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Da alcuni anni le aziende della Silicon Valley promettono prosperità, uguaglianza e una nuova società in cui tutto sarà condivisibile e accessibile, superando le vecchie logiche di mercato. Secondo Evgenji Morozov [in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli il 13 aprile alle 19.00], nel suo libro Silicon Valley: I Signori del Silicio, – di cui qui sotto riproduciamo un estratto – di democratico in queste promesse c’è ben poco, identificando le grandi corporations high-tech come l’ultima incarnazione del capitalismo.

Il sociologo bielorusso ci induce a riflettere al di là della suadente retorica della rivoluzione digitale adottando una lente post-internet nella lettura della realtà, per comprendere come le innovazioni digitali rappresentino solo una maschera dietro cui i giganti tecnologici americani si nascondono per perseguire i propri interessi a discapito della maggioranza della popolazione.

Il punto, continua Morozov, non è che le promesse della Silicon Valley siano false o fuorvianti – spesso lo sono -, ma che tali promesse possono essere comprese solo se inquadrate in un contesto più ampio: la scomparsa dello Stato sociale, la sua sostituzione con alternative più snelle, rapide e cibernetiche, e poi il ruolo che la libera circolazione dei dati è destinata a ricoprire in un regime commerciale di completa deregulation. Di solito non ci occupiamo di questi problemi quando parliamo della rivoluzione industriale, ma forse dovremmo. Questo, forse, ci consentirebbe di strutturare al meglio l’attuale e futura relazione uomo-macchina all’insegna di una società inclusiva in cui i diritti vengano tutelati e i cittadini lavoratori non perdano il loro senso di appartenenza e cittadinanza. [Andrea Zucca]


«La sinistra non è mai stata un asso nel creare eccitanti narrazioni a sfondo tecnologico, e infatti anche in questo caso non ha alcuna eccitante narrazione da offrirci. Peggio ancora: non ne avrà mai una se non riscriverà la storia di internet – l’humus intellettuale della Silicon Valley – come una storia di capitalismo e imperialismo neoliberista.

Già come concetto, internet non è una nitida fotografia della realtà. Somiglia più alla macchia d’inchiostro del test di Rorschach, e di conseguenza chi la guarda ne trarrà una lezione diversa a seconda della sua agenda politica o ideologica. Il problema di internet come concetto regolativo su cui basare una critica alla Silicon Valley è che la rete è così ampia e indeterminata – può contenere esempi che portano a conclusioni diametralmente opposte – che lascerebbe sempre alla Silicon Valley una facile via di fuga nella pura e semplice negazione. Dunque qualsiasi sua critica efficace dovrà anche sbarazzarsi del concetto stesso.

Persino progetti come Wikipedia si prestano a questa lettura duplice e ambigua. Nel sinistrorso ambiente accademico americano la tendenza dominante è leggere il suo successo come prova che le persone, lasciate a se stesse, sono in grado di produrre beni pubblici in modo del tutto altruistico e fuori dal contesto del mercato. Ma da una lettura liberista (o di destra) emerge un’interpretazione diversa: i progetti spontanei come Wikipedia ci dimostrano che non serve finanziare istituzioni perché producano beni pubblici come la conoscenza e la cultura quando qualcun altro – la proverbiale «massa» – può farlo gratis e per giunta meglio.

La nostra incapacità di smettere di vedere ogni cosa attraverso questa lente internet-centrica è il motivo per cui un concetto come la sharing economy risulta così difficile da decifrare. Stiamo assistendo all’emergere di un autentico post-capitalismo collaborativo o è sempre il buon vecchio capitalismo con la sua tendenza a mercificare tutto, solo elevata all’ennesima potenza? Ci sono moltissimi modi di rispondere a questa domanda, ma se partiamo risalendo agli albori della storia di internet – è stata avviata da una manica di geni intraprendenti che smanettavano nei garage o dai generosi fondi pubblici delle università? – difficilmente troveremo una risposta anche solo vagamente precisa. Vi do una dritta: per capire l’economia della condivisione bisogna guardare – indovinate un po’… – all’economia.

Da una prospettiva culturale, la questione non è se internet favorisca l’individualismo o la collaborazione (o se danneggi o agevoli i dittatori); la questione è perché ci poniamo domande così importanti su una cosa chiamata internet come se fosse un’entità a sé stante, separata dai meccanismi della geopolitica e dal contemporaneo capitalismo iperfinanziarizzato. Finché non riusciremo a pensare fuori da internet, non potremo tracciare un bilancio corretto e attendibile delle tecnologie digitali a nostra disposizione.

Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali.

Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be’, significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai «dettagli» economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un’azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l’attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per «libero flusso di capitali» –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale.

Una simile lente post-internet potrebbe far sembrare il mondo un posto assai deprimente, ma non più di quanto già lo sia la realtà stessa del capitalismo di oggi. Questo nuovo modo di vedere ci offrirebbe anche un’idea di quello che bisogna fare e dei soggetti a cui si potrebbe affidare un eventuale programma di emancipazione. Una discussione adulta e matura sulla costruzione di un solido futuro tecnologico deve iniziare dal riconoscimento che dovrà essere anche un futuro tecnologico non liberista.

Quindi, invece di continuare a discutere all’infinito su quanto emancipante possa essere il consumo o su come dobbiamo adattarci all’ultima calamità imparando a codificare la nostra soluzione individuale, dovremmo chiederci quale effetto hanno le politiche di austerity sugli stanziamenti per la ricerca. Dovremmo indagare sul fatto che l’evasione fiscale delle società tecnologiche impedisce alle alternative pubbliche di emergere. Dovremmo ammettere che l’incapacità delle persone di arrivare a fine mese a causa della crisi economica rende la sharing economy, con la possibilità che offre di mettere sul mercato tutto ciò che si possiede, non solo allettante ma anche inevitabile.

Per tornare a una delle prime domande che ci siamo posti: possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull’economia e la politica. Se la maggior parte di noi crede in qualche specie di «fine della Storia» – perché non ha voglia o non è capace di indagare la possibilità di una genuina alternativa sia al capitalismo globale sia al ruolo dominante del mercato nella vita sociale –, allora davvero non c’è speranza. Qualsiasi nuovo valore internet abbia potuto contenere al suo interno sarà schiacciato dall’attrattiva del soggettivismo neoliberista.

Tuttavia, se si pensa allo stato disastroso in cui versa oggi il capitalismo – dalla crisi finanziaria alle guerre in Medioriente al possibile sgretolamento dell’Unione Europea –, è difficile non dare per scontata una simile teoria della «fine della Storia».

Insomma, la cattiva notizia è che, se vogliamo che internet esprima fino in fondo il suo potenziale, il capitalismo deve finire. La buona notizia è che questo potrebbe succedere prima di quanto pensiamo».

Evgenij Morozov, Silicon Valley: I Signori del Silicio, Codice Edizioni, Torino, 2016


Approfondimenti

IL GIORNALISTA E SOCIOLOGO EVGENIJ MOROZOV IN FONDAZIONE GIANGIACOMO FELTRINELLI

GIOVEDÌ 13 APRILE, ALLE 19.00,
LA DISCUSSIONE PUBBLICA “L’UOMO DIGITALE E IL LAVORO UMANO”
IN VIALE PASUBIO 5 A MILANO

 

Morozov

 

A Evgenij Morozov, giovane giornalista e sociologo bielorusso, è affidata la prima delle tre lecture e discussioni pubbliche “Milano Talks: tecnologia, creatività e disuguaglianza” dedicate alle trasformazioni sociali ed economiche del mondo del lavoro che Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, in partnership con The Adecco Group, organizza in viale Pasubio 5 a Milano.

L’incontro, intitolato L’uomo digitale e il lavoro umano, indagherà quale impatto la rivoluzione 4.0 ha avuto sulle dinamiche della cittadinanza, a partire dalla presenza nel mercato del lavoro fino alle nuove modalità di inclusione ed esclusione, passando per le forme di rappresentanza e partecipazione politica.

La discussione pubblica, a ingresso gratuito realizzata anche grazie alla collaborazione del Comune di Milano, Fondazione Cariplo, European Alternatives, vede la partecipazione di Lorenzo Marsili, direttore di European Alternatives, e Francesca Bria, direttore del dipartimento di Tecnologia e Innovazione Digitale del Comune di Barcellona.

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