facili e allettanti proposte da chi vuole solo ottenere voti e consenso a buon mercato.
Sono molti i problemi del Paese oggi e Mario Draghi, di tempra solida e competenza indiscussa, che ci ha guidato nell’ultimo anno e mezzo, ci ha indicato alcune delle possibili soluzioni. Saremo capaci di non sprecare questo patrimonio e imboccare il sentiero giusto? È un interrogativo e un auspicio insieme, senza illusioni ma non disperante.