Gli uomini liberi e i testimoni della fede

Tianasquare

Non sappiamo come si pensasse l’uomo solitario che, nella famosa foto a Piazza Tienanmen, sta di fronte al carro armato e lo obbliga a fermarsi. L’immagine è troppo lontana per capire l’espressione del volto. I resistenti, quand’anche abbiano avuto la tentazione di avere un culto di sé, poi hanno avuto, specie nelle ore precedenti la morte, un momento in cui vale il mondo dei propri affetti e, soprattutto, la scommessa di un futuro per tutti. “Non ti preoccupare troppo per me – scrive Leone Ginzburg alla moglie Natalia nella sua ultima lettera – immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci si essere nel maggior numero, non è vero, Natalia?”

Il testimone della fede, invece, tiene molto a far sapere di sé. È un attore in scena. Anche per questo il suo gesto è istrionico. Non guarda coloro che ha eretto a suoi nemici: perché li disprezza e non li ritiene “alla sua altezza”. C’è molto narcisismo nell’atto di darsi la morte. Il centro del suo atto è il culto di sé. Il suo gesto è pregno, prima ancora che di convinzione, di volontà di onnipotenza. Meglio: di desiderio di possesso del corpo, e ancor più della mente, degli altri, che egli guarda come indifferenziata moltitudine. Anche per questo, per lui, la loro vita non ha valore, e nemmeno la loro morte. Nel suo progetto, c’è solo il dominio degli altri. Riconoscergli la possibilità di pensare la libertà, anche solo la sua, dando per buono che si racconti come oppresso, è sbagliare destinatario della nostra riflessione. Il segno del passaggio da oppresso a combattente per la libertà, infatti, non consiste nel prendere un’arma e combattere un nemico, bensì nel progetto di “dopoguerra” che si persegue. Dopo la sua vittoria egli non prevede che ci siano i cittadini del mondo, ma i “signori”. Gli altri, al più, sono schiavi. È significativo: nella lingua del testimone della fede non c’è la parola “sconfiggere” l’avversario, ma solo la parola “vincerlo” e dunque sottometterlo. È il lessico dei totalitarismi del XX secolo, del fascismo, tanto per non parlare solo del passato degli altri, ma anche del nostro. Vincere non è solo uno slogan, è una parola che testimonia di un progetto, di una mentalità, prima ancora che di una volontà.

Pensarsi liberi e combattere per la libertà vuol dire promuovere un’idea di condivisione. All’opposto del testimone della fede, la testimonianza di Khaled al-Asaad, l’archeologo che ha difeso con la vita il diritto all’universalità della cultura è essere, prima ancora che pensarsi, cittadini del mondo. Quella testimonianza dice quale sia la natura dell’impegno per l’affermazione della libertà nel XXI secolo, come quella di Leone Ginzburg nel XX. Li riunisce in un’identica famiglia politica. Lo stesso vale per i loro rispettivi nemici.

David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Fetrinelli

23/11/2015

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