Tra il 2010 e il 2011 il fotografo Alessandro Penso dedica uno dei suoi progetti ai lavoratori migranti impiegati illegalmente in Italia nel settore agricolo. Migrant Workers Journey descrive e documenta le condizioni di lavoro di quell’esercito di braccia e volti senza nome che ogni anno si muove per il sud Italia – non solo a Rosarno, in Calabria, ma anche per la Puglia, la Basilicata, la Campania – legando la propria vita al ciclo del raccolto.

Si stima che siano più di tremila i migrant workers che lavorano nei nostri campi fino a dodici ore al giorno, per salari che non superano i venticinque euro. Sotto al sole, senza diritti e senza uno straccio di tutela.

Abbiamo chiesto a Alessandro Penso come sono nate due delle foto del progetto Migrant Workers Journey.

Dove è stata scattata questa foto, come sei arrivato qui? Si parla spesso di Rosarno, ma si conoscono poco altre realtà: cosa hai scoperto con questo lavoro?

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Il mio interesse per i lavoratori migranti è nato in occasione della rivolta di Rosarno del 2010, ma iniziando questo progetto di documentazione fotografica mi è subito stato chiaro che i campi di Rosarno non erano che una piccola parte della storia. Quello che accadeva in Calabria con la raccolta del mandarino stava accadendo per il prodotto più classico dell’agricoltura italiana: il pomodoro.

Da lì ho scoperto altre realtà e le numerose rotte seguite dai migranti: la Basilicata, la Calabria e la Puglia. Durante la stagione, che dura sei o anche sette mesi all’anno, si muovono per miglia da est a ovest e dal sud al nord in una sorta di pellegrinaggio.

Questa foto, in particolare, è stata scattata nel 2010, nella provincia di Foggia. Ritrae un ragazzo del Burkina Faso durante la raccolta dei pomodori. Spesso i lavoratori stagionali vengono pagati a cottimo. Ovvero a cassone, per un prezzo che si aggira intorno ai tre euro e cinquanta.

Questa foto dà il senso della fatica fisica: le schiene chine, impegnate nella raccolta. I muscoli tesi a traportare pesi. Che idea ti sei fatto delle condizioni di lavoro di queste persone?

Si basa tutto sulla forza fisica e la voglia – spesso disperata – di guadagnare. Il lavoro viene premiato in base alla produttività: come dicevo, si incentiva la raccolta a cottimo, che ormai dovrebbe essere vietata.

I ragazzi per lavorare devono sottostare al ricatto del caporalato. Il caporale è l’unico che può garantire opportunità di lavoro, spesso per il semplice fatto che è l’unico in grado di tradurre: una mediazione linguistica dove conta solo la sua parola.

Per lavorare nei campi, bisogna pagare una percentuale sul lavoro, il trasporto e spesso anche l’alloggio. Tutto in un regime di sfruttamento in cui non esiste nessuna forma di tutela sanitaria.

Inoltre, i ragazzi sono impegnati a giornate, non hanno nessuna garanzia sulla durata del lavoro, spesso lavorano solo 1 o 2 giorni a settimana.

Qui vediamo una casa fatiscente, pericolante, un campo che sembra sconfinato e in primo piano tre uomini che trasportano delle taniche. Cosa c’è nelle taniche? La casa alle loro spalle è il posto in cui vivono durante la stagione?

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Qui siamo a Boreano, al ridosso di Palazzo San Gervasio in Basilicata. Boreano è un piccolo borgo completamente abbandonato, che un tempo prendeva vita durante la raccolta agraria. Questa foto rende bene l’idea di dove vivano queste persone durante la stagione del raccolto. Le case spesso sono spesso ruderi abbandonati, senza energia elettrica e senz’acqua. In una stessa casa malandata possono essere stipati anche in venticinque, ammassati in letti di fortuna, senza servizi igienico-sanitari.

Qui vediamo dei ragazzi che portano all’interno del rudere delle vecchie taniche di fertilizzanti, che hanno riempito d’acqua.

Il lavoro è precario, quindi non possono permettersi nessun affitto. Il quadro tuttavia non è omogeneo.

In Puglia, ci sono dei veri villaggi africani che in estate, nel momento principale della raccolta, possono arrivare a ospitare fino a 2000 persone.

In Calabria la situazione è ancora diversa: i ragazzi trovano alloggio, spesso pagando, nel centro di Rosarno in vecchie case decadenti o palazzi dismessi, a volte anche in fabbriche ormai abbandonate.

Infine, in Campania, molti cercano di affittare una casa, si mettono insieme fino a dieci persone e cercano qualche soluzione in paesi come Casal di principe. Un affitto, che viene a costare circa cinquanta euro a testa, garantisce loro la possibilità di avere una residenza fisica, cosa indispensabile per avere il permesso di soggiorno e tentare la via legale del lavoro.

IN GENERALE:

C’è qualcosa che non sei riuscito a catturare con le tue foto? Qualcosa che resta fuori, senza rappresentazione e senza voce?

Penso sempre che vorrei tornare per poter mostrare come gli abitanti di Rosarno siano loro stessi vittime di un’economia schiacciante dominata da associazioni mafiose, dove la stato non interviene.

Già quando arrivi a Rosarno, hai subito un forte impatto. Le strade non sono finite, le luci spesso non funzionano. Ti rendi conto che qui lo Stato è “lontano” e che le persone vivono in un grande disagio. È paradossale che, proprio in questo quadro, prenda vita anche la tragedia dei lavoratori stagionali, che tuttavia diventano una piccola risorsa per la sopravvivenza della comunità.

Alessandro Penso
Fotografo

05/10/2016


Approfondimenti

Mostra fotografica: “Oneday”

Inaugura giovedì 6 ottobre alle 19, a “Officine Fotografiche Roma”, OneDay di Alessandro Penso, a cura di Annalisa D’Angelo. La mostra apre la stagione espositiva di Officine Fotografiche in occasione dei festeggiamenti per i quindici anni di attività dell’associazione.

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