30 settembre 1938, settantotto anni fa, una data che molti non ricordano. Tendiamo a dimenticare le date che fanno problema. Soprattutto quelle che non raccontano l’orgoglio. Quella data dice molto dell’Europa non solo di allora, ma anche di ora. Anche per questo, forse, un silenzio assordante la circonda.
È l’estate del 1938. Hitler dichiara che le popolazioni di madrelingua tedesca della parte occidentale della Boemia – in quel momento parte della Repubblica di Cecoslovacchia – hanno il diritto di ritornare nell’alveo della madrepatria. Tutti sanno cosa significhi quella richiesta. L’annessione dell’Austria al Reich tedesco (avvenuta pochi mesi prima, il 12 marzo 1938) è ancora un fatto vivo nella memoria collettiva.
Édouard Daladier, primo ministro di Francia, e Neville Chamberlain, primo ministro d’Inghilterra, le uniche democrazie d’Europa un continente che nella seconda metà degli anni ’30 è un album di dittature e di totalitarismi, hanno un vincolo di difesa con la Cecoslovacchia. Dichiarano di volerlo onorare (luglio 1938), poi dichiarano che se ne potrebbe discutere (15 settembre 1938) poi dicono che parlare è sempre un modo per risolvere i problemi e non entrare in guerra (28 settembre) infine con la mediazione di Mussolini volano a Monaco il 29 settembre mattina e ne escono il pomeriggio del giorno dopo dichiarando che il problema è risolto. I Sudeti sono della Germania.
Quella scena a lungo l’abbiamo lasciata dietro di noi in questo lungo secondo dopoguerra. Eravamo convinti che fosse una storia finita e che non si sarebbe più ripetuta (un altro dei molti “mai più” che abbiamo detto in questi ultimi venti anni). Soprattutto abbiamo più volte ripetuto che l’idea che il bene collettivo richieda sacrifici, impegno, oltre il proprio benessere momentaneo o il proprio “particolare”, costituiva, proprio di fronte a quella scena disonorevole, un tratto costitutivo della nuova Europa dei diritti.
Ottanta anni dopo eccoci di nuovo qui. Ci risiamo. Di fronte al problema degli esodi di massa – la parola emigrazione è francamente limitativa della rilevanza del fenomeno – invece di pensare una politica di investimenti, una condivisione delle risorse da investire o degli impegni da prendere, torna prepotente il paradigma “tengo famiglia e mi faccio i fatti miei”. Non è forse questo il senso comune di gran parte dell’Europa convinti che sia sufficiente scaricare sul vicino il problema collettivo perché il problema non esista o, comunque, non ci riguardi.
Non è vero che il passato è passato. C’è un presente che pesca nel passato che è bene mettere a fuoco. Anche perché quel passato e le incertezze del presente significativamente parlano di futuro, di quello che alcuni vogliono. Ecco perché tornare a riflettere sulla storia lunga d’Europa, sui vecchi vizi che hanno popolato il Novecento a partire dai luoghi problematici in cui l’Europa è mancata a se stessa ha un senso.
A lungo ci siamo raccontati l’Europa come una sfida, come un’utopia, come una visione maturata nella congiuntura più oscura della storia d’Europa, ovvero negli anni dell’Europa nazificata e che doveva soprattutto fare memoria di quell’esperienza e degli errori, per non ripetersi. È vero.
L’idea di Europa nasce su un’isola battuta dal vento in ogni stagione, lunga un chilometro e mezzo e larga al massimo ottocento metri; un’isola senza acqua, senza elettricità, dove si è prigionieri e da cui non si pensa di uscire a breve.
Ma Europa è anche la domanda di fronte al venir meno della propria responsabilità, di fronte a una realtà che va diritta incontro alla catastrofe, non ha una politica e crede che la mossa furba sia scaricare i problemi, lasciare che i “guappi” impongano la loro ragione, o senza proporre una politica capace di contrastare qualcosa che sembra inarrestabile, opponendo prima una sorta di fatalismo e poi, in nome dell’orgoglio ferito, tirandosi fuori, convinti che questo sia sufficiente a salvarsi. Per tutti costoro valgono le parole di Winston Churchill all’indomani della firma del Patto di Monaco, “Gran Bretagna e Francia potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra”.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
30/09/2016
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EBOOK: “L’EUROPA CHE ANCORA NON C’È”
Per approfondire l’articolo di David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli propone l’ebook L’Europa che ancora non c’è: una raccolta in italiano e in inglese dei testi di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, che durante la Resistenza promossero l’idea di un’Europa federale e democratica come fuoriuscita definitiva dai totalitarismi.
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LE PASSIONI DELL’EUROPA
“L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare,non è un’Europa chiusa contro nessuno, è una Europa aperta a tutti”, sono le parole che Luigi Einaudi pronuncia nel luglio 1947 alla Costituente. L’Europa allora era un sogno, un progetto . Quanto quelle parole parlano oggi a noi? Com’è possibile farle ancora parlare a noi?
LEGGI L’ARTICOLO DI APPROFONDIMENTO, A CURA DI FONDAZIONE GIANGIACOMO FELTRINELLI.
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