Questa estate il mondo era un po’ più piccolo. Tante mete estromesse dalle carte geografiche del turismo, scalzate ai margini sotto le pressioni delle minacce terroristiche. Tutti in Puglia, alcuni in Grecia, ma lontani dagli approdi dei migranti. La Turchia? Forse meglio di no.
Questa estate il mondo sembrava ristretto e arruffato. Un mondo di gran lunga diverso da quell’universum pacificato che a lungo è stato vagheggiato e fabbricato.
Già negli anni Cinquanta, Günther Anders notava come l’uomo si fosse impegnato in una tenace opera di rimozione del tempo e dello spazio: il mondo doveva diventare liscio, a portata di mano, una risorsa impiegabile e attraversabile a piacere. L’immediatezza – l’accelerazione di quelle risposte che garantiscono la soddisfazione istantanea dei propri bisogni – stava diventando il nuovo imperativo. Tempo e spazio, anziché vissuti come occasioni di trasformazione, venivano via via scansati come mero fattore di differimento. Come distanza svuotata di senso e di desiderio.
Abbiamo voluto un mondo presente e al presente, con poca storia e disponibile a un uso immediato, più che a un progetto di futuro. Un mondo che, per citare Marc Augé, anela a una promessa di unità, che è insieme eliminazione delle distanze e delle differenze. Una tensione all’unità che fa tutt’uno con la rimozione del male, della violenza, del pericolo: Ma dov’è finito dunque il Male? si chiedeva Baudrillard qualche anno fa.
Abbiamo voluto un mondo trasparente, redento e rischiarato.
Un mondo passato al candeggio, dove l’esotico non avesse altro sapore se non quello di un piatto da assaggiare in qualche festival gastronomico. Questa dunque la tensione utopica della contemporaneità (o della sovramodernità, per dirla sempre con Augé): una rincorsa all’unità, all’istantaneità dell’accesso, alla rimozione del lontano. Una tensione che oggi, tuttavia, vediamo infrangersi sulle contraddizioni e sulle durezze della storia. L’altro e il remoto, tutt’altro che sopiti, riaffiorano nella figura fantasmatica del diverso e del pericolo. Il progetto u-topico del mondo senza altrove si scontra con la carica etero-topica delle “zone calde” del pianeta. Lembi di terra che lentamente – dal Bangladesh alla Siria, dal Mali al Pakistan – spariscono dalle timetable degli aeroporti internazionali. Nell’orizzonte utopico dell’unità, i mondi altri ricompaiono nelle etero-topie del rischio.
“Le utopie consolano” scriveva Michel Foucault ne Le parole e le cose “aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili”. Al contrario, “le eterotopie inquietano (…) perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni”. Le eterotopie hanno un potere destabilizzante di contestazione del reale: hanno la capacità di “sospendere e invertire l’insieme dei rapporti” che organizzano e definiscono i regimi spaziali in cui abitualmente siamo immersi. Ci mettono in guardia, insomma, e ci invitano a dubitare del modo apparentemente logico, cristallino, indubitabile con cui mettiamo in ordine le parole e le cose.
È curioso allora pensare che le eterotopie di oggi ci mettono in guardia proprio mettendoci in pericolo, disegnando una geografia del rischio che getta in crisi quel principio di unità e pacificazione che a lungo abbiamo inseguito.
Ma il fatto che il mondo sia diventato più piccolo, che interi spicchi siano scivolati nella dimenticanza dell’offilimits, non è bastato a confinare la minaccia nell’altrove. Gli attentati degli ultimi mesi ci raccontano di un mondo tutt’altro che liscio e trasparente, ma anzi torbido e increspato, dove pericoli e incognite si annidano in ogni grinza.
L’utopia è diventata una distopia e l’altro siamo diventati noi, l’altrove le nostre città. Basti pensare che tra le mete proibite o in ogni caso temute, quest’anno, ci è finita l’Europa per intero: dopo le stragi di Bruxelles, il Dipartimento di Stato degli USA ha diramato un travel warning, sconsigliando ai cittadini americani viaggi verso e in Europa.
Resta allora da capire se il nuovo sogno utopico che ci vorremo intestare sarà capace di rovesciare il precedente: un’utopia della molteplicità capace di accogliere e ripristinare le differenze. Un’utopia che è insieme sensibilità per le provenienze e le profondità che restituiscono spessore alla superficie del qui ed ora. Un’utopia eterotopica, insomma, capace di immaginare un mondo in comune proprio perché lontano dai luoghi comuni.
Caterina Croce
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli