Il fenomeno dei Fab Lab – definibili anche, con minime distinzioni, come makerspace e traducibili come laboratori di fabbricazione – è in costante crescita in tutta Italia da circa il 2011 (nel 2014 ne sono stati censiti circa una settantina). Sono nati e si sono evoluti come l’esito da una parte di un lento declino che coinvolge il settore industriale, la fabbrica e la produzione di massa da qualche tempo ormai; dall’altra di un crescente sviluppo di diversi fenomeni riconducibili all’affermarsi di startup e spirito imprenditoriale, dell’interesse sempre più diffuso per il mondo dell’artigianato e del prodotto customizzato, mixati al cambiamento culturale relativo alla tecnologia in ottica open source, ovvero alla possibilità di condividere conoscenza, saperi, know-how ma anche spazi, ripartendo così i costi delle attrezzature e di gestione.
Per la sua relazione con il design e con l’innovazione tecnologica, Milano è certamente una delle città italiane in cui questa tipologia di spazi si è diffusa maggiormente, inserendosi naturalmente nella trasformazione dei luoghi del lavoro e della cultura e costituendo uno di quei trend che alimentano il fermento culturale degli ultimi anni.
WeMake – ufficialmente un makerspace – è uno di questi spazi, cioè un laboratorio adibito alla sperimentazione e alla realizzazione di oggetti di vario genere, che mette a disposizione dei propri associati macchinari digitali e manuali costituendo allo stesso tempo un luogo di socialità, aggregazione e formazione.
Specializzato in particolare nel settore tessile legato alla moda e in quello del design, è nato dall’iniziativa e dalle risorse di un gruppo di individui privati che in un primo momento hanno cominciato a sviluppare e presentare attività sui temi della fabbricazione digitale in modo itinerante all’interno della città. Questa fase embrionale ha consentito di definire e costituire il gruppo iniziale, raccogliere idee, pianificare, creare reti, e predisporre tutti i passi progettuali e attuativi che hanno portato all’effettiva apertura nel 2014, con la costituzione dell’associazione, l’iscrizione alla rete internazionale dei Fab Lab e la creazione di una vera e propria community sostenuta dai suoi membri.
Il laboratorio – circa 250 mq in affitto e localizzato in una zona semiperiferica a nord di Milano – è un caos generativo di attrezzi, prodotti già realizzati, scarti, lastre di plexiglass, stoffe, istruzioni per l’uso, in un mescolarsi di colori, materiali e forme e in cui si ha la percezione che gli oggetti siano tutti pezzi unici, l’esito di combinazioni segrete tra codici, algoritmi e numeri che non sono mai uguali tra loro.
La maggior parte dello spazio è occupato dalle macchine – lasercutter per incidere carta, cartone, stoffa, legno, plexiglass, pelle; stampanti 3D corredate da software di modellazione; fresatrici a controllo numerico per tagliare, scavare ed eseguire diverse lavorazioni su molti materiali tra cui la cera, la resina, le materie plastiche o i circuiti elettronici; macchine da cucire professionali, taglierine, circuiti – tutte a disposizione dei membri che possono utilizzarle con durata, tempi e costi diversi a seconda delle tipologie di abbonamenti e dopo aver acquisito l’abilitazione. Nel soppalco, costruito in un secondo momento grazie ad un bando promosso dall’Amministrazione che permetteva di recuperare una parte delle spese per nuove attrezzature, trovano spazio le postazioni per una decina di dipendenti e collaboratori, più o meno fissi.
Vi è poi un’area che può essere adibita a sala per lezioni, workshop, laboratori, che consente di ospitare attività esterne aumentando la massa critica del bacino di utenti, e talvolta di organizzare eventi pubblici e dimostrazioni, creando quindi più occasioni di divulgazione e maggiori connessioni con il territorio.
La declinazione del produrre cultura di WeMake, intesa come attività rivolta all’espressione artistica e creativa, ha strettamente a che fare con due obiettivi strategici quali l’accessibilità e l’inclusione e con le opportunità di applicarli al mondo della tecnologia, dell’hardware e del software. Tradotto nelle attività di tutti i giorni, questo significa concretamente cercare di rendere tutto quello che è tech e digitale accessibile a tutti, estrarlo da un ambito esclusivamente per esperti e diffonderlo nel suo senso più ampio.
Si tratta prima di tutto di un processo che consenta di provare a modificare l’approccio delle persone alla tecnologia. “Proviamo a cambiare il modo di pensare delle persone che vengono qui, a insegnare loro a non essere più solo consumatori passivi rispetto alla tecnologia ma a diventare attivi, ad immaginare di poter avere un ruolo.”
L’approccio maker prevede esattamente la possibilità di appropriarsi di un oggetto, di aprirlo, scoprirlo, comprenderlo nel suo funzionamento e anche modificarlo attraverso l’applicazione e lo sviluppo di conoscenze. Tale approccio consente potenzialmente di rimettere in discussione l’utilizzo e il funzionamento di qualsiasi oggetto ci circondi, immaginando di poterlo migliorare e riadattare secondo esigenze e necessità individuali, da soluzioni per problemi di disabilità per esempio, fino alla creazione di prodotti non ancora presenti sul mercato.
Questo ha certamente a che fare con un percorso di formazione e di accompagnamento all’acquisizione di nuove competenze, partendo dal presupposto che la fabbricazione digitale è basata su un codice, che altro non è che un linguaggio che può e deve essere portato all’interno del dibattito culturale diventando così di uso comune. È, infatti, ormai evidente come le tecnologie giochino un ruolo fondamentale in questo, nell’influenzare i modelli di produzione e diffusione dei contenuti culturali, contribuendo a ridefinire i confini dei processi creativi e della cultura stessa.
“Noi assistiamo tutti i giorni al cambiamento di motivazione e di intenzione che coinvolge le persone”. Questo – mi spiegano – ha richiesto un tempo tecnico di sperimentazione e diffusione per far capire come si declinasse il fenomeno dei Fab Lab, cosa succedesse all’interno di questi spazi e per poi veicolare l’offerta all’esterno.
Se in una fase iniziale WeMake, come molti altri, è stato in grado di attirare quasi esclusivamente ingegneri, programmatori informatici e falegnami – in buona sostanza addetti al settore – successivamente e in pochi anni è stato capace di abbassare le barriere all’ingresso, di attrarre tipologie diverse di target che in modi diversi declinano le possibilità introdotte dalla fabbricazione digitale a molti settori – designer, artisti, studenti, curiosi, utenti non professionali – e di creare un dialogo con le istituzioni, le scuole, ma anche le imprese e le aziende, provando a generare progresso sociale e tecnologico.
Se da una parte questo allargamento è stato l’esito di volontà e sforzi precisi, dall’altra si tratta anche di una nuova comunità nata spontaneamente, che si sta ancora oggi sviluppando attraverso la rete, il passaparola, la condivisione di interessi, l’integrazione di energie individuali.
Negli ultimi anni, infatti, il fenomeno della fabbricazione digitale ha raggiunto grande notorietà in modo più trasversale e democratico anche presso un pubblico non specializzato, soprattutto grazie all’evoluzione tecnologica di alcune modalità di produzione, quali per esempio la stampa 3D.
È questa stessa community abilitata alle tecnologie e alla fabbricazione che diventa lo strumento, “l’agente di cambiamento”, l’apporto necessario per la formazione di spazi di produzione in condivisione e per aumentare il capitale umano presente sul territorio. Se da una parte l’innovazione tecnologica sarà in grado di incrementare l’innovazione di prodotto e portare a un cambio di marcia nella capacità di produrre oggetti, dall’altra la costruzione di effetti di comunità e la possibilità di mettere in rete e in condivisione sapere e conoscenze su come progettarli e idearli assumerà un ruolo fondamentale.
Ilaria Giuliani
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
15/02/2017
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