L’ultimo dibattito tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti è stato il più seguito della storia. Nonostante i media di tutto il mondo si siano affrettati a decretare la “vittoria” di Hillary Clinton sul suo rivale Donald Trump, non sono emersi molti elementi veramente nuovi o inaspettati. I due candidati si sono limitati a reiterare slogan e posizioni – ma soprattutto critiche reciproche – già ben note. Più che un momento decisivo, si è visto quindi lo specchio di una delle campagne elettorali tra le più tristemente avvincenti della storia di questo paese.
L’aspetto più notevole è che, nonostante i programmi politici avanzati dai due candidati siano tra i più diversi nella memoria recente, tali differenze non sembrano interessare molto né i candidati stessi né il pubblico. A voler ascoltare il contenuto dei discorsi, ci si rende conto che entrambi hanno avanzato proposte molto più nette di quanto i precedenti candidati dei rispettivi partiti avessero mai osato fare, anche solo quattro anni fa.
Clinton ha dichiarato che intende alzare le tasse sui ricchi e sanare il “razzismo strutturale” che affligge il sistema giuridico del paese: posizioni che neanche Obama aveva osato assumere così esplicitamente. Trump, invece, ha dichiarato che intende abbassare ulteriormente le tasse sui più ricchi e liquidato il problema del razzismo come una questione di “law and order”.
I due candidati hanno poi assunto posizioni diametralmente opposte sul tema del commercio internazionale: mentre Clinton lo vede come un fattore di crescita e stabilità, Trump intende limitarlo, alzando le tariffe e rinegoziando i trattati internazionali. Eppure, tutto questo è passato quasi inosservato. Il vero oggetto del contendere era altrove: nell’idoneità tecnica di Trump ad assumere l’incarico di Presidente degli Stati Uniti da un lato e nella capacità di Clinton a connettersi emotivamente con l’elettorato dall’altra.
Sembra quindi che il tradizionale asse di opposizione ideologica – tra Sinistra e Destra, o più precisamente negli Stati Uniti, liberalismo e conservatorismo – sia stato sostituito da una nuova opposizione strutturante, tra tecnocrazia e populismo. È questo, in fondo, il vero messaggio che Clinton ha cercato di comunicare all’elettorato: che lei è competente, in quanto ha esperienza di governo, mentre il suo rivale manca di esperienza e sangue freddo.
Non a caso, l’argomento principale che ha mosso in favore del suo piano economico è che degli ‘esperti indipendenti’ lo avevano valutato più efficace nel ridurre il debito pubblico rispetto a quello di Trump. Nella stessa logica, prima ancora dell’inizio del dibattito, Clinton aveva convertito la sua pagina web in un meccanismo per controllare la veridicità dei fatti enunciati dal suo rivale. L’obiezione principale che lei gli muove non è di carattere politico, ma tecnico.
D’altra parte, la retorica di Trump mira essenzialmente a dimostrare che Clinton è una “political insider”, cioè un membro dell’establishment del paese, che lui dipinge come responsabile per il ‘disastro’ politico ed economico in cui esso si troverebbe. L’immagine che Trump vuole dare di se è invece quella di un ‘uomo d’affari di straordinario successo’, capace di risollevare le sorti del paese proprio in virtù della sua leadership forte e spregiudicata. Si riconoscono qui alcuni degli elementi distintivi di una forma di populismo a cui ci stiamo abituando anche in Europa: l’opposizione strutturante tra “élite” e “popolo”, e la pretesa di incarnare gli interessi di quest’ultimo in virtù di un ‘parlar franco’ che è supposto far appello agli istinti più gutturali della gente comune.
Sarebbe un errore pensare che questo riallineamento politico sia un fenomeno proprio esclusivamente agli Stati Uniti. Stiamo osservando qualcosa di molto simile anche nel nostro continente. La campagna che ha preceduto il voto su Brexit, ad esempio, è stata combattuta sullo stesso asse. I difensori del Remain sostenevano che uscire dall’Unione Europea sarebbe stata oggettivamente una catastrofe per il Regno Unito, citando le previsioni degli ‘esperti’ come argomento principale.
La campagna per il Leave, invece, faceva vanto di ignorare il parere degli “esperti” sostenendo di rappresentare la vera volontà del popolo: “the people are sick of experts” ha famosamente dichiarato Boris Johnson in uno dei momenti decisivi della campagna. Una simile tendenza si può poi riscontrare anche nel nostro paese, dove il dibattito verte sempre di più sul malumore del popolo nei confronti del governo in carica e la competenza tecnica dei 5 Stelle a governare.
C’è quindi ragione di pensare che il dibattito di lunedì scorso tra Hilary Clinton e Donald Trump ci abbia offerto un assaggio di quello che potranno diventare i dibattiti politici anche da noi. Invece che il tradizionale scontro tra progetti concreti e visioni ideologiche contrapposte, si sta disegnando un futuro caratterizzato dall’opposizione tra populismo e tecnocrazia.
Non è stato un bello spettacolo.
Carlo Invernizzi Accetti
City College of New York
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